Imprenditore e politologo

Il manifesto del Calta

Claudio Cerasa

Di lui si sa praticamente tutto: banche, quattrini, mattoni, giornali, partiti, cementi, assicurazioni, industrie, stazioni, autostrade e persino municipalizzate. Di lui si sa che è l'uomo più liquido d'Italia, si sa che è il settimo imprenditore più ricco del paese, si sa che è l'editore di un piccolo colosso della stampa italiana e si sa che oggi è senz'altro l'uomo più potente di Roma. Ma nella storia di Francesco Gaetano Caltagirone, detto il Calta, ci sono ancora molti aspetti che suscitano una certa curiosità e di cui in realtà si sa ancora pochino.

    Di lui si sa praticamente tutto: banche, quattrini, mattoni, giornali, partiti, cementi, assicurazioni, industrie, stazioni, autostrade e persino municipalizzate. Di lui si sa che è l'uomo più liquido d'Italia, si sa che è il settimo imprenditore più ricco del paese, si sa che è l'editore di un piccolo colosso della stampa italiana e si sa che oggi è senz'altro l'uomo più potente di Roma. Ma nella storia di Francesco Gaetano Caltagirone, detto il Calta, ci sono ancora molti aspetti che suscitano una certa curiosità e di cui in realtà si sa ancora pochino: aspetti politici come il rapporto con i principali esponenti della classe dirigente italiana (Berlusconi, Fini, Tremonti e naturalmente Casini), aspetti economici come alcuni recenti investimenti che hanno scatenato le fantasie di osservatori smaliziati (in Generali, in Acea e nel Monte dei Paschi di Siena) e aspetti infine più strettamente legati all'evoluzione degli equilibri di potere della sua città.

    Caltagirone, lo ricorderete, nel corso della campagna elettorale di due anni fa (che aveva messo di fronte Francesco Rutelli e Gianni Alemanno) fu uno dei principali sostenitori della necessità di un'alternanza politica nella Capitale, e l'episodio che in quei giorni colpì maggiormente gli osservatori – e su cui oggi l'imprenditore torna a riflettere – fu l'esplicita richiesta di “discontinuità” invocata a pochi giorni dal ballottaggio. “Roma – disse Caltagirone il 27 aprile del 2008 – ha subìto un declino e deve essere rilanciata. Serve una grande discontinuità con la fase attuale. E chiunque vincerà, questa discontinuità ci sarà”.

    Caltagirone ripensa a quei giorni e la mette così. “La mia richiesta di discontinuità – dice l'Ingegnere – derivava da un'evidente insofferenza legata al fatto che una città come Roma aveva perso la sua centralità culturale ed era diventata una realtà in cui gli imprenditori stranieri avevano sempre più paura nel programmare nuovi investimenti. Quando ho parlato di discontinuità mi riferivo ad alcuni modi di vedere le cose che ritenevo non fossero utili alla Capitale. Roma era diventata una città non efficiente, in cui l'incrostazione di alcuni interessi aveva creato una sedimentazione molto pericolosa e in cui a mio avviso c'era chi lavorava più sull'immagine della città che sulla sostanza. In questo senso, non deve sorprendere se la cronica mancanza di una cultura dell'organizzazione ha finito per impoverire il cuore della Capitale”.

    Il ragionamento dell'Ingegnere rientra in una logica precisa: alla fine degli anni Novanta Roma era la città che ospitava le sedi centrali di alcune tra le più prestigiose società italiane; c'era la più importante compagnia italiana di telefonia (la Telecom), il primo operatore di energia nazionale (l'Eni), la più grande banca del centro Italia (Capitalia) e una delle più grandi banche europee (la Bnl); oggi la sede di Capitalia si è trasferita a Milano, la sede di Bnl è finita a Parigi, le sedi Telecom ed Eni si trovano a Milano e così, di grandi società, a Roma ne sono rimaste davvero poche.

