Maledetti calciatori

Beppe Di Corrado

Dinho suona i bonghi del maledetto. L'ultimo non l'unico. Feste, alcol, donne, giornali che ci entrano e leggende che si moltiplicano. La verità è sempre qualcosa che va oltre la mitologia. Non è questione di peggio o meglio, ma di aderenza alla realtà: adesso è il turno del brasiliano mojito-dipendente. Quello che una volta era Roma, adesso è Milano: la nuova giungla del gossip alcolico, dell'insider vippaiolo-pallonaro. C'è sempre uno che ti racconta la storia di qualche brasileiro che si scarica una caraffa di cocktail e poi arriva ubriaco all'allenamento del giorno dopo.

    Dinho suona i bonghi del maledetto. L'ultimo non l'unico. Feste, alcol, donne, giornali che ci entrano e leggende che si moltiplicano. La verità è sempre qualcosa che va oltre la mitologia. Non è questione di peggio o meglio, ma di aderenza alla realtà: adesso è il turno del brasiliano mojito-dipendente. Quello che una volta era Roma, adesso è Milano: la nuova giungla del gossip alcolico, dell'insider vippaiolo-pallonaro. C'è sempre uno che ti racconta la storia di qualche brasileiro che si scarica una caraffa di cocktail e poi arriva ubriaco all'allenamento del giorno dopo. C'è il vero, il verosimile, il falso. Insieme fanno una realtà che diventa di dominio pubblico prima che giunga ai giornali. Allora a turno: Adriano, Maicon, Dinho, Mancini. La storia pressoché identica con qualche rivolo di differenza perché sia più credibile. Non ci sono invenzioni, ma aggiustamenti di una cronaca che esiste, ma dev'essere rafforzata da qualche elemento più dirompente. E' giusto, alla fine. E' normale.

    C'è che il malessere o qualcosa che a questo si avvicina è comune e diffuso e fa spesso scopa con la voglia di farlo sapere al mondo. C'è una maledizione che sembra giocare a domino: passa, tocca e prende un altro. Dinho e i suoi tre giorni di festa in albergo prima del derby sono quello che è successo ad Adriano qualche tempo fa, prima dell'addio all'Italia, prima della riabilitazione in Brasile, prima della rivelazione della depressione. Ci si inzuppa molto perché, però, molto c'è di vero. L'abbiamo visto, lo vedremo e forse accade anche per questo. Per noi che assistiamo e poi leggiamo, per noi che ci divertiamo a indignarci per i miliardari in pantaloncini che non resistono alle tentazioni. Esiste una genia senza tempo di maledetti del pallone, di ribellione all'inquadramento del campione morigerato e ben educato. Il caso Adriano di un anno e mezzo fa entrò in pancia perché non sembrava possibile: la riedizione di George Best con venti centimetri e venti chili in più e con un tot di classe in meno. Donne che se ne vanno, amici che vengono, bottiglie che cadono vuote per terra. Adriano è stato il nuovo maledetto che ha riaperto la strada alle leggende di tutti gli altri. Perché ogni era ha avuto il suo, ogni epoca l'ha condito a piacimento: tollerato o bistrattato, appoggiato o denigrato. Non c'è una logica, perché il momento decide quello che sarai quando commetti un errore, quando ti lasci andare, quando esageri, quando lasci scoprire al mondo che non sei quello che gli altri sperano tu sia.

    Allora Paul Gascoigne è stato il più sfortunato: l'hanno preso come simbolo e schiacciato al primo errore. L'alcol che si è trascinato e si trascina per la vita non è stato perdonato. E' tornato azzoppato ogni volta, malconcio mediaticamente molto più che fisicamente fino a quando non ha deciso che non aveva più voglia di essere vivo. Gazza è il maledetto dei maledetti perché nessuno lo ha perdonato. E' stato un clown tradito dalla fiesta. Lo è ancora. Perché adesso è la Red Bull. Gascoigne se ne fa cinquanta al giorno: ingordo come se non avesse tempo per aspettare la vita. Una dietro l'altra: l'ossessione oltre il piacere della dipendenza, la smania di avere qualcosa da fare nell'apatia totale. Beve perché è quello che ha sempre fatto meglio di qualunque altra cosa. Beve perché il riflesso condizionato è incontrollabile. Butta giù. Si tiene in piedi con l'unica energia rimasta, quella esterna che arriva in un sorso o con una polvere bianca tirata su col naso. In un taxi, in una camera d'albergo, a casa o nel cesso di una stazione di servizio. Dentro non ne ha più: la forza è finita perché il cervello l'ha presa a cazzotti troppe volte senza motivo. Gascoigne è malato, perso, disperato. E' la faccia sbiadita di una speranza che il futuro ha sorpassato a destra. Non lo vede più nessuno, non lo vuole più nessuno, fenomeno da pagina tre del Sun quando finisce i soldi e non paga il tassista, quando lo vogliono mandare in una clinica psichiatrica, quando finisce col culo per terra sul ghiaccio e non riesce più ad alzarsi.

