Tra adulterio e amore, religione e gioia

Critica della ragion morale, una riflessione su Bobbio e Ferrara

Alfonso Berardinelli

Mi capita di leggere nelle stesse ore il numero speciale di MicroMega dedicato a Norberto Bobbio e l'editoriale di Giuliano Ferrara sul nostro modo di pensare l'adulterio come un reale peccato o come privata consuetudine. Noto che Bobbio insiste molto sulla bontà, utilità, insuperabilità delle norme e regole formali, delle procedure corrette e pattuite in regime di liberal-democrazia.

    Mi capita di leggere nelle stesse ore il numero speciale di MicroMega dedicato a Norberto Bobbio e l'editoriale di Giuliano Ferrara sul nostro modo di pensare l'adulterio come un reale peccato o come privata consuetudine. Noto che Bobbio insiste molto sulla bontà, utilità, insuperabilità delle norme e regole formali, delle procedure corrette e pattuite in regime di liberal-democrazia. Ma (se filosofia richiede una libertà incoercibile e insieme vincolata di ognuno e di tutti) le convinzioni di Bobbio non sono solo politiche, sono anche filosofiche. Così la democrazia deve cercare di ubbidire alla filosofia che presuppone e da cui nasce, mentre la filosofia ha il dovere di essere modernamente democratica: cioè libera, razionalmente argomentata, dialogica, antiautoritaria, pluralistica.

    Discutendo nel 1986 con l'allora comunista Pietro Ingrao sull'attrito tra democrazia formale e democrazia sostanziale, Bobbio insisteva sul fatto che bisogna “prendere la democrazia per quello che è”, che la democrazia ha i suoi infrangibili “vincoli”, che è un “insieme di procedure per prendere decisioni collettive” e occorre rassegnarsi al fatto che due concetti come “egemonia” e “massa”, molto cari a Ingrao e ai comunisti gramsciani, dal punto di vista democratico non hanno consistenza, dato che infine, egemonia o meno, massa o non massa, si tratta della “capacità di ottenere il maggior numero di voti”, solo questo è egemonia, solo questo è massa: “Il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo” e la democrazia moderna “nasce dalla teoria contrattualistica secondo cui la società politica è il prodotto artificiale di un accordo tra individui responsabili”. Insomma: mentre secondo Ingrao le vecchie regole democratiche ci soffocano, Bobbio insiste che a quelle regole non c'è alternativa, sono limitate, ma finora non si è inventato niente di meglio.

    Si pensò (lo pensò anche Bobbio) che grazie alla democrazia, usando la democrazia come mezzo si potesse raggiungere il socialismo come vero scopo. Ma si è trattato di un desiderio politico rimasto senza esiti: “Abbiamo creduto che con la democrazia si potesse fare tutto. No, con la democrazia non si può fare tutto. E' già accaduto che, volendo tutto, non si è ottenuto niente, e per giunta si è perduta anche la democrazia”.
    Semplice e chiaro. Monsieur Descartes, il cartesiano Bobbio, con le sue idee chiare e distinte, delude sempre e non delude mai. Promette poco, ma quel poco lo mantiene. Non gonfia le parole e i concetti, non li carica di significati supplementari, connotativi, emotivamente suggestivi. Le forti emozioni politiche non sono il suo forte. E' stato un socialista che ha formulato obiezioni fondamentali ai comunisti e che in fondo credeva poco anche nella realizzabilità del socialismo, “se per socialismo s'intende, com'è giusto che s'intenda, secondo la tradizione ormai più che secolare del pensiero socialista, il mutamento della forma di produzione”.

    La democrazia formale quindi non è solo formale, ha un suo contenuto. Ma da questo contesto di problemi vorrei isolare un punto: il rapporto tra forma e sostanza, tra regole pattuite da un lato e comportamenti sociali e individuali dall'altro. Cosa che mi porta direttamente alle polemiche sollevate negli ultimi tempi da Giuliano Ferrara con il suo inconfondibile impeto provocatorio. Che rapporto c'è o dovrebbe esserci fra illegalità e colpa, fra violazione della norma e peccato? Dobbiamo distinguere fra trasgressioni giuste, morali e razionali e trasgressioni scorrette, colpevoli, proditorie? L'aborto legalizzato “deve” essere anche moralmente e in ogni caso del tutto accettabile? Ciò che la legge approva e permette deve necessariamente soddisfare la coscienza eliminando e rendendo inaccettabile ogni genere di dubbio e conflitto di coscienza? L'adulterio è una colpa o è solo una ragionevole trasgressione che ci libera dalla stupidità di un patto convenzionale privo di valore? Si può censurare pubblicamente e punire professionalmente chi abbia relazioni sessuali fuori del vincolo matrimoniale e ai danni di qualcuno che ha preso sul serio, magari equivocando, un accordo di fedeltà? Nel primo caso, quello dell'aborto, Ferrara è a favore della sostanza morale contro la norma formale. Nel secondo caso, quello dell'adulterio, mi sembra che ritenga più utile e rispettabile la norma e la forma, contro la sostanzialità dell'amore e dell'eros. Quanto alla difesa della vita, tutti sono convinti di difenderla, cambia però l'idea che si ha della vita.

