E' la cricca, bellezza
Abbiamo una cricca, si sarebbe detto ai tempi di una precedente e fortunata campagna giornalistico-giudiziaria finita a schifio, assieme a tante altre inchieste monstre che avrebbero dovuto moralizzare l'Italia da quartierino a quartierino, ma che superata la fase della character assassination a mezzo stampa (sputtanamento, in italiano volgare) si sono risolte in capitoli dell'eterna commedia all'italiana più che in premi Pulitzer o in sentenze definitive.
Abbiamo una cricca, si sarebbe detto ai tempi di una precedente e fortunata campagna giornalistico-giudiziaria finita a schifio, assieme a tante altre inchieste monstre che avrebbero dovuto moralizzare l'Italia da quartierino a quartierino, ma che superata la fase della character assassination a mezzo stampa (sputtanamento, in italiano volgare) si sono risolte in capitoli dell'eterna commedia all'italiana più che in premi Pulitzer o in sentenze definitive. Dopo un anno trascorso a pubblicare inchieste vecchio stile su tutte le variazioni possibili del mestiere più vecchio del mondo, durante il quale i fogli più intellettuali del paese si sono trasformati in tabloid scandalistici di terz'ordine e pure bacchettoni, a questo nuovo giro di valzer non abbiamo soltanto una cricca, abbiamo anche una “rete”, una “ragnatela”, un “sistema” criminale, gli immancabili “odori di mafia” e una novità giornalistico-giudiziaria che oggi si porta moltissimo tra i cronisti engagé: la “gelatina” che farebbe da collante al sistema affaristico di potere che gira intorno alla politica del fare.
Sono parole, espressioni, immagini giornalistiche che dietro la ritmata “ola” a nove colonne mascherano l'assenza di reati evidenti, non a caso non sono state utilizzate a proposito del consigliere comunale di Milano colto con la mazzetta in mano, ma che servono ai giornali per creare la suggestione di un sistema criminale, l'insinuazione di un magna-magna governo-ladro, l'impressione di un golpe imminente. Manca ancora, ma diamo tempo al tempo, il grande classico del repertorio di genere: la coltre nebulosa della nuova P2, il cui avvento è atteso dai pistaroli come nemmeno il dodicesimo Imam da Ahmadinejad. Il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, è all'ennesimo editoriale copiaeincolla su un ultimissimo atto eversivo compiuto dal premier contro le istituzioni repubblicane, mentre il sito web si mobilita su un'ulteriore petizione di protesta, in attesa del prossimo inquietante allarme e del prossimo accorato appello.
A leggere i giornali, però, non si capisce più su che cosa indaghino i magistrati di Firenze: se sull'Aquila o sulla Maddalena, su Bertolaso o su Letta, su Verdini e il sistema di potere Pdl o su Veltroni e quello del Pd? Sotto inchiesta non è chiaro se ci siano tangenti o escort, appalti o il nepotismo per cui nelle trascrizioni non ci sono soltanto i nomi di cui sopra, ma sparati abbastanza a caso anche i figli del magistrato e quelli del deputato, il fratello di Fini, la sorella di Umberto Eco, la moglie di Verdini e i cognati di molti, più vari funzionari dello stato, terzini del Milan e perfino un amico carissimo di casa Scalfari. Non si sa, appunto, perché a leggerla sui giornali questa non è un'inchiesta giudiziaria, tantomeno giornalistica. Non si può dire nemmeno che sia una calunnia o una diffamazione, perché magari qualcosa di losco ci sarà, visto che da che mondo è mondo gli intrecci tra politica e affari, tra potere e appalti, producono sovente e a ogni latitudine geografica e ideologica mazzette e atti contrari alla legge. Ma se ci limitiamo a quello che compare sui quotidiani, suggestioni di reato a parte, non c'è ciccia e sembrano macchinazioni da Amici miei, non da Cosa nostra. Perfino al Fatto, quotidiano che sprizza gioia per il mega sputtanamento globale, è scappato un “anche se fosse penalmente irrilevante”.
