I nuovi D'Alebani
“Le religioni sono come le lucciole: per risplendere esse hanno bisogno dell'oscurità”, Arthur Schopenhauer
Come ogni religione, il dalemismo è un culto con le sue teorie, i suoi riti, i suoi discepoli, i suoi apostoli e le sue complesse liturgie attraverso le quali i fedeli tentano di esprimere il proprio personalissimo rapporto con la loro divinità.
“Le religioni sono come le lucciole: per risplendere esse hanno bisogno dell'oscurità”, Arthur Schopenhauer.
Come ogni religione, il dalemismo è un culto con le sue teorie, i suoi riti, i suoi discepoli, i suoi apostoli e le sue complesse liturgie attraverso le quali i fedeli tentano di esprimere il proprio personalissimo rapporto con la loro divinità. Come ogni religione, il dalemismo è un insieme di dottrine filosofiche, di correnti mistiche, di ideologie illuminate e di esercizi spirituali attraverso i quali i fedeli provano a identificarsi con il messaggio del proprio profeta. E come ogni religione, naturalmente, esistono molte e a volte singolari interpretazioni del culto dalemiano, ma tra tutte le ortodossie più o meno radicali sparpagliate in giro per l'Italia il rito che agli occhi di molti risulta essere quello più integralista degli altri non si trova a Gallipoli, non si trova a Firenze, non si trova a Bologna ma più semplicemente si trova nel Lazio, e soprattutto a Roma.
Così, fra esperimenti pugliesi, laboratori lombardi, sistemi emiliani e fortini rossi toscani, ecco, gli ultimi fatti di cronaca politica dimostrano che è proprio dietro le quinte della candidatura di Emma Bonino che si nascondono gli esegeti più rigorosi dell'ortodossia dalemiana: un gruppetto di ambiziosi politici smaliziati formato da professori, studiosi, ricercatori, giornalisti, studenti e da semplici militanti; tutti divisi tra consigli comunali, aziende municipalizzate, amministrazioni pubbliche, giunte regionali e segreterie di partito non solo locali; tutti impegnati da anni a costruire nella Capitale una piccola roccaforte del dalemismo italiano; tutti caratterizzati dal tratto comune di accusare il proprio leader di essere un moderato; e tutti diciamo così devoti nei confronti del verbo dell'Altissimo da essere arrivati al punto di esprimersi con le stesse frasi, le stesse parole, gli stessi toni, gli stessi accenti, gli stessi tempi, le stesse pause, gli stessi sguardi, le stesse malizie, gli stessi avverbi – “veramente”, “onestamente”, “assolutamente” – e perfino gli stessi intercalari – “diciamo…” – usati dal leader maximo.
I nemici giurati di questo piccolo esperimento di egemonia locale – che ha trovato terreno fertile nella città governata da due anni dal sindaco Alemanno – considerano così spregiudicata questa nuova razza di politici romani da aver deciso, già alla fine del 2008, di circoscriverne il raggio d'azione scegliendo di utilizzare per loro una formula spietata: D'alebani. Quando i D'alebani hanno cominciato a essere più minacciosi, e quando in altre parole hanno cominciato a occupare con più frequenza alcuni tra i più significativi posti chiave della città, i nemici hanno a poco a poco corretto la formula sostituendo la lettera “d” con la lettera “t”, e hanno iniziato a chiamarli semplicemente così: talebani. “I dalemiani romani – sostiene Lucio D'Ubaldo, responsabile del programma elettorale di Emma Bonino – costituiscono una realtà anomala rispetto a tutto quanto quel che succede nel resto del paese. Mentre in altre regioni i quadri di Massimo D'Alema sono spesso accusati di mirare all'occupazione del potere, beh, nel Lazio i seguaci dell'ex presidente del Consiglio hanno creato una sorta di piccolo laboratorio del pensiero dalemiano, diventato nel corso del tempo una religione alternativa non soltanto al veltronismo romano. Per questo sono vissuti, talvolta, con fastidio”.