    Dice Caltagirone: “In molti forse non se ne sono accorti, ma a Roma non è mai capitata una cosa invece successa tra Milano e Torino quando è stata portata a termine la fusione tra le banche Intesa e San Paolo. In quei giorni, la questione dell'identità, ovvero della torinesità e della milanesità della nuova banca, era un tema vero che si è trasformato poi in un dibattito non soltanto culturale. A Roma invece, quando Banca di Roma o Capitalia si è fusa in Unicredit il dibattito non è stato così significativo. Ricordate autorevoli esponenti della classe politica che hanno rivendicato l'esigenza di non vedere violata la romanità di quella banca? Io, sinceramente, no. Se oggi è cambiato qualcosa? Sono passati solo due anni: è ancora troppo presto per esprimere un giudizio. Ma il grande problema di questa città è che c'è un'attenzione per la produzione di ricchezza, e per i soggetti che la producono, molto inferiore rispetto al resto dell'Italia. E' un problema culturale: l'imprenditore non solo non viene considerato una risorsa ma il più delle volte viene osteggiato come se fosse una persona che vuole farsi gli affari suoi a discapito dei cittadini. Non può dunque stupire l'indifferenza con cui anche la politica ha permesso che Roma fosse privata di molte delle sue grandi realtà aziendali. Si pensi alla Telecom, all'Imi, di nuovo alla Banca di Roma, alla Banca dell'Agricoltura e a tutte le altre piccole o grandi aziende che avevano sede nella Capitale e che invece oggi si trovano al nord senza che ci sia una ragione logica così precisa, senza cioè che determinate attività si facciano necessariamente meglio in altre parti d'Italia. Dico: vi sembra normale che Roma sia l'unica città da tre milioni di abitanti in Europa priva di una sua grande banca e dove ogni giorno gli imprenditori, per incontrare dirigenti di banca, debbono prendere l'aereo?”.

    Oggi uno dei progetti espliciti dell'Ingegnere è quello di realizzare una trasformazione rivoluzionaria della geopolitica finanziaria italiana. Obiettivo: rafforzare sul territorio romano la presenza della banca di cui è primo socio privato (con il 4,7 per cento del pacchetto azionario) e vicepresidente. “Nel Monte dei Paschi, il mio obiettivo è quello di lavorare con il presidente Mussari per tentare di dare alla Capitale una sua grande banca. Ci stiamo già provando: a Roma ci siamo rafforzati, abbiamo aperto nuove filiali e il nostro sogno è quello di diventare il primo istituto di credito non solo romano ma di tutto il centro sud”.

    Uno degli argomenti su cui però i giornalisti più pettegoli concentrano da tempo le proprie energie riguarda il rapporto cordiale costruito negli anni dall'Ingegnere con il presidente di Mediobanca Cesare Geronzi, e l'eccitazione degli osservatori che si occupano di intrecci finanziari è arrivata ad altissimi livelli in seguito a una serie di mosse ravvicinate portate a termine da Caltagirone su Generali. Nel giro di un anno, il gruppo Caltagirone è arrivato a controllare circa il due per cento del pacchetto azionario del gruppo triestino (mercoledì il gruppo ha acquistato un altro 0,7 per cento del capitale) e in vista della prossima assemblea di aprile, quando i soci del vecchio Leone dovranno scegliere se riconfermare alla guida della compagnia Antoine Bernheim, in molti si sono chiesti se l'attivismo del Calta fosse legato a una possibile candidatura dello stesso Geronzi alla guida di Generali. Caltagirone elude e nega, ma questo pettegolezzo in realtà ha un'origine nobile. E' dai tempi di Enrico Cuccia, infatti, che nella più grande banca d'affari italiana si ragiona su quali siano le strategie migliori per evitare che le Generali finiscano in mani straniere. Cuccia sosteneva che la quota chiave per proteggere Generali dai malintenzionati fosse quella del 25 per cento, e oggi basta fare due calcoli per capire come quella soglia di protezione sia vicina a trasformarsi in realtà: c'è Mediobanca, che è primo azionista di Generali con quasi il 15 per cento; c'è il Monte dei Paschi di Siena (di cui Caltagirone è vicepresidente), che è in uscita dalla compagnia assicurativa ma che detiene ancora l'1,6 per cento del capitale; c'è il gruppo Unicredit di Alessandro Profumo (alleato leale di Cesare Geronzi e in possesso quasi del tre per cento); e poi c'è il due per cento di Caltagirone. Non sarà venticinque per cento (è un po' di meno: è il 22) ma ci siamo quasi.

