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Texas Hold'Em. Vi racconto da giocatore l'epopea del grande poker

Lanfranco Pace

Sabato 7 novembre, alle 13 ora di Las Vegas, nove uomini scendono da altrettante limousine davanti l'ingresso del Rio All-Suite Hotel Casino. Un inglese, un francese, sette americani, passano come rockstar tra due ali plaudenti di folla e una selva di telecamere, entrano nella Amazon Room riorganizzata per l'occasione, al centro un tavolo verde, oblungo, a forma di arachide, con una rientranza riservata a chi distribuisce le carte, il dealer.

E' in arrivo un nuovo blog del Foglio.it: "Polpok", il blog di politica, poker e vizi vari di Lanfranco Pace.Tra pochi giorni on line.

    Sabato 7 novembre, alle 13 ora di Las Vegas, nove uomini scendono da altrettante limousine davanti l'ingresso del Rio All-Suite Hotel Casino. Un inglese, un francese, sette americani, passano come rockstar tra due ali plaudenti di folla e una selva di telecamere, entrano nella Amazon Room riorganizzata per l'occasione, al centro un tavolo verde, oblungo, a forma di arachide, con una rientranza riservata a chi distribuisce le carte, il dealer. Sono i “November Nine” i nove che si disputano la finale delle Wsop, le World Series of Poker, il campionato del mondo, l'evento più atteso dell'anno. Per arrivare lì hanno affrontato e vinto una battaglia durissima, a luglio, contro i 6.485 che come loro avevano pagato diecimila dollari d'iscrizione, ricevendo in cambio lo stesso sacchetto con trentamila dollari in chips. Per più di una settimana, in questa stessa sala e in quella contigua, la Brazil Room, hanno giocato alla cadenza di quattordici ore al giorno, in una bolgia di grida, imprecazioni e invocazioni alla sorte, trafitti dal suono metallico, stridente di milioni di fiches maneggiate compulsivamente su centinaia di tavoli. Un gioco al massacro perché il torneo è freeze out, ovvero a distruzione, da regolamento è proibito comprare altri gettoni. Chi perde tutto quello che ha davanti è fuori, deve alzarsi e andarsene. E' un player “out”, un numero che scompare dai tabelloni, vittima dell'aggressività parossistica che si sprigiona ogni volta che è in gioco la sopravvivenza, vittima che tutti dimenticano e nessuno consola.

    Se questo gioco seduce è anche perché si presenta con il volto accattivante della democrazia, è indifferente al danaro accumulato in precedenza, garantisce l'uguaglianza delle condizioni di partenza, ricchi e poveri sulla stessa linea, proprio come una volta i pionieri allineavano i carri aspettando il via della corsa all'ovest. Ora che il traguardo è vicino, l'eguaglianza è un pallido ricordo: chi ha meno chips e sta come si dice in gergo “stretto” o “corto” ha sei milioni, quello che ne ha di più ha dieci volte tanto, quasi sessanta. I ribaltamenti sono sempre possibili, nel 1982 vinse il titolo uno a cui erano rimasti solo cinquecento miseri dollari. Per sperare al giocatore basta poco, “a chip and a seat”, un gettone e una sedia. Ma questa volta il miracolo non avviene. Dopo solo tre ore, l'inglese che ha meno di tutti viene fatto fuori. Poi tocca a cinque americani, uno dopo l'altro, infine al francese. Alcune eliminazioni sembrano uscite dal manuale dei cliché. C'è il giocatore che finalmente ha le due migliori carte coperte possibili, due assi e come vuole la logica si gioca tutto: AA, la chiamano anche American Airlines per la frequenza con cui si schianta al suolo. Puntualmente l'avversario partito indietro con due re, ne pesca altri due tra le carte comuni e chiude addirittura un incredibile poker. Un altro, uno dei giocatori più forti al mondo dato favorito dai bookmakers scommette tutto con asso e re, AK: la chiamano la Tournikova perché è bella ma non vince mai, così anche lui è eliminato.