    Non sono questioni semplici. Questo contesto problematico è forse perfino più complesso di quello che riguarda il conflitto fra democrazia formale e democrazia sostanziale. L'adulterio è due cose, una bella e una brutta, dipende dal punto di vista di chi tradisce e di chi è tradito. Ma certo non è cosa da niente, non è normale. Certamente è un fatto (tra i più diffusi) ma non è un valore. Viola una norma. Se poi questa norma è solo formale perché l'amore è finito, o invece è sostanziale perché i due si amano ancora (o almeno uno ama) e non si sono presi accordi diversi, questo dipende dai casi. La soluzione generale non l'abbiamo ancora trovata: matrimonio o non matrimonio, la coppia direi che è piuttosto chiusa, dato che la “coppia aperta”, stando ai fatti e se sono sufficientemente informato, non sembra che funzioni, se non a costo di molta, molta discrezione, cioè tacendosi reciprocamente i fatti.

    Sostanziale e formale, norma e autenticità, legalità e moralità. Possiamo scegliere secondo un aut-aut, questo o quello in alternativa assoluta? Credo di no. Siamo animali sociali, eppure la nostra socialità non esaurisce tutto quello che siamo. Abbiamo doveri verso gli altri, nel conservare i patti e gli impegni presi. Ma abbiamo anche doveri verso noi stessi, doveri di cui gli altri non sono al corrente. E abbiamo anche impegni con la Natura e la madre Terra, con Dio o con gli dei, con i morti e con il passato, con i nascituri e con il futuro. Di fatto non c'è moralità senza conflitto di doveri. Anzi, la coscienza morale è conflitto e dubbio fra diversi ordini di doveri e la scelta compiuta di volta in volta ci impedisce di essere e di considerarci innocenti, perché innocenti, fuori dell'Eden, non riusciamo comunque a esserlo. Chi crede di poter essere morale accontentandosi di essere legale rischia il fariseismo e il conformismo. Se rispetto le leggi è perché gli altri lo fanno, è utile che lo facciano, si aspettano che anche io lo faccia, altrimenti la convivenza diventa un inferno di conflittualità piccole e grandi, troppe per essere sopportabili. Ma anche il conflitto tra moralità e legalità è necessario. L'etica nasce dalla capacità di mettersi nei panni di un altro. Anche in campo morale c'è bisogno di creatività e di immaginazione, perché altrimenti le leggi vigenti non potrebbero mai essere migliorate, né sarebbe possibile farne di nuove.

    Non tutto ciò che è legale e legalizzato è dunque morale. Credo che il punto più interessante della polemica sollevata da Ferrara a proposito di aborto, eutanasia e “difesa della vita” non fosse in una prescrizione, ma nella necessità del dubbio morale anche di fronte a ciò che è legalmente lecito. Fare tutto ciò che la legge non punisce, non può, non deve esimere da un'ulteriore riflessione. Il legislatore, altrimenti, esproprierebbe i singoli della loro coscienza e sensibilità morale, li “alienerebbe” di una loro fondamentale libertà: quella di giudicare lo Stato, i suoi amministratori e servitori, nonché le convenzioni sociali più diffuse.

    Ho il dovere di conoscere ciò che è reale e di distinguerlo da ciò che è immaginario o desiderabile o doveroso. Ma non ho il dovere di rivelare in ogni occasione e a chiunque tutto ciò che credo reale e vero. “Human kind cannot bear very much reality” dice Eliot, e non sempre, non tutti, siamo in grado di accogliere e sostenere il potere distruttivo, il disincanto provocato dalla verità su ciò che accade. Perché mai tutto deve diventare immediatamente pubblico? La discrezione, il tatto, la gentilezza, la reticenza, lo stile e le forme ci proteggono dalla brutalità di ciò che semplicemente “è vero”, ma che non è vero nella stessa misura in ogni circostanza. D'altra parte, senza dubbio, il bisogno di coerenza morale o di autenticità religiosa viola le regole della discrezione e del tatto. Ma ricordare agli altri, nel corso di una festa, che comunque siamo destinati all'invecchiamento, alla malattia e alla morte, o ricordare durante un pranzo che nel mondo, o pochi metri più in là, c'è qualcuno che soffre la fame e il freddo, è “dire la verità”, è segno di moralità superiore, o è solo inutile brutalità e sadismo? Ma le religioni possono essere nemiche della vita e non sempre incoraggiano la “joie de vivre”.