Sul divismo di Marco Travaglio

Marianna Rizzini

Ci vuole ben altro che una lite epistolare a puntate con Michele Santoro sul Fatto per buttare giù Marco Travaglio dallo status di divo delle folle arrabbiate contro “il delinquente”, categoria mitologica di politico o funzionario variamente corrotto o corruttibile nell'arco degli ultimi quindici anni. E dire divo è poco, ché Marco Travaglio, con la sua allure da castigatore a mezzo archivio, non solo continua a piacere anche quando i suoi compagni di strada cominciano a dispiacere, non solo ispira canzoni, non solo attira lettrici adoranti nelle librerie della penisola (e a volte Travaglio si sporge giù dai palchi per firmare autografi).

    Ci vuole ben altro che una lite epistolare a puntate con Michele Santoro sul Fatto per buttare giù Marco Travaglio dallo status di divo delle folle arrabbiate contro “il delinquente”, categoria mitologica di politico o funzionario variamente corrotto o corruttibile nell'arco degli ultimi quindici anni. E dire divo è poco, ché Marco Travaglio, con la sua allure da castigatore a mezzo archivio, non solo continua a piacere anche quando i suoi compagni di strada (Antonio Di Pietro e Beppe Grillo) cominciano a dispiacere, non solo ispira canzoni (Simone Cristicchi è andato a Sanremo con un brano scritto pensando al libro “La scomparsa dei fatti”), non solo attira lettrici adoranti nelle librerie della penisola (e a volte Travaglio si sporge giù dai palchi per firmare autografi). Marco Travaglio scrive pure ogni giorno sul Fatto e c'è gente che compra il Fatto solo per quello – “se non ci fosse lui non leggerei più i giornali”, dice Roberta Sacchetti, travaglista milanese che si definisce senza pudore “seguace di Travaglio perché Travaglio è la bussola di questi tempi bui”.

    Di sicuro Travaglio gode, sul Fatto, del sostegno editorialistico di Paolo Flores D'Arcais, giunto persino a suggerire i tempi di spegnimento del microfono a Michele Santoro, troppo poco travaglista (per i gusti di Flores) di fronte “allo squadrismo mediatico” di cui Travaglio, secondo Flores, è stato vittima durante l'ultima puntata di Annozero. E hai voglia a dire, come ha fatto dal vivo Michele Santoro, con il sorriso che gli scappava come a scuola, “eddai, ebbasta”, caro Marco fai un errore a incazzarti così (con Nicola Porro del Giornale), e cari Porro e Belpietro prendetevela con me che tanto non me ne frega niente. Hai voglia pure a rispondere per iscritto: “Caro Marco hai perso il lume, parli come un membro della commissione di vigilanza”. Nulla riesce a turbare l'amore idolatrico delle folle per l'eletto, il giusto, l'unica schiena dritta in un mondo di schiene storte – “un autografo di Travaglio è un onore”, dice Chiara Angeli, travaglista romana scesa in piazza con il popolo viola, convinta che “con Travaglio premier l'Italia risorgerebbe”.

    Per gli editori e i produttori teatrali, poi, Marco Travaglio è una macchina senza concorrenti nel campo della pubblica indignazione: oltre un milione e mezzo di copie vendute con i vari “L'odore dei soldi”, Regime”, “Le mille balle blu”, “Papi”, e il tutto esaurito per l'interminabile tournée di “Promemoria”, tre ore e passa di monologo sopportato stoicamente dagli adepti a Manfredonia come a Bolzano, dove gli spettatori paganti in esubero si sono accontentati di un maxischermo pur di vedere il mito farsi carne, ossa ed elenco di malefatte dei cattivi d'ogni risma – si salva solo Roberto Saviano.

    E pensare che Marco Travaglio si schermiva, tempo fa, di fronte al successo dei suoi voluminosi tomi di denuncia, molti dei quali scritti con Peter Gomez (capriccio della sorte, il povero Gomez non assurge a simili vette di popolarità). “Eppure è roba che se ti cade su un piede te lo distrugge”, aveva detto Travaglio a Panorama, parlando dei suoi libri ristampati a rapidità indicibile.
    Né sfuggirà l'esistenza della febbre popolare travaglista a chi osservi ciò che accade prima della sigla di Annozero, mentre gli ospiti, alla spicciolata, fanno il loro ingresso nell'anfiteatro. Arriva il “nemico” di turno (un Belpietro, un Lupi) e dal pubblico soprastante giunge un mugugno ostile (non si può gridare “vergoooogna” in studio). Arriva il giornalista non schieratissimo (una Lucia Annunziata) e il mugugno si affievolisce, pur non trasformandosi in applauso. Arriva il politico di centrosinistra (un Franceschini) e l'applauso c'è, ma freddino. Poi arriva Vauro, accolto da amicone a suon di “a' Vauro” (e il tono è quello di “A' Nando, facce Tarzan”). All'ingresso di Santoro l'applauso si fa scrosciante. Segue silenzio insolito ma necessario, forse, all'apparizione di Travaglio: eccolo che incede serio e magro, con il quadernino non ancora squadernato – ed è boato.   

    Il giorno dopo la lite Travaglio-Santoro c'era chi, in ambienti televisivi, si chiedeva “ma Santoro sarà invidioso del successo di Travaglio?” – e se l'invidia di Santoro pare improbabile, il successo di massa del “Travaglio paladino degli indignati” pare innegabile. Tanto che, all'indomani del battibecco televisivo, i fan di Travaglio – che di solito sono anche fan di Santoro – se la sono presa non solo con “gli squadristi” (Belpietro e Porro) ma pure con il conduttore. Sul blog travagliesco “voglioscendere” il lettore Alberto Contu scriveva: “…Santoro deve difendere il suo posto di lavoro e quello di tante altre persone ed è per questo che non può difendere la verità dei fatti fino in fondo. Questo non giustifica il suo comportamento e la mancata presa di posizione davanti a un attacco vile e meschino…”. L'utente del blog Pasquale Del Rio invitava “il dottor Travaglio” alla resistenza e il prete don Matteo Panzeri alla “perseveranza”. La professoressa in pensione Lucia Tibaldi confessava di aver sognato Marco “come allievo”. Si sprecavano i “Marco non mollare” e i “Marco non sarai mai solo”. Qualcuno rimpiangeva “il sorriso ironico” (perduto) di Marco. Peggio che a Santoro andava al “nemico” numero uno Porro: orde di travaglisti inferociti si riversavano nottetempo sul suo blog per inoltrare insulti e minacce (non pubblicate, a differenza del più moderato commento: “Vaffanculo a te, servo skifoso, e a B.”).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.