    Dopo ore di montagne russe, di cadute vertiginose e risalite sorprendenti, tra genitori in lacrime, mogli e fidanzate dallo sguardo attento e coach in ansia, in un clima da curva sud, restano in due: è il duello finale, le cosiddette “heads up”. Darvin Moon, fisico massiccio, volto squadrato, proprietario di una segheria nel Maryland è un dilettante. Gioca solo da qualche anno, si è fatto le ossa nel circolo sotto casa e non ha mai fatto partite testa a testa perché dalle sue parti quando si resta in due è buona creanza dividersi la vincita. Uomo dei grandi spazi è vagamente fuori dal tempo. Non ha un indirizzo e-mail, rifiuta gli sponsor, dice che non è certo a quarantacinque anni che comincerà a lavorare sotto padrone, la giusta concentrazione per la finale l'ha trovata isolandosi quindici giorni in un capanno in un bosco e dando la caccia al cervo.
    Joseph “Joe” Cada ha il profilo opposto. Ventuno anni, figlio della metropoli, Chicago, ha il volto affilato del rapace e il temperamento aggressivo del rapper. E' un professionista del gioco on line è considerato uno dei più forti al mondo proprio nelle partite a due: ha già vinto alcune centinaia di migliaia di dollari con cui ha comprato casa per tutta la famiglia.
    A questo momento del torneo vengono rovesciate sul tavolo le ceste con il montepremi in contanti, il pubblico è in delirio: il sogno collettivo si nutre anche della presenza fisica, rassicurante del dio dollaro. Moon e Cada si alternano al comando, il ragazzo sembra stia per sprofondare, poi si riprende. Nella mano decisiva, Joe Cada ha due nove, Moon un fante e una donna. Cada si gioca tutto, chiama il fatale “all in” che il romanesco sempre immaginifico ha tradotto in “te manno la vasca”. Le probabilità sono leggermente a favore di Moon che ha due carte buone per superare la coppia dell'avversario: ma non ci sono né fanti né donne nella community, solo un otto, un due, un sette, un re e ancora un sette. Joe Cada è il più giovane campione del mondo della storia e vince otto milioni e mezzo di dollari. Darvin Moon ne vince poco più di cinque. L'ultimo dei Nine riceve un assegno di un milione e duecento mila dollari. Archiviata l'edizione 2009 i grandi professionisti, con al seguito tanto di coach, preparatori atletici, massaggiatori e in molti casi anche psicologi si preparano già al 2010: i campionati nelle varie specialità cominceranno a fine maggio, iscrizioni aperte fino a tre settimane prima, poi a luglio nuove eliminatorie del campionato del mondo, a novembre la nuova finale. E' l'eterno ritorno dell'identico, il tempo perfettamente circolare che non conosce principio né fine. Intanto i maggiori operatori del gioco on line si stanno contendendo a colpi di assegni a sei zeri i nove finalisti del 2009 per inserirli nei loro team professionistici, per far loro indossare un logo da portare in giro per il mondo, suscitare curiosità, dare spettacolo. Il gioco dunque può davvero cambiare la vita.