    Il calcio inglese l'ha cancellato ed emarginato perché adesso non ha più bisogno di Gazza. Si gioca, si vince e si gode senza la fissazione di dover trovare uno che tenga in piedi il nome e l'idea: quattro squadre ai quarti di Champions, tre che vincono contro tre italiane. Paul ai suoi tempi doveva essere il volto da usare per dare l'impressione di stare nel giro: guarda, abbiamo anche noi uno forte. Qualcosa che desse un senso a un pallone che quindici anni fa era ancora vecchio, identico a se stesso nei riti e però anche nell'idea del rinvio del portiere, la spizzata di testa del centravanti e poi vediamo. Gascoigne era la classe, o qualcosa che si poteva avvicinare. Era un piede e pure una testa. Matta e irragionevole, però utile in campo, quando non c'era nient'altro che lui: Beckham era un adolescente, Rooney un bimbo. Poi non era tanto la Nazionale. Era il sistema intero: l'Inghilterra non era cool Britannia né nella politica né nel football, usciva dal disastro degli anni Ottanta, cominciava a creare un'alternativa al Liverpool di Rush, provava a capire se il Manchester di Ferguson potesse diventare una cosa seria. Allora Gazza era già un pezzo d'Europa sull'isola. Uno che inventava, almeno. Uno da esportare: talento, allegria, stravaganza. E pure una punizione da trenta metri, un palleggio, un assist.

    Adesso che il calcio inglese prova a prendersi tutto, la faccia di Gascoigne fa ancora più malinconia. Perché non ha avuto lo stesso trattamento di altri. Non quello di George Best, per esempio. Perché con Gazza non c'è stata la stessa tolleranza che hanno avuto per Georgie. Non ci sarà neanche quando morirà. Best ha il nome sull'aeroporto di Belfast, a Paul daranno una lapide senza gloria e uno sputo sulla carriera da almanacco. Meritato, ovvio. Perché Gazza non ha fatto nulla per togliersi l'etichetta che s'è appiccicato da solo. Però amaro perché non tutti i fenomeni alcolici hanno avuto lo stesso trattamento. Vogliamo ricordare il film sulla vita di Best? Sembrava un figo, uno giusto, uno vero, uno tradito dal mondo che lo aveva trasformato in un divo. Perché la doppia morale del maledetto pallonaro? Perché George è un tipo da titolo. Ci si marcia ancora su quella storia: “Nella vita ho speso molti soldi: l'alcol, le donne, le auto. Il resto l'ho sperperato”. Best è accettabile, altri no. Il doppiopesismo si porta appresso aneddoti e ricordi: Best sarà per sempre un termine di paragone, l'antesignano di un modo di vivere e di fare che per qualcuno è da vedere come una normale dinamica di forze tra il genio e la sregolatezza. Cioè il luogo comune più usato e massacrante della storia dello sport. Il modo per banalizzare anche uno che banale non lo è mai stato. Eppure è finito così: triturato dalla retorica della nostalgia che accetta le sue debolezze e non tollera quelle dei calciatori contemporanei. Allora finisce che George è un'icona quasi positiva, un modello da non imitare solo perché politicamente scorretto, ma in fin dei conti accettabile. Era la ribellione, la vita che si riprende quello che la nascita disgraziata aveva tolto, la fine degli anni Sessanta e quindi la legittimità di ogni comportamento.

    Ciò che a uno come Adriano è stato negato. Perché lui ha avuto poco: non la speranza, non la complicità. Un po' di attesa dell'Inter, ma la bocciatura preventiva del resto del mondo. Finito prima che cominciasse, bollato prima che potesse spiegare. Ha avuto tutto questo Cantona, per esempio. Altro caso di revisionismo del bulletto da campo di calcio. Maledetto è stato anche lui. Non l'alcol, ma il resto. Quel senso di disgusto per la vita e per la società. Il rifiuto delle convenzioni, il menefreghismo della spudoratezza. E' stato un mito, un calciatore unico, la prima icona del calcio globale vero, da satellite tv e da pissi pissi internettiano. E' stato tutto e poi niente fino a quando lo sdoganamento intellettuale non l'ha preso a modello di una retorica intollerabile. Quel calcio dato al tifoso avversario nel 1995 è stato straordinariamente dirompente, ma s'è infranto quindici anni dopo sul conformismo. Una cinepresa ha corrotto Eric. La barba, giusto quella. Il resto dov'è? Cantona. La faccia, le parole, la scorrettezza, l'arroganza, la follia. Questo non è lui, non il vero, non quello lì. Parla solo dalla sua casa in Camargue: l'amore e l'esistenza, l'arte, il mondo. Un santone inverosimile, un profeta dell'eternità. Sfoglia la nuova vita: partecipa agli eventi di solidarietà, appare ai vernissage, legge Kierkegaard in tv.