    Su questo argomento ci tengo ad essere molto chiaro. Il nostro è un gruppo industriale che quando investe ha l'obiettivo di portare a termine operazioni che durino nel tempo. In questo periodo le nostre partecipazioni strategiche riguardano i tre settori che noi consideriamo più stabili, più solidi e più importanti nel nostro paese e in cui abbiamo intenzione di impegnarci stabilmente, e a lungo termine. Ovvero: banche, assicurazioni e utilities. Tradotto, significa: Monte dei Paschi, Generali e Acea. L' idea è ed è sempre stata quella di tentare – anche attraverso le nostre partecipazioni – di tutelare i pochi e preziosi pilastri italiani che abbiano un rilievo internazionale. Le Generali sono un buon esempio di come un'azienda sia stata capace di diventare un attore dell'economia internazionale senza perdere per questo il suo pregiato profilo italiano. E nel gruppo assicurativo triestino posso dire che noi abbiamo intenzione di investire seriamente: vogliamo diventare un punto di riferimento per gli azionisti di maggioranza, non siamo qui per seguire la strategia del mordi e fuggi e a certe condizioni, è ovvio, potremmo essere interessati a rafforzarci”. Con il presidente di Mediobanca ed ex numero uno di Capitalia, poi, Caltagirone ammette di avere una buona intesa che dura da anni. “Il mio rapporto con Geronzi – dice l'Ingegnere – è di grande stima e rispetto. Siamo entrambi romani, è vero, ma non è soltanto per questo che c'è un buon legame tra noi. Personalmente, apprezzo Geronzi per come ha gestito la sua banca e per come fa il presidente dando notevole autonomia al suo management, che è di grande livello. Se c'è sintonia tra di noi? Assolutamente sì: anche se questo, ovviamente, non significa che prima di fare un investimento ci dobbiamo consultare. Ho sentito anche io delle voci circolate di questi tempi a proposito di una sua presunta candidatura in Generali e su questo argomento lasciatemi però dire che è ancora decisamente troppo presto per poterne discutere”.

    Quando si parla però dell'Ingegnere non si può fare a meno di andare ad approfondire la sua passione per la politica. Perché, certo, c'è l'ottimo rapporto con Pier Ferdinando Casini (marito di Azzurra Caltagirone) e con il partito guidato dal genero (nel 2008 la famiglia Caltagirone ha finanziato l'Udc con sottoscrizioni pari a due milioni di euro). Ma negli ultimi tempi l'imprenditore romano ha imparato ad apprezzare anche altri autorevoli personaggi del mondo della politica. I nomi sono quelli di Giulio Tremonti, Gianfranco Fini e Massimo D'Alema. Tutti personaggi, però, che secondo Caltagirone non si possono studiare senza spiegare il contesto storico in cui i tre sono cresciuti e in cui continueranno a crescere: il berlusconismo. “Io – dice Calta – credo che oggi sia possibile definire l'esistenza di due precise fasi del berlusconismo, l'una profondamente legata con l'altra. La prima è quella in cui Berlusconi riuscì a disegnare una via alternativa alla strada che il paese rischiava di imboccare dopo Tangentopoli; la fase successiva è invece quella iniziata nel 2001, ed è quella in cui il presidente del Consiglio ha tentato di realizzare i sogni promessi. E' vero, finora ci sono state alcune difficoltà ma dopo le elezioni regionali io credo che Berlusconi avrà a disposizione tre lunghi anni in cui potrà concretizzare le sue idee di riforme per provare davvero a rivoluzionare l'Italia”. Per farlo, secondo Caltagirone, servono quattro elementi fondamentali: “Sono convinto che, per cambiare in positivo il volto del paese, il governo farà bene a insistere sulla riforma dell'amministrazione pubblica, sulla riforma fiscale, sulla riforma scolastica e soprattutto sulla riforma della giustizia. Su quest'ultimo punto parlo soprattutto da imprenditore: perché riformare la giustizia significa velocizzare quella giustizia civile la cui lentezza finisce spesso per scoraggiare molti investitori stranieri”.