    E' questo il mondo del Texas Hold'em, la specialità del poker più diffusa, ma anche la più sofisticata, la più difficile, la più violenta. E' la “Cadillac” del poker, dice Matt Damon in “The Rounders”, del 1998, primo film dedicato a questo gioco e diventato da allora di culto. Hold'em, alla lettera “tienile”, tienile strette, e vai a capire perché traduttori misericordiosi aggiungono sempre un complemento oggetto, a volte le carte a volte le chips. Come se un gioco inventato nel Texas potesse fin nel nome dispensare saggi consigli. Le cose da tenere strette, ben strette sono in verità le palle dell'avversario.
    E' questa la metafora crudele dell'ultimo sogno che l'America offre al mondo e il mondo avidamente accoglie, che sta dilagando nelle case, nei circoli e nei club spuntati come funghi, che sta regalando una seconda insperata giovinezza ai casinò al viale del tramonto. E' il sogno che tiene milioni di persone inchiodate al computer, di giorno, di notte, donne e uomini, ricchi e no, ragazzi delle periferie urbane dalle strane capigliature e imprenditori di successo, gente anonima e glorie vecchie e nuove dello sport. Attori come Matt Damon, Ben Affleck o Brad Pitt. O come Jennifer Tilly, già musa di Woody Allen e interprete indimenticabile di “Bound”, in cui si innamora di un ex detenuta riconvertita in idraulico e insieme a lei decide di eliminare il marito bastardo e rubare un milione di dollari alla mafia. Nella scena madre il marito le dice: “Non puoi uccidermi perché tu mi ami”. E lei : “Non hai mai capito un cazzo” piantandogli una pallottola in testa. Al tavolo di Hold'em ci si può imbattere anche in questa tigre dal volto di mammola, statene alla larga, un paio di anni fa è stata campionessa del mondo.

    Se le cose continuano così, è possibile che fra qualche anno alcune centinaia di milioni di abitanti del pianeta, che so uno su trenta, uno su venti, giocheranno regolarmente al Texas Hold'em. Uno scenario da apocalisse. Ogni principiante spera di ripercorrere le orme di chi si è messo in viaggio prima di lui e prima di lui ha osato, imparato, vinto. Tutti con lo stesso sogno, vincere con pochi soldi l'iscrizione ai campionati del mondo, entrare almeno una volta da protagonista nella città che la follia visionaria di un gangster sanguinario adagiò su un pezzo di deserto, la città dell'artificio assoluto, dove tutto è suono, luce, colore e tutto si vende. La città di cui Martin Amis ha detto che, se la si dovesse descrivere con un solo aggettivo, questo non potrebbe essere che “non islamica”, la sola città al mondo “rigorosamente, incredibilmente non islamica”: Las Vegas.
    E' come se il dio protettore del paese delle mille opportunità, dopo aver visto i danni fatti da irresponsabili fighette vestite Armani e venute su a sushi, insalata scondita e acqua d'Evian, quel dio avesse deciso che è cosa buona e giusta tornare indietro, alle origini del mito. Al tempo in cui la responsabilità individuale era l'altra faccia della presa di rischio, dell'azzardo e del successo, ai simboli immediati e solidi, il cow boy, il cavallo e il fucile, l'individuo, la libertà di movimento, la forza legittima, le fondamenta della ricchezza del grande paese.
    I giocatori professionisti che in maggioranza da quella cultura discendono non sono certo meno avidi di finazieri e banchieri. Ma a differenza della speculazione, il gioco ha un'etica intrinseca, radicata e profonda. Una comunità libera e volontaria non può tollerare al suo interno l'indegno che viola regole trasparenti e condivise. Tempo fa un vecchio giocatore raccontava alla televisione canadese quel che gli era capitato in un casino della strip: sovrappensiero lascia il portafoglio con decine di migliaia di dollari in contanti su un tavolo proprio nel punto di massimo afflusso alle sale. Alcune ore dopo, appena se ne accorge, torna sui suoi passi e lo trova nello stesso posto, dentro c'è fino all'ultimo dollaro. L'intervistatore è basito, non riesce a farsene capace, il vecchio sorride, sornione, fiero della diversità del suo mondo. E' il principio di piacere che governa il gioco: la proibizione, l'obbligo di rettitudine nasce dalla paura di perderlo. Il giocatore professionista prova piacere solo dimostrando ogni giorno di essere il più forte, di saper portare via i tuoi soldi, anzi di spingerti a consegnarglieli esercitando una violenza psicologica che fa più male della violenza fisica, guardandoti dritto negli occhi, mentre sbuffi, ti agiti e sotto le ascelle il sudore disegna l'inequivocabile bisaccia.