    Era un'icona del pallone in Inghilterra, mentre in Francia era detestato. Ora è un intellettuale in Francia, mentre in Inghilterra è solo un poster sulle pareti. Si cambia ed Eric è cambiato più di altri. Ha ripudiato il pallone, ha snobbato il calcio, ha mortificato se stesso. Dice: “Sono diverso”. Da chi? Da cosa? Perché? Prende la copertina di Paris Match: lui e sua moglie, la voglia di un bambino, “ma non in questo mondo sbagliato”. La bellezza di Eric era il contrario, era lui che non si era pentito di quel calcio al tifoso del Crystal Palace. Non avrebbe perdonato uno che gli urlò “tua madre è una puttana e tu sei un fottuto francese di merda”. Non voleva la misericordia del mondo che gli si era scagliato contro, dei colleghi che l'avevano additato, dei politici che l'avevano bollato: “I calciatori devono essere un esempio per i più giovani, sono gli idoli dei bambini, devono averlo sempre presente”. E' rimasto se stesso fino a quando ha deciso di rinnegarsi. La cinepresa l'ha rapito quella volta che gli chiesero un cameo in “Elizabeth”: “Una parte imbarazzante”, scrissero i giornali. Ne sono arrivate tante, pessime e poi migliori, fino a questa, fino all'ultima. Ken Loach che l'ha preso per interpretare se stesso in “Looking for Eric”. Lui in presa quasi diretta, mentre recita la parte di Cantona. La fine di un calciatore unico, di un uomo speciale al di là delle follie, di un atleta irripetibile, di un soggetto incredibile.

    Sullo schermo Eric si cancella per rappresentarsi meglio di come è stato. E' la testimonianza di un fallimento, evidentemente, come se Cantona debba chiedere scusa, adesso che non gioca da quindici anni, per tutto quello che di sbagliato ha fatto nella prima vita. “La cosa che amo di più in Ken Loach è che ragiona e parla davvero come uno di sinistra”. Eric abiura il passato, sconfessa il giorno in cui si dichiarò anarchico di destra, rinnega l'idea di non voler essere amato per quello che dice, ma per quello che è. L'eremita di campagna, il nuovo guru pseudoambientalista, il pensatore contemporaneo nemico del sarkozismo thatcheriano è un passaggio che gli serve per pulirsi dalla sporcizia del suo mondo precedente.

    I maledetti così piacciono. Quelli alla Adriano no. Non hanno nulla di intellettuale. Sono semplicemente se stessi. Moderni nella loro debolezza. Maradona è il caso a parte. Perché è troppo per essere catalogato. Che fai ti metti a incasellare Diego? Non è un campione da fiesta, è tutto. E' un mondo che si chiude in un pallone e nel giro che si trascina a seconda della latitudine. E' il rischio di chiudere l'universo in una stella. E' sbagliato, lui. E' sbagliato anche ora che è uscito dal Diego cocainomane. Però è impossibile metterlo con gli altri. Quello che puoi fare invece con i tipi alla Edmundo o alla Romario. Stanno nella stanza dei bonghi di Ronaldinho: a metà tra la certezza della loro voglia di divertimento ostentato alla voce di corridoio di qualche vizio più particolare. La saudade, però, c'è. Quella sì. Che a volte, distrugge più di una sostanza, più di un bicchiere. E' la fine di un'idea che ti fai di un ragazzo e anche la constatazione che il mondo non è ripetibile, che certi sud entrano nel sangue e non si possono trasportare in alcuni nord. Non è il clima o il divertimento. E' lo stato mentale del momento. Non c'è accondiscendenza, non c'è giudizio. Anzi c'è un po' di moralisteggiante indignazione: perché sognare il Carnevale della vita, quando la vita è meglio di un Carnevale.

    Perché fuggire con il corpo o con la mente a casa? Non ci sarà mai una risposta perché altrimenti basterebbe vedere l'Allenatore nel pallone e Aristoteles che canta la sua nostalgia che finisce quando Lino Banfi lo abbraccia. La macchietta riduce il problema a barzelletta. C'è un mondo inconciliabile: pallone ed esistenza. Chi l'assembla e chi no. Chi si sfoga coi bonghi o col mohito alimentando la verità di certe notti ben oltre la realtà. Eppure sotto c'è qualcuno che sa perché ha visto: non si inventano storie così, al massimo si ricamano. Non è colpa di Milano. Romario scappava da Barcellona, dove invece Ronaldinho all'inizio stava alla grande. La ribellione, la voglia di una fiesta che va oltre la festa è un desiderio che si nutre a qualunque latitudine. Non dipende dal calore della gente, non è associabile a una società, a un gruppo, al solito treno degli amici sbagliati. E' un problema, ovvio. Dei brasiliani e degli altri. Dei campioni che bevono la vita e il campo, dei fenomeni e anche dei calciatori mediocri. Solo che questi non se li fila nessuno.