    Una riforma che invece Caltagirone non considera immediatamente necessaria riguarda il sistema elettorale, e questo è un argomento che politicamente appassiona molto l'Ingegnere. “Nel corso degli anni è chiaro quello che è successo: gli elettori italiani hanno dimostrato che il sistema elettorale più amato, e forse il migliore, è quello che produce un'alternanza al governo senza sacrificare le minoranze. Sono certamente affascinanti modelli come quelli anglosassoni in cui i partiti diventano contenitori e i leader riescono a esprimere i propri messaggi senza essere ostacolati dalle (a volte) troppo rigide meccaniche di partito. Ma quel sistema funziona soltanto se all'interno dei due schieramenti si produce una forte dialettica tra le componenti, e soltanto se questi partiti riescono a esprimere tutte le forze della società. Quando invece capita che i grandi movimenti politici non danno spazi sufficienti alle minoranze, e finiscono spesso per schiacciarle, credo che il modo migliore per non togliere spazio alle voci minori sia quello di creare le condizioni per far vivere più di due unici blocchi monolitici. E in questo senso, un partito terzo è molto utile alla politica perché offre e a volte impone nel dibattito pubblico nuove idee. Se proprio devo essere sincero, poi, credo che nel nostro paese si dovrebbe iniziare a parlare con più serietà se sia il caso di ragionare su un percorso presidenziale, ma mi rendo conto che forse i tempi non sono ancora maturi”.

    Nel contesto politico nazionale tra i personaggi che affascinano Caltagirone non c'è soltanto il presidente del Consiglio. Ci sono anche Tremonti, Fini e D'Alema. Partiamo da quest'ultimo. “Io credo che D'Alema sia di grande statura politica e credo che una delle sue qualità sia quella di possedere una notevole dote di pragmatismo. Come Fini e Tremonti, D'Alema gode di una buona reputazione internazionale e a mio avviso la ragione per cui dalle sue parti non è sempre particolarmente amato dipende dal fatto che lui, in modo franco, non ha mai nascosto le sue doti e le sue ambizioni di leadership. Quanto a Tremonti, che dire? Personalmente apprezzo molto l'approccio che un uomo come lui ha nei confronti della politica. Conosco Tremonti abbastanza bene per dire che oltre a essere un ministro molto intelligente è anche un politico decisamente preparato. Non c'è dubbio, poi, che una delle principali doti di Tremonti sia quella di voler combattere sempre per le proprie idee e di non voler in nessun caso rinunciare al proprio modo di pensare. Certo, come diceva Flaiano, chi ha carattere ha un brutto carattere. Ma avere il carattere posso garantire che è una qualità ormai piuttosto rara in politica”.

    E Fini? “Fini è un politico di spessore, che è molto cresciuto e che ha avuto il coraggio di fare alcune scelte di rottura. Come capita spesso quando le opposizioni sono deboli, il dibattito e la dialettica dei sistemi politici si sviluppano non più tra due diverse fazioni ma all'interno di una maggioranza”.
    La simpatia per D'Alema quindi c'è, ma a voler parlare di una successione al Cav. non resta che la trojka: Tremonti, Fini e Casini. Lui ci pensa un attimo: “Successione?”. E poi risponde: “Beh, perché no?”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.