    E' quello che ha vissuto proprio Martin Amis. In uno splendido racconto autobiografico pubblicato anni fa da Repubblica, descrive alla perfezione l'ipertrofia dell'ego, l'eccesso di autostima che gli fanno credere di essere all'altezza dei grandi e lo spingono a iscriversi al campionato del mondo. Si prepara con cura, manda a mente tabelle, legge libri, ascolta consigli. Ma appena si siede al tavolo tutto svanisce. Si sente come portato via da un turbine, vince qualche mano ma si rende subito di essere un libro aperto: quando ha un buon punto nessuno paga per vederlo e il minimo bluff viene puntualmente castigato. Si scompone, smarrisce la linea di condotta che si era imposta, finisce nel peggiore dei modi, affondandosi da solo in una mano senza futuro. Lo scrittore attratto dal mito dell'eroe che credeva che il gioco potesse cambiargli la vita esce di scena prima ancora del calare della sera.
    Joseph “Joe” Hachem non è fra i più forti in circolazione ma è comunque un duro da cuocere, ha il temperamento del vincente. Australiano d'origine libanese, ex chiropratico, nel 2005 elimina più di cinquemila concorrenti, vince titolo e sette milioni e mezzo di dollari. E' uno che se butta fuori un avversario che non gli sta molto simpatico è pure capace di gridargli addosso “fuck you man”. Conosce se stesso e non nasconde il piacere che gli dà frugare nella mente degli altri, mettere a fuoco reazioni involontarie e quasi impercettibili, decrittare quel linguaggio del corpo che esprime la faglia, la debolezza, i “tells” che un altro giocatore famoso, Mike Caro, ha repertoriato e suddiviso in cinque tipologie diverse descritte in un libro che da venti anni è strumento indispensabile di conoscenza nel mondo ostile. Che vinca o che perda, Hachem dice di sentirsi sempre in allerta, un predatore che vuole anticipare l'avversario per “stringergliele” nella morsa, fino alla resa. Sono più o meno i termini con cui Joseph Fouché, fondatore della polizia moderna, racconta a Talleyrand emozioni e delizie delle moderne tecniche d'interrogatorio.

    Non è la solita febbre che sale in tempi di crisi, quando i soldi sono pochi e si spera nella buona sorte: non è il gioco del lotto né una lotteria. L'Hold'em è materia ardua, oggetto di una letteratura sterminata, libri e riviste specializzate. Ha dato vita a migliaia di scuole dal vivo e on line, dove insegnano molte cosette. La differenza tra il gioco in torneo e nel cash game, la partita con soldi veri sul tavolo che se non sei più che ferrato è meglio evitare. L'importanza di conoscere gli avversari, di sapere chi è squalo e chi soltanto si atteggia e può finire subito stecchito come il pistolero sbruffone che entra nel saloon roteando le colt. Ti dicono di prendere note, di riempire migliaia di schede come un bravo poliziotto. Insegnano come giocare le combinazioni di partenza più delicate fra le 269 possibili, a rubare i piatti abbandonati che nessuno vuole per paura o per stanchezza. Ripetono fino alla nausea che in torneo bui e controbui crescono in modo vertiginoso e allora per difendersi dall'erosione e non finire in pochi giri con la lingua di fuori, è vivamente sconsigliato giocare come “er serranda”, aspettare la manna in mutande di latta e guanti di visone. Si insegna a trarre il massimo vantaggio dalla posizione al tavolo, con la viva raccomandazione di non attaccare mai per primo quando si sta subito dopo il controbuio, è il posto “under the gun”, sotto il fuoco. Danno anche i primi rudimenti della lettura delle carte degli avversari, si insegna il calcolo delle quote implicite ed esplicite, come fare le puntate giuste in funzione delle probabilità di vittoria che non sono mai fisse ma cambiano mano a mano che si scoprono le carte comuni, le prime tre in un colpo solo, il cosiddetto flop, poi la quarta, il turn, infine la quinta ed ultima, il river, detto bloody river perché è proprio lì che spesso il giocatore fino a quel momento in testa viene superato, scoppiato, ferito a morte ed è questa la lamentela ricorrente del principiante. E' vero, succede e quando succede viene quasi da piangere per lo sconforto ma i bravi maestri vi diranno che la maggior parte delle volte chi è in testa al flop chiude vittoriosamente la mano, che il gioco può essere ingiusto ma sul lungo periodo aggiusta sempre le cose. Sapere tutto questo è bene, avere fortuna è certamente meglio ma né lo studio né la buona sorte sono garanzia di vittoria. La matematica, il calcolo delle probabilità è la cornice dell'Hold'em ed è bene non oltrepassarla ma una cornice è sempre diversa dal quadro che racchiude. Se non ci fosse nell'Hold'em un lato oscuro, primordiale, fatto di intuizioni e paure, avrebbe suscitato curiosità, non febbrile passione, non avrebbe fabbricato eroi sconosciuti né modificato abitudini e comportamenti di migliaia di persone, in una parola non avrebbe prodotto cultura come mai nessun altro gioco prima.

