Promiscuità, consulenze, familismi: dove stanno i reati?
Il romanzone giornalistico della corruzione ha personaggi senza nomi
Sono quasi due settimane che i cronisti rovistano tra le ventimila pagine consegnate dai carabinieri del Ros alla procura di Firenze per sostenere, si dice così, l'inchiesta sulla Protezione civile. E sono due settimane che i giornali offrono ai propri lettori lenzuolate di intercettazioni dalle quali affiorano comparaggi e compromissioni, privilegi e raccomandazioni, puttane e sputtanamenti. Ma, al di là delle chiacchiere e delle campagne di stampa, dove sono le mazzette, i soldi, le tangenti, le mani nella marmellata?
Sono quasi due settimane che i cronisti rovistano tra le ventimila pagine consegnate dai carabinieri del Ros alla procura di Firenze per sostenere, si dice così, l'inchiesta sulla Protezione civile e sulla “cricca” degli appalti che ruotava attorno a Guido Bertolaso. E sono due settimane che i giornali offrono ai propri lettori lenzuolate di intercettazioni dalle quali affiorano comparaggi e compromissioni, privilegi e raccomandazioni, puttane e sputtanamenti, equivoci e mascariamenti, arroganze e ineleganze di un sistema rampino che tutto azzanna e tutto divora. Ma, al di là delle chiacchiere e delle campagne di stampa, dove sono le mazzette, i soldi, le tangenti, le mani nella marmellata?
I magistrati fiorentini sono certi che la “fitta rete” di rapporti e conversazioni, così a lungo documentata da fotografie e intercettazioni, è di per sé un fatto; e che da questo fatto discendano comportamenti dietro i quali non è difficile individuare la corruzione, reato per il quale sono già finiti dietro le sbarre tre alti funzionari dello stato e un costruttore: Angelo Balducci, Fabio De Santis, Mauro Della Giovampaola e Diego Anemone. Mostreranno al pubblico anche la pistola fumante, la prova certa del delitto? E' possibile. Nell'attesa però, qualche dubbio malandrino comincia a zampettare non solo tra gli addetti ai lavori – quelli cioè che, per dovere d'ufficio o per ragioni di appartenenza politica sono portati a difendere imputati e indagati; ma anche tra coloro che, in prima battuta, avevano intravisto nel “terremoto” della maxinchiesta fiorentina la possibilità dell'ultima, definitiva spallata al sistema, al regime.
La prima conferma che il dubbio malandrino possa farsi strada anche lì dove meno te lo aspetti, viene proprio dalla procura di Perugia alla quale Firenze ha dovuto trasmettere gli atti: tra gli indagati c'è, come si ricorderà, il procuratore aggiunto Achille Toro, e quando c'è di mezzo un magistrato della Capitale la competenza passa automaticamente al tribunale di Perugia. Bene. Il pubblico ministero di quella città, dopo avere dato una prima occhiata alle carte, ha fatto sapere che intende allargare il quadro dell'accusa: non solo corruzione, ma anche associazione a delinquere. Un dettaglio da non sottovalutare.
Il reato associativo, una specialità quasi esclusiva della giurisprudenza italiana, generalmente si affaccia quando la tela delle contestazioni non poggia tanto sulla prova solida di questo o quel reato ma su un chiacchiericcio disdicevole, un malcostume, una frequentazione poco commendevole, un tessuto di amicizie poco raccomandabili, una trama di interessi poco chiari. Spiega l'avvocato Grazia Volo, una veterana sia dei processi di Tangentopoli che dei processi di mafia: “Il reato associativo viene richiamato nella maggior parte dei casi quando si vuole dare una finalità a rapporti che, presi ciascuno per proprio conto, possono apparire certamente disdicevoli ma non penalmente rilevanti. Con l'associazione a delinquere tutti quelli che chiacchierano dentro l'ipotesi di un accordo vengono invece criminalizzati in quanto la loro associazione è un fatto immanente e le loro conversazioni diventano conseguentemente, questa la formula, atti prodromici alla commissione di un delitto”. Delitti commessi, dunque, o ancora da compiere?
