Perché è strategico tornare in Africa

Diana Zuncheddu

Nairobi. Sulla strada che collega l'aeroporto a Nairobi, in swahili la “città delle fresche acque”, si vedono due grandi scritte. Una è “China Kenya”, su una specie di monumento moderno e orrendo simile all'arco che a New York segna l'ingresso a Chinatown.

    Nairobi. Sulla strada che collega l'aeroporto a Nairobi, in swahili la “città delle fresche acque”, si vedono due grandi scritte. Una è “China Kenya”, su una specie di monumento moderno e orrendo simile all'arco che a New York segna l'ingresso a Chinatown. La seconda scritta è sui capannoni di un grande concessionario di auto, Toyota, made in Japan. E' il Giappone il partner scelto dal governo keniota per il dragaggio del porto di Mombasa, parte di un progetto di rinnovamento più ampio. Totale investimento: 430 milioni di scellini, circa 4,3 milioni di euro. Secondo l'Ice, l'Istituto italiano per il commercio estero, primo fornitore del paese sono gli Emirati Arabi Uniti, seguiti da Cina, Arabia Saudita e India. Nella lista, prima degli Stati Uniti c'è il Giappone, prima del Regno Unito, ex potenza coloniale, c'è il Bahrein. Come dire: occidente, c'è un problema.

    La missione in Kenya di una delegazione del governo italiano non è una novità, qui, sotto l'equatore. Adolfo Urso, viceministro al Commercio estero, è già stato in Tanzania, Uganda, Angola e Mozambico. Dopo la missione in Kenya andrà in Camerun. Il suo passaggio lascerà almeno un paio di accordi con il governo keniota e qualche novità per le imprese italiane assetate di nuove opportunità. Si compie così un'altra tappa della presenza italiana nell'Africa subsahariana. Non è un caso se Finmeccanica, che ha concluso e sta chiudendo accordi significativi in tutta la regione, abbia deciso di aprire il suo ufficio centrale per il Subsahara proprio a Nairobi.

    L'interesse per questo pezzo di mondo non è solo commerciale. Si parte da quello. Le previsioni sul Kenya per i prossimi cinque anni sono di una crescita del pil del 6 per cento e forse più, sistema politico permettendo. Un potenziale mercato popoloso, in rapida crescita, in un paese accogliente, con un clima e un paesaggio da innamoramento verace. C'è però anche un interesse politico. Dai confini con la Somalia, a nordest, ci sono continue infiltrazioni in territorio keniota di gruppi di shabaab, i militanti islamici somali finanziati da al Qaida. Se si aggiunge che i pirati somali continuano a danneggiare il commercio marittimo da e verso il Mediterraneo, oltre a finanziare con le tangenti i temuti shabaab, si capisce perché i governi occidentali stiano rivedendo il proprio impegno, al rialzo.

    Il mal d'Africa del viceministro
    Non è un caso che si sia firmato qui, ieri, un accordo con il ministro dell'Interno keniota, George Saitoti. Si stabilisce che sarà la guardia costiera italiana a istruire i colleghi africani sui metodi antipirateria. Un'altra decisione presa in questi giorni è l'istituzione di una Camera di commercio italo-keniota e l'apertura di una sede dell'Ice. “Abbiamo in previsione l'apertura di alcune sedi in Africa, il più presto possibile”, aggiunge Massimo Mamberti, direttore generale dell'Ice. Alla fine degli anni 80 le sedi attive erano dodici. Oggi ne è rimasta soltanto una, a Johannesburg. L'Italia ritorna quindi in Africa. Le nostre Ferrovie dello stato, attraverso la controllata Italferr, sono in gara per ammodernare la linea Nairobi-Mombasa, un progetto dal valore di 10 milioni di euro. La presenza italiana si rafforzerà anche nella costa orientale. C'è già la comunità degli imprenditori italiani nel turismo di Malindi, villaggi e ville hollywoodiane, capanne di paglia e fango. A mezz'ora di strada dalle spiagge caraibiche c'è anche una base spaziale dell'Asi (Agenzia spaziale italiana). Fondata a metà degli anni '60 e tuttora in funzione, si discute di un possibile ampliamento. La cooperazione con il governo locale potrebbe portare all'istituzione di una Agenzia spaziale keniota. Segnali di cooperazione, di scambio, di investimento. Anche politico. “Creare opportunità di lavoro qui significa anche avere meno sbarchi sulle nostre coste”, spiega Urso. E aggiunge che appena sarà in pensione chissà, “magari vengo in Africa”. Non è Veltroni, è Urso. Segno che il mal d'Africa, almeno a parole, non è un'opinione.