    Eppure da quando è stato inventato,
    nei dintorni di Dallas poco prima della Grande depressione, la sua popolarità è rimasta confinata agli stati americani del sud. L'esplosione è stata recente. Per dare un'idea della velocità a cui è cresciuto e del business che ha generato, il creatore di Paradise Poker, uno dei più frequentati siti on line, prova a venderlo nel 2001 per quindicimila dollari ma non trova nessuno disposto a comprarlo. Appena tre anni dopo, nel 2004, lo vende per 287 milioni di dollari e l'acquirente ancora oggi può dire di aver fatto un ottimo affare.
    Comunemente si dice che la scintilla scocca nel 2003, quando un annoiato contabile ventottenne di Atlanta, con un nome che non si inventa, Christopher Bryan Moneymaker, si guadagna l'iscrizione alle Wsop vincendo un torneo satellite di 39 dollari, secondo la leggenda addirittura pagatigli dal padre. Il ragazzone va, elimina ottocentotrentadue concorrenti e torna a casa con il titolo e 2,5 milioni di dollari. Non ripeterà più un simile exploit, ma il “Moneymaker effect” cambia il corso degli eventi. Le società on line hanno ora a disposizione un argomento impareggiabile di marketing: anche chi gioca in rete può aspirare a vincite importanti ed è un potenziale campione del mondo. L'anno seguente anche Greg Raymer, avvocato specializzato in brevetti, si qualifica via satellite e vince il titolo e il primo premio, 5 milioni. In rete le poker room virtuali esplodono, passano da qualche decina a molte migliaia, oggi solo in Italia ce ne sono più di cento. L'invenzione e l'uso della pocket cam, micro camera che piazzata dietro ogni giocatore mostra le carte coperte, coinvolge il pubblico nella sala e i telespettatori. Il gioco acquista pathos e ritmo, l'audience cresce. Sky, Discovery Channel, poi Espn, reti nazionali come Italia 1, fiutano il vento e l'affare, sul Web crescono i canali dedicati.

    La fauna dei giocatori è quanto mai varia.
    Molti hanno camicie improbabili, collane d'oro e pesanti orologi al polso, molti sembrano rapper con felpe, t-shirt, cuffiette iPod e occhiali da sole per proteggersi dallo sguardo nemico. Altri, pochi, fanno spettacolo a sé. Produttori famosi della televisione, Jamie Gold, campione del mondo 2006 e primo nelle classifiche di sempre con una vincita di 12 milioni di dollari. Phil Hellmuth jr, un altro americano, ha vinto più titoli di tutti, undici, e se non è il più forte è di sicuro il più arrogante e chiacchierone, una vera faccia da schiaffi. Doyle Brunson settanta anni, il cappello da cow boy e una faccia tagliata alla John Huston, due titoli e dieci braccialetti è da tempo nella leggenda. Phil Ivey, colored del Nevada, forse il più forte oggi, tallonato ovunque vada da un'anziana coppia di tifosi con il cartello “forza Ivey”. Gli europei esistono, francesi, danesi, finlandesi, tedeschi, anche un pugno di italiani di talento ma nessuno è ancora riuscito a scalfire il dominio americano. Non è solo una questione legata alla tecnica o alla forza della tradizione: c'è anche uno scarto importante nel modo di intendere lo spettacolo e di mettersi in scena e di fronte alle telecamere gli americani sono imbattibili, la loro disinvoltura è stupefacente. Al tavolo si può fingere di esser deboli quando si è forti e viceversa, si possono fare battute, si può sfottere, insultare magari dire anche parolacce. Il gioco è anche recitazione e come per miracolo loro hanno sempre la faccia giusta, il tono giusto.