Sui giornali, al dunque, c'è soltanto ammiccamento gossiparo, pissi pissi bau bau cucinato e confezionato in modo da far credere che ci sia chissà cosa, degenerazione finale del giornalismo alle vongole. Su Repubblica, l'Unità e la Stampa è più evidente che altrove. Carlo Bonini, scoopettaro in chief di Repubblica, a proposito degli indagati scrive più volte che si tratta di una “cricca”, quando a leggere le intercettazioni invece che ammaliarsi di suggestioni la parola “cricca” è usata dagli stessi indagati per definire la cordata imprenditorial-politica avversaria, quella di centrosinistra, vicina a Veltroni e Rutelli (e di cui, secondo loro, avrebbe fatto parte anche l'architetto amico degli Scalfari). L'articolo principe di Repubblica si trova a pagina 4 sotto il titolo “Dalla Maddalena al nuoto, la rete di Letta”, come a suggerire che il numero 2 del Cavaliere tiri le fila di chissà quali manovre occulte. La letteralità dell'articolo racconta però di un Letta che si limita a chiamare Bertolaso perché il commissario europeo Antonio Tajani gli ha detto che il collega all'Ambiente, Stavros Dimas, vuole aprire una procedura di infrazione sulla Maddalena. Bertolaso gli spiega che Bruxelles pone problemi ambientali, anche per colpa dell'ostruzionismo al ministero dell'Ambiente dei funzionari nominati da Pecoraro Scanio, sicché Letta chiede se deve intervenire lui presso il ministero. E basta. Non c'è più niente. La rete misteriosa di Letta, suggerita dal titolo insinuante, è né più né meno che lo svolgimento del più ordinario dei compiti istituzionali del sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A pagina 2 torna la “cricca” composta da “sciacalli”. I magistrati avranno modo di dimostrare i reati degli indagati, ma gli argomenti a disposizione di Rep. non vanno oltre la suggestione: “A smascherare gli imprenditori che come avvoltoi – a cadaveri ancora caldi – si sono avventati sulla ricostruzione post terremoto, ci sono ora le intercettazioni”. La prova regina, per Rep., è che gli imprenditori si siano subito adoperati per vincere gli appalti, ma chissà quante inchieste avrebbe pubblicato se la ricostruzione avesse tardato.
L'Unità è addirittura surreale. Una paginetta del giornale di Concita De Gregorio è dedicata a un “imbarazzante colloquio” tra Denis Verdini, il suo amico imprenditore Riccardo Fusi e il governatore della Sardegna Ugo Cappellacci. Il sommario racconta di uno scambio fra i tre caratterizzato da “stereotipi xenofobi” perché il governatore della Sardegna ha detto che “il vero grande limite della Sardegna siamo noi sardi”. All'Unità non conoscono il significato della parola xenofobo, che è qualcuno che odia gli stranieri e quindi non può essere affibbiata a un sardo che odia i sardi, nemmeno se il sardo in questione è un berlusconiano che ha sconfitto alle elezioni l'allora editore dell'Unità. Se si legge l'intercettazione spacciata dall'Unità come “inchiesta” si capisce però subito che nessuno odia i sardi, ma che c'è stato un semplice scambio di battute e convenevoli interrotte da frequenti risate, come da annotazione dei carabinieri. L'editoriale indignato di De Gregorio (scuola Rep. mica per niente), si intitola “Aragoste in elicottero”. Scrive che “il governatore della Sardegna Cappellacci, Verdini e l'imprenditore Fusi parlano di aragoste da andare a prendere in elicottero” e aggiunge, magnanima, che “non è reato, no”. Solo che a leggere la trascrizione pubblicata dall'Unità si legge che “non si va a prenderle” in elicottero, ma “si va a mangiarle là”, “sul luogo”, cioè l'esatto contrario di quanto dice il titolo del principale articolo del giorno.
Anche la Stampa, si affida al metodo suggestivo. Un titolo a pagina 9 spara: “Se al ministero andrà D'Alì, lui è come un fratello”. Il sommario spiega: “Le speranze di Fusi e Di Miceli”. Fusi è l'imprenditore amico di Verdini, Di Miceli è un commercialista accusato, ma assolto, di mafia e chiamato di nuovo in causa dal figlio di Ciancimino. D'Alì è del Pdl come Verdini e siciliano come Di Miceli. La suggestione è servita. Peccato che l'articolo sveli che a parlare di D'Alì con Fusi non è Di Miceli, ma un tal Alessandro Biagetti.
E' la cricca, bellezza.
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