Sembrerà strano, ma il dubbio malandrino, a ben leggere, è riuscito a insinuarsi anche tra i tavoli di Repubblica e ad appalesarsi persino sulla scrivania di Giuseppe D'Avanzo, principe dei cronisti inquisitori. Dopo due settimane di fuoco aperto non solo contro Guido Bertolaso e le prime file dello scandalo, ma anche e soprattutto contro Palazzo Chigi, Palazzo Grazioli e via dell'Umiltà, cronisti e principi dei cronisti sono stati assaliti, sembra, da qualche paura e da qualche stanchezza. La paura è che il conflitto di competenze, amplificato l'altro ieri dal Corriere della Sera, tra la procura di Roma e quella di Firenze possa approdare in Cassazione e che la Suprema corte si lasci andare a un verdetto a dir poco devastante: sì, in effetti i magistrati fiorentini non potevano tenere mezza Roma sotto intercettazione telefonica; quindi quelle ventimila pagine sono illegittime e quasi tutte da buttare.
D'Avanzo, vecchia volpe, ha fiutato il pericolo e, da par suo, mette in guardia Giovanni Ferrara, procuratore di Roma, l'unico titolato a sollevare la questione davanti ai supremi giudici di piazza Cavour. Al capo dei pm romani D'Avanzo rimprovera intanto il fatto di non avere adeguatamente vigilato sul doppio gioco di Toro, suo procuratore aggiunto; poi lo taccia di ipocrisia e infine – proprio per non farsi mancare nulla – ridisegna sul Palazzo di Giustizia di Roma l'immagine del porto delle nebbie, immagine di tempi passati e scellerati. Potrà mai un procuratore, con questo bel disegnino appiccicato sulle spalle, trascinare i colleghi di Firenze davanti al giudizio della Suprema Corte? Ma non è solo la paura di un ricorso in Cassazione quella che si coglie tra le righe di Rep. C'è anche il timore che, a forza di mestare e rimestare nel pentolone dell'inchiesta fiorentina e di raccontare le nefandezze del cosiddetto “contesto”, ci si possa a un certo punto imbattere in un boccone poco digeribile, almeno per quei palati convinti che il bene sia tutto di qua e il male tutto di là.
C'è il boccone degli “arbitrati”, cioè quelle decisioni private con cui spesso si risolvono le controversie che oppongono le ditte appaltatrici all'amministrazione pubblica. Un gran “circo”, si legge, che costa allo stato oltre 350 milioni di euro l'anno e arricchisce di 25 milioni l'anno, più o meno, gli “arbitri”: un ristretto club di avvocati, non più di una decina, giudici amministrativi, avvocati generali dello stato, giudici contabili. E poi c'è il più ampio e articolato filone delle consulenze. D'oro, va da sé.
La consulenza, annota D'Avanzo, “non è altro che una ‘tangente pulita e fatturata' per tener buono il giudice amministrativo, l'assessore riluttante, il giudice contabile, il pargolo scapestrato del parlamentare, il genero del capocorrente, il procuratore cui si chiede di farsi quietista e guardare dall'altra parte”. A chi si riferiscono questi ritratti, così precisi e dettagliati? Boh, non si sa.
Il cronista di Rep. i nomi se li è appuntati meticolosamente, altrimenti non li avrebbe descritti così bene, ma non li scrive. Forse per evitare altri azzardi e altre smentite. Perché alla lunga le smentite, come le delusioni, finiscono per stancare anche i cronisti più tenaci. Le carte fiorentine, per esempio, offrono la certezza che Angelo Balducci, il grand commis di tutto questo brutto affare, abbia avuto un incontro a Palazzo Chigi, addirittura il giorno prima dell'arresto. Ma non era vero. Per varcare la soglia di quel palazzo bisogna registrarsi con una procedura che non prevede eccezioni; e di Balducci, nei registri della sorveglianza non c'è traccia.
Poco più in là le intercettazioni, sempre sul telefono di Balducci, fanno cenno a un misterioso “zio” e tutti gli inquisitori vogliono credere e far credere che dietro quel nome di comodo si nasconda un nome politicamente pesante, magari Gianni Letta. Una balla. Il vero zio si fa vivo nel giro di poche ore: sì, sono io, il professore Renato Lauro, Università di Tor Vergata, medico personale di Angelo Balducci. Fine di una illusione.
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