    L'Hold'em non avrebbe avuto questo successo senza Las Vegas, la lungimiranza degli organizzatori e la sponda di Hollywood, senza il dispiegamento dell'industria dell'immaginario in tutta la sua potenza. Fu Benny Binion, un pioniere di Las Vegas a organizzare nel suo casino nel 1970 la prima edizione ufficiale delle Wsop. La formula all'inizio è a inviti: sette giocatori si sfidano in cinque diverse specialità giocano partite cash con i propri soldi. Il primo campione è Johnny Moss e se non avevi mai preso legnate da lui non potevi dire di aver mai giocato veramente a poker. Moss vince anche l'anno dopo, un'altra coppa e poche migliaia di dollari. E' Thomas Preston detto “Amarillo Slim” vincitore dell'edizione del 1972, che pone la prima pietra del mito. Il genio del tavolo verde irrompe come un ciclone nel mondo della comunicazione. Ottiene dalla Cbs Sports la prima copertura televisiva, è ospite d'onore in decine di talk show, si fa riprendere al tavolo con Lyndon Johnson e Richard Nixon, gira il paese in lungo e in largo per promuovere il poker alla texana, Las Vegas, se stesso e l'autobiografia “Amarillo il magro in un mondo di ciccioni” che diventa un bestseller. Robert Altman ne trae l'ispirazione per “California Poker”, dove Elliot Gould e George Segal inseguono il sogno della vittoria e dopo averlo finalmente vissuto, si dicono, guardandosi negli occhi “tutto qui”?
    Al di fuori degli Stati Uniti però l'Hold'em è un oggetto misterioso e Las Vegas una città come un'altra. Gli europei che pure sono sensibili a quello che viene d'oltre oceano sono fermi il draw, il poker tradizionale che in Italia veniva giocato addirttura con trentadue o trentasei carte, un'eresia. E' il gioco che si vede nell'immortale “Sette giorni a Dodge City” dove Henry Fonda e moglie mettono in scena il bluff più grandioso mai visto al cinema, il gioco di “Asso” Celentano e del bellissimo “Regalo di Natale” di Pupi Avati, in cui Diego Abatantuono cade nella rete di un diabolico Carlo Delle Piane. E' un tipo di poker ancora affascinante ma più bello da giocare che da vedere. Con soltanto due giri di rilanci è meno violento di altre specialità, è un gioco esclusivamente di situazione quindi tattica senza strategia, a informazione incerta: troppo poco per costruire un pubblico, rispondere a esigenze e canoni della società dello spettacolo. I più audaci si spostano a metà strada tra il poker tradizionale e l'Hold'em, alla specialità dello “stud five cards”, una sola carta coperta e quattro scoperte, in italiano telesina, quattro giri di rilanci quindi molto più violento e coinvolgente per chi guarda perché il gioco è quasi per intero sotto gli occhi di tutti. Il pubblico, quanto può contenerne una grande stanza d'albergo, ma brutto, rancoroso e marcio fino al midollo, fa da tela di fondo all'ascesa e alla caduta del “Cincinnati Kid”, film di Norman Jewison, il più bello mai fatto sul poker. Steve McQueen è il Kid che sfida Lancey Howard, il vecchio Campione, una delle ultime interpretazioni dell'immenso Edward G. Robinson. Lo piega colpo dopo colpo, fissandolo con occhi di ghiaccio, il vecchio ansima, si slaccia il colletto, ha i piedi gonfi, si toglie le scarpe, chiede soste, ormai tutti aspettano che crolli, i maggiorenti della città, astiosi, desiderosi di vendetta per gli schiaffi presi vogliono la messa a morte. D'un tratto lo sguardo dell'uomo braccato ritrova la durezza perduta, gli occhi diventano una feritoia: fin dalla prima carta che riceve il Campione sente che quella mano sarà decisiva e prepara la trappola letale. In uno scontro da antologia del poker, il Kid ha fuori due dieci, il Campione un dieci e una dama tutte e due di quadri. Il Kid punta, il Campione rilancia, cadono rispettivamente un asso e un otto di quadri, nuova puntata, nuovo rilancio, ancora un asso per il Kid e un nove sempre di quadri per il Campione. Il Kid ha fuori doppia coppia, assi e dieci, con l'asso coperto ha un full, nel gioco a cinquantadue batterebbe anche il colore. Ma nessuno sa quale sia la carta coperta del Campione, nessuno sospetta che possa aver rilanciato subito dall'inizio con un fante di quadri. Ma il vecchio gira proprio quella carta con cui ha chiuso una scala reale, punto imbattibile. Il pubblico è di sasso, il Kid pietrificato. Il vecchio Campione dice: “Ho fatto la mossa sbagliata al momento giusto, sono il numero uno”. Da un quarto di secolo migliaia di giocatori hanno cercato di fare tesoro della lezione.
    Ormai i tempi sono maturi per il Texas Hold'em. Alla fine degli anni Ottanta, gli organizzatori delle Wsop decidono di allargare la platea dei potenziali concorrenti al titolo di campione del mondo.

