Ripartire dalla delusione

Stefano Pistolini

Nei sotterranei della vittoria elettorale di Barack Obama, riposa il segreto meccanismo dell'evento visibile ai più attenti ma trascurato dai grandi media. Ha una sigla, una funzione  e un capo. E un futuro piuttosto nebuloso. Il protagonista di questa storia si chiama David Plouffe. Obama dice che non esiste persona al mondo di cui si fidi di più. Il socio di Plouffe, David Axelrod, gli riconosce di essere l'eroe ignoto della campagna elettorale.

    Nei sotterranei della vittoria elettorale di Barack Obama, riposa il segreto meccanismo dell'evento visibile ai più attenti ma trascurato dai grandi media. Ha una sigla, una funzione  e un capo. E un futuro piuttosto nebuloso. Il protagonista di questa storia si chiama David Plouffe. Obama dice che non esiste persona al mondo di cui si fidi di più. Il socio di Plouffe, David Axelrod, gli riconosce di essere l'eroe ignoto della campagna elettorale. I reporter veterani dell'elezione 2008 lo venerano. Adesso Plouffe, per onorare il pragmatismo che l'ha sempre contraddistinto, ha scritto un bel libro “L'audacia di vincere. La vera storia e le lezioni della storica vittoria di Barack Obama” per spiegare, lui che era il manager della campagna, come ha fatto a riuscirci. Leggendolo si capisce il minuzioso sviluppo del procedimento, la rapidità delle intuizioni, la capacità quasi istantanea di adattarsi alle situazioni, la formidabile capacità d'inventare nuove strade, nuove forme di comunicazione, nuove vie di finanziamento, nuove alleanze e soprattutto potenti mezzi di reclutamento e motivazione. Si capisce come tutto ciò sia stato il capolavoro di una vita, anzi, di più vite, e delle relative professionalità. “Fatico ancora a crederci” dice Plouffe ad Axelrod nel prologo del libro. E il baffuto compare gli risponde: “Lo so. E' troppo grande per essere compreso adesso”.

    Lo stupore, l'emozione davanti al capolavoro, è un sentimento che pervade questa ricostruzione, dalla prima pagina all'ultima. All'inizio sembrava “una fantasia”, quando “era un problema anche procurarsi una base operativa, i computer e le linee telefoniche”. Però, il problema di “The Audacity To Win” è che è un saggio tutto al passato, acuto e celebrativo, romantico e stimolante, ma che si limita a raccontare l'allestimento dell'hardware grazie al quale Obama è riuscito ad arrivare fin lassù. “Il nostro database di indirizzi e-mail ha superato i 13 milioni di nominativi”, scrive orgogliosamente Plouffe. “Disponiamo di un nostro network tv, perfino meglio di una televisione, perché comunichiamo senza filtri con un numero di elettori che corrisponde al 20 per cento della cifra necessaria a vincere un'elezione presidenziale – percentuale notevole, no? E questi supporter condivideranno i nostri messaggi e ci aiuteranno a rispondere a un attacco, sia orchestrando l'attività di propaganda porta a porta e al telefono, sia parlando con amici, familiari e colleghi nella vita di tutti i giorni”.

    Sono questi i termini che Plouffe sceglie per descrivere la sua invenzione, l'Ofa, Organizing For America, capillare rete di connessione dei sostenitori di Obama e del suo progetto politico 13 milioni di attivisti, tra i quali 4 milioni di finanziatori, pronti a metter mano al portafogli per pagarsi il sogno di un'America migliore, pronti ad agire su base locale, a mobilitarsi in chiave nazionale, a spendere tempo, energie, gambe e cuore nel nome di quella droga collettiva che ha ricevuto il nome di “change”. Plouffe è stato l'architetto e lo stratega della vittoria. Ma ora è passato agli storici il compito di capire come sia andata e quali siano state le dinamiche generate da questa rivoluzione nel concetto di politica grassroots. Ed è attorno a ciò che è accaduto dopo la vittoria che bisogna ragionare, scoprendo che alcuni sviluppi risultano difficili e contraddittori da comprendere.
    Vinte le presidenziali, comunque, il ristrettissimo team di Obama si assegna nuovi compiti, e in particolare la ditta Axelrod-Plouffe decide di divaricare le proprie traiettorie. Axelrod resterà vicino al neopresidente, continuando a offrirgli quel conforto intellettuale e quei suggerimenti utili a procedere all'adattamento al nuovo ruolo. Plouffe, invece, resterà fuori dalla Casa Bianca, per rifare ciò che sa fare meglio: predisporre una vittoria. A lui è assegnato il compito di preparare il terreno per la campagna per il secondo mandato, col voto del novembre 2012 e l'apertura dei giochi prevista già a inizio 2011. Prima di quelle date Plouffe avrà il compito – e l'agio per farlo, dal momento che non è iscritto nell'elenco dello staff della nuova Amministrazione – di pilotare la forza di pressione dell'Ofa secondo gli intendimenti di Obama.
    Ma è qui che va in scena quella che Micah Sifry, fondatore di techPresident, gruppo di studio sulle attività della Casa Bianca, oggi classifica come “un criminale atto di negligenza politica”. In coincidenza con la vittoria di novembre 2008, Plouffe sostanzialmente paralizza l'attività di Ofa, non inviando più indicazioni, ordini o raccomandazioni alle sue scalpitanti truppe.

