Così i teologi italiani organizzano la resistenza culturale
Se oggi c'è una cosa sui cui tutti sono d'accordo – credenti e non credenti, destra e sinistra – è che la religione è sinonimo di interiorità, di orticello da coltivare senza disturbare il vicino. E' stata quindi una bella prova di resistenza culturale dedicare un convegno all'“esteriorità di Dio” e cercare di ragionare sulla fede “nell'epoca della perdita del mondo”, quando anima e società hanno preso strade opposte.
Se oggi c'è una cosa sui cui tutti sono d'accordo – credenti e non credenti, destra e sinistra – è che la religione è sinonimo di interiorità, di orticello da coltivare senza disturbare il vicino. Uno spazio intimo, senza mediazione, senza terzo incomodo. Solo io e solo Dio, nient'altro. Libri e immagini sacre, liturgie, opere buone, devozioni, dogmi: tutto quanto sta al di fuori di quel cerchio magico lascia il tempo che trova, è un mito al tramonto, barocchismo deteriore. “In interiore homine habitat veritas”, in fondo lo diceva già Agostino.
E' stata quindi una bella prova di resistenza culturale dedicare un convegno all'“esteriorità di Dio” e cercare di ragionare sulla fede “nell'epoca della perdita del mondo”, quando anima e società hanno preso strade opposte. Nei giorni scorsi la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale ha proposto, sotto la regia di Pierangelo Sequeri, una riflessione interessante sulla radice sensibile della fede. Prima del pensiero, c'è l'affetto. E' l'affetto (di Dio verso l'uomo e viceversa) che dà senso alla vita e non potrebbe essere altrimenti per una religione, il cristianesimo, che si fonda sull'incarnazione. Eppure i sintomi di una fede smaterializzata, di una religione segnata da forti spinte gnostiche (basta leggere cosa ha scritto di recente Marco Vannini) ci sono tutti.
Non è roba da poco. Per i teologi della scuola di Milano la posta in gioco è alta, ne va del destino di tutti noi vecchi occidentali. “Una nuova alleanza tra umanesimo e spiritualità è nell'interesse della nostra civiltà”, ha detto Sequeri che non a caso ha affidato la relazione fondamentale del convegno a Julia Kristeva, filosofa lacaniana amica di Derrida e Foucault che negli ultimi tempi si è occupata di sacro e dintorni. Laicamente, avverte il pericolo in atto: “Quando la fede viene a mancare, o per lo meno si ripiega ‘tra parentesi', non è il senso del dovere morale che essa ci lascia (alla maniera di Kant) che potrebbe restituirci quella felicità amorosa attraverso cui si definisce, come sembra, il fatto umano.
Allora, di due cose l'una. O l'umanità disincantata si ridurrà a una massa di consumatori delusi dalle prestazioni sessuali e altri servizi tecnici di creazione e procreazione. O le esperienze amorose, dove interiore ed esteriore si attraggono e si lacerano, si costruiscono e si distruggono, continueranno a complicare i loro giochi. Come fa la più barocca delle sante, Teresa d'Avila, che si permette di giocare a scacchi con il suo Dio, immergendo tutti gli affetti nella sua infinita purezza” (alla grande mistica la Kristeva – un destino nel cognome – ha dedicato poco tempo fa un saggio notevole). Da qui la stoccata finale: “Perché i cattolici sono poco fieri della rivoluzione barocca che ha fatto di ogni corpo, suono o colore, un infinito-punto, un impatto dell'infinito?”. Insomma, o sensibili allo Spirito o niente. E vale per tutti, qui a occidente.
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