    E organizzano in vari casinò americani e di altri paesi tornei satellite con quote d'iscrizione molto più basse. L'idea in apparenza bislacca si rivelerà invece un colpo di genio che diffonde e impone al gioco d'azzardo un nuovo format. A Parigi già nel 1991 nascono i primi circoli di Texas Hold'em e si organizzano i primi tornei: sembra che le nuove generazioni non stiano aspettando che potersi rivolgere verso Las Vegas come al tempio di un nuovo culto. Con l'apparire di Internet il format del campionato del mondo s'impone ovunque. Migliaia di tornei alla portata di tutte le tasche si svolgono ogni giorno in modo frenetico, compulsivo: è questa la fonte principale del fatturato e degli utili delle multinazionali del settore. Rischiare poco e sperare di vincere molto è senza dubbio un messaggio seducente. Ma ingannevole perché si può perdere molto anche perdendo tutti i giorni dieci euro al giorno. Anche giocatori esperti a volte cadono nel vortice. Chi, alla ricerca disperata di una rivincita, decidesse di partecipare a tutti gli eventi delle Wsop e non vincesse alcun premio smarrirebbe “per strada” un duecentocinquantamila dollari. L'Hold'em è un gioco per donne e uomini forti, che sanno che la vita e la morte si giocano in un colpo solo e il resto è attesa, paziente attesa. Che al contrario di quanto consigliava Oscar Wilde, non cedono alla tentazione ma ascoltano l'istinto animale.
    Questo scintillante ben di dio è ora sbarcato anche in Italia, legalmente, tingendosi subito di grigio. Decreti, regolamenti, gabelle, limiti imposti dallo stato che in nome dell'abusato principio di precauzione vuole impedire anche l'antica libertà di farsi del male. Il sogno americano si è infranto proprio qui, in questo pazzotico residuo di socialismo reale.

    E' in arrivo un nuovo blog del Foglio.it: "Polpok", il blog di politica, poker e vizi vari di Lanfranco Pace.Tra pochi giorni on line.

    • Lanfranco Pace
    • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.