In effetti, a Roma la fine dell'impero veltroniano ha dato vita a un fenomeno di lungo corso che ha messo diversi dalemiani romani nelle condizioni di coesistere in modo non troppo conflittuale con il sindaco di Roma Gianni Alemanno ed è stato proprio in questo contesto che i D'alebani hanno trovato tempo sufficiente per tentare di creare nel Lazio una piccola alternativa valida ai vecchi schemi politici. Il volto bifronte del potere che ha amministrato la Capitale per anni – e che prima della travolgente onda alemanniana era rappresentato dal braccio destro dell'ex sindaco Walter Veltroni (Goffredo Bettini) e dal braccio destro del presidente Silvio Berlusconi (Gianni Letta) – ha infatti lasciato il posto a una nuova creatura a più teste formata dai tre protagonisti della nuova stagione romana, e il triangolo formato da Massimo D'Alema, da Gianni Alemanno e da Francesco Gaetano Caltagirone (in accoppiata con il genero, nonché leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini) è qualcosa di più di un occasionale prodotto geometrico tra forze politiche differenti. Perché dietro la confortevole maschera di un'intesa bipartisan per riformare la città, gli uomini del presidente del Copasir e quelli del sindaco di Roma si sono già ritrovati più volte a tessere intese parallele per amministrare il post veltronismo romano, e il caso più eclatante di questo rapporto consolidato è stato quello legato alla più importante azienda romana: quell'Acea, da molti definita la Mediobanca del centro Italia, dove d'intesa con il sindaco di Roma (azionista di Acea al 51 per cento) e con l'ingegnere Francesco Gaetano Caltagirone (azionista anch'egli di Acea con quasi il nove per cento) pochi mesi fa i dalemiani sono riusciti a imporre le proprie scelte su quelle del partito, proponendo con successo nel consiglio di amministrazione della società non il candidato scelto dal Partito democratico romano ma l'assai stimato tesoriere di ItalianiEuropei, gradito anche dalla maggioranza, Andrea Peruzy.
Un altro caso che non è poi sfuggito agli occhi degli osservatori più smaliziati è legato al progetto di una imponente fondazione fortemente sponsorizzata dal sindaco Alemanno (la Fondazione Roma mediterranea) a cui – prima che il progetto fosse bloccato in consiglio comunale – aveva scelto di partecipare come socio fondatore una piccola società londinese (la Mercantile Bridge Ltd) guidata da un banchiere legatissimo a Massimo D'Alema dai tempi della vecchia Banca del Salento: Vincenzo De Bustis.
Gli ultimi mesi di politica romana hanno poi registrato anche una significativa ascesa di diversi dirigenti legati a Massimo D'Alema all'interno dei principali centri nevralgici della città, e in un certo senso la morfologia del potere dalemiano può essere compresa proprio raccontando i protagonisti di questa piccola presa della Capitale. Dalemiano è Umberto Marroni (capogruppo del Pd in consiglio comunale a Roma); dalemiano è uno degli assessori più potenti dell'attuale giunta regionale (Claudio Mancini, oggi assessore al Turismo dopo essere stato per anni responsabile dell'industria alla regione); dalemiano è il segretario del Pd laziale Alessandro Mazzoli (imposto alle primarie regionali in seguito a un blitz dei dalemiani che costrinsero Pier Luigi Bersani a ritirare la candidatura del suo prescelto Stefano Fassina); dalemiano è il deus ex machina di uno degli ultimi fortini democratici del Lazio (il viterbese Ugo Sposetti); dalemiana (oltre che romana) è anche uno dei membri più attivi della segreteria Bersani (Roberta Agostini, consigliere provinciale a Roma); dalemiano è un riservatissimo politico di Tivoli nominato nel 2008 tesoriere del gruppo del Partito democratico al Senato (Mario Gasbarri); dalemiano è il membro di uno dei consigli di amministrazione più ricchi e prestigiosi della Capitale (Piero Latino, consigliere della società che si occupa della gestione del patrimonio dei trasporti pubblici laziali – Cotral patrimonio – e coordinatore della costola politica di ItalianiEuropei nel Lazio: Red); dalemiana è Flaminia Saccà, consigliere di un'ambita società dedicata al sostegno dei processi di sviluppo imprenditoriale della regione Lazio (la Fisal); dalemiano è il coordinatore della campagna elettorale di Emma Bonino (Riccardo Milana); e dalemiano è infine anche una delle stelle emergenti del Partito democratico: l'ex portavoce di D'Alema Matteo Orfini, oggi il più giovane membro della segreteria Bersani.
Gli apostoli del pensiero dalemiano hanno iniziato a diffondere il verbo del leader nella Capitale scegliendo come proprio punto di riferimento alcuni luoghi della città. E tra le principali cattedrali del dalemismo vi sono due storiche sezioni romane in cui i D'alebani hanno imparato a coltivare con molta devozione il culto del leader maximo alla fine degli anni Novanta. La prima è la vecchia sezione di Monteverde del Partito prima comunista e poi diventato democratico da cui provengono gran parte dei D'alebani romani e da cui provengono alcuni apprezzati militanti che studiando le dinamiche delle espansioni urbanistiche della Capitale sono diventati preziosi punti di riferimento per i costruttori romani. La seconda si trova invece a pochi passi dalla sede Rai di viale Mazzini, a pochi metri da un piccolo ristorante romano in cui D'alebani amano ritrovarsi il sabato a pranzo (Cacio e Pepe) e a due isolati di distanza da un famoso liceo in cui hanno studiato gran parte dei D'alebani cresciuti nel centro storico della città (il Mamiani). E' questa la sezione in cui sono cresciuti Massimo D'Alema e Nicola Zingaretti ed è questa la sezione gestita per anni da Matteo Orfini, che prima di diventare braccio destro di D'Alema ha tentato per la prima volta in Italia di mettere insieme sotto lo stesso tetto i due partiti che avrebbero dato vita poco tempo dopo al Pd: Ds e Margherita.
A tutto questo va però aggiunto un ulteriore aspetto. Perché se la scintilla che ha innescato la marcia dell'esercito dei D'alebani è maturata per tentare di lottare contro le forze del male del veltronismo, la presenza di un nucleo forte di dalemiani romani è anche il risultato di un processo storico di lungo corso. Gran parte dei nomi chiave del dalemismo capitolino fanno infatti parte di quel nucleo di militanti esclusi dal rinnovamento messo in pratica negli anni Novanta dal dominus della politica romana, Goffredo Bettini. E molti tra i D'alebani sono figli di quei funzionari di partito che tra l'inizio degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ancora prima di finire vittime del centralismo democratico veltroniano, hanno sempre vissuto nella clandestinità la resistenza a ogni “ismo” che non fosse coincidente con comunismo e poi più semplicemente con dalemismo. Figlio di uno storico dirigente di partito è per esempio Claudio Mancini, il cui padre Emilio, dopo essere stato a lungo responsabile dell'organizzazione regionale prima del Pci e poi del Pds, oggi è garante regionale del Partito democratico e nella sua casa a Monteverde ospita i vari dalemiani romani che di tanto in tanto si vanno a confessare da lui. Figlia di un importante uomo del Pci è anche l'attuale membro della segreteria Bersani Roberta Agostini (suo padre era tesoriere romano del Pci). E lo stesso vale per Umberto Marroni, figlio di un importante vecchio dirigente comunista romano (Angelo Marroni ex potente Assessore al Bilancio della regione Lazio).
La robusta rete del potere romano di D'Alema nasconde però anche qualche piccolo problema. L'assenza di un politico strettamente legato al Pd nella corsa alla regione Lazio ha certamente avuto l'effetto di rafforzare il piccolo blocco di potere creatosi a Roma dopo la sconfitta di Francesco Rutelli, e in fondo l'ascesa di Emma Bonino ha congelato i nuovi equilibri nella città. Ma la candidatura di una radicale come Emma dimostra anche che i nuovi dominatori della politica romana sono stati sì capaci di occupare posti importanti della regione ma che in due anni di opposizione non sono stati invece in grado di produrre una nuova classe dirigente che abbia avuto la forza di imporsi nella partita più importante: la corsa alla presidenza del Lazio. E così, nonostante siano in fondo passati due anni dalla fine del famigerato modello Roma, un nuovo pivot della politica romana, che abbia insomma l'ultima parola nelle scelte che contano a Roma, semplicemente non esiste. E' forse proprio questo il tratto paradossale del dalemismo: essere riuscito a coltivare un'alternativa alle ideologie dei suoi oppositori senza aver avuto però la capacità di creare dei veri nuovi leader.
Una piccola ma significativa eccezione dei D'alebani la rappresenta probabilmente Nicola Zingaretti. I dalemiani romani non amano la biografia un po' articolata del presidente della provincia (Zinga, come lo chiamano i suoi collaboratori, nasce dalemiano, diventa bettiniano, viene ingiustamente considerato per un periodo persino veltroniano e poco prima delle ultime primarie del Pd diventa infine bersaniano) ma secondo molti l'assenza di un vero dalemiano su cui investire nel futuro per tentare di proseguire la propria opa sulla città presto costringerà i D'alebani a puntare tutto sul presidente romano. Certo, a Roma si sa che Zingaretti e D'Alema non si amano moltissimo ma in fondo Zinga e Max sono nati nella stessa città, sono cresciuti nelle stesse sezioni, hanno studiato nello stesso quartiere, hanno frequentato per anni gli stessi ristoranti. E oggi in molti nella Capitale sono pronti a scommettere che prima o poi i due si incontreranno: anche perché il caso vuole che nella Roma dei D'alebani Zingaretti e D'Alema abitano giusto giusto sullo stesso marciapiede.
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