    A posteriori i bene informati concordano nell'attribuire allo stesso David la responsabilità della scelta, per la più umana delle motivazioni: la stanchezza, il crollo psicofisico seguito alla vittoria, il desiderio di riappropriarsi di una vita normale, di tornare dalla famiglia, di voltare quella che era stata una pagina meravigliosa. Della Casa Bianca David non vuole sentir parlare, la consorte dà alla luce il secondo figlio e lui partorisce la più bizzarra delle decisioni: consegna, armi e bagagli, know how e potenziale, l'intera struttura dell'Ofa al direttivo del Partito democratico, entità al quale l'organizzazione di Obama era rimasta sempre estranea, o perlomeno del tutto indipendente. Obama aveva vinto da outsider, ma ora, senza richiedere pareri alla base degli aderenti, il coordinatore del movimento procede a un'istituzionalizzazione forzata, riallineandolo ai giochi della vecchia Washington. Le spiegazioni offerte da Plouffe non hanno mai convinto, sia quando ha parlato di pericoli provenienti dalle relazioni troppo ravvicinate tra il nuovo presidente e i principali finanziatori sia quando si è detto che Obama aveva bisogno del pieno supporto dei democratici del Congresso, cosa che non gli permetteva di continuare a disporre di una specie di esercito privato. Il risultato è uno choc collettivo: il prototipo di sostenitore obamiano, un giovane o un anziano che credeva nel rinnovamento della politica americana, si ritrova nella condizione di un soldatino di partito verso il quale da tempo ha esaurito la fiducia.

    Viene insomma da ipotizzare che in calce a questa scelta non ci sia tanto la firma di Plouffe, quanto quella dell'unica persona al mondo che poteva convincerlo in questa direzione, ovvero il presidente in persona. Che nel frattempo ha prodotto un'altra decisione rilevante: la selezione di Rahm Emanuel a capo del suo staff, ovvero come personalità di collegamento tra lo Studio ovale e il Congresso. Le indicazioni che Emanuel – personaggio certo sprovvisto della verginità di un autentico interprete del rinnovamento – dà al presidente sono quelle di modificare radicalmente il suo posizionamento nei flussi washingtoniani, ora che il principale obiettivo della vittoria è stato conseguito. Lavorare “con”, non “contro”, raccomanda Emanuel. Trovare accordi, non fare repulisti. Connettersi, non sradicare. Entrare, non sfondare. Una visione politica lontanissima dal progressismo populista di cui era intrisa l'Ofa. Senza contare che l'inserimento morbido dell'Ofa nel reticolo di manovre del Partito democratico è una causa persa, date le infinite correnti coesistenti e la mutevole geografia del partito.

    In sostanza l'Ofa, già a metà del novembre 2008, rappresenta un ingombro difficile da gestire. Con Plouffe in pausa di ricarica delle batterie, con Obama impegnato nel corso accelerato di diplomazia della capitale e con Rahm Emanuel nel ruolo del precettore bizantino, il destino dell'Ofa è segnato. Obama e Axelrod conoscono la fedeltà e le capacità di Plouffe e sono certi che quando sarà il momento rinnoverà gli sforzi prodotti in occasione della prima vittoria. E poi non è detto che proprio di una ipertecnologica e straripante organizzazione grassroots Obama avrà bisogno per la rielezione. A tempo debito verranno fatte le necessarie valutazioni. Per l'intanto dall'alto arriva il via libera per l'abbandono della corazzata Ofa, mentre s'inaugura la presidenza, le emergenze della crisi premono e Obama imbocca la strada dell'emergenza decisionista, quella in nome della quale si rinchiude coi pochi eletti nelle stanze dei bottoni e produce scelte e decisioni gravi, che hanno l'obbligo di essere quelle giuste. Nell'inverno dello scontento 2009 non c'è tempo per coinvolgere la base. E del resto i primi dati di gradimento di Obama sono bulgari: la nazione ha deciso di mettersi nelle sue mani, come in quelle della provvidenza.

    I fatti che seguono sono noti, come anche i relativi esiti contraddittori e il progressivo impallidire del carisma del nuovo presidente, che un po' alla volta abbandona il sogno bipartisan, il perseguimento del trasversalismo e deve fare i conti col nemico interno, ossia coi distinguo e le condizioni che gli stessi membri della sua maggioranza gli pongono per allinearsi ai suoi programmi, a cominciare dalla riforma della sanità. E' la stagione di Emanuel, degli accordi sotterranei, dei compromessi, di accordi e scambi: pura, classica politica washingtoniana, perché Obama capisce che solo così può superare la fase eroica ed entrare in quella realistica, solo così può garantirsi il sostegno effettivo per agire. Dunque il presidente opta per la compagnia di pochi, anziché della moltitudine plaudente di un tempo, e in questa rinuncia disegna quella solitudine presidenziale alla quale oggi sembra più incline.

    Ma le cose continuano a cambiare e per Obama non vanno quasi mai per il verso giusto. Pur dimostrando coscienza, raziocinio e operatività nel contenimento della crisi, l'immagine dell'Obama riformatore finisce presto per appannarsi agli occhi degli americani. Troppo facile dedurne che quello che ora gli viene a mancare – assieme ai numeri dei sondaggi che prendono a penalizzarlo – è proprio l'entusiastico sostegno di una base che si fidi delle sue intuizioni e faccia proprie le sue proposte. Ma il mutamento di atmosfera non è sfuggito alla maggioranza dei veterani dell'Ofa. La sensazione è di essere stati messi da parte, dopo essere stati sfruttati. E quindi – e la parola ha una pesantezza terribile – di essere stati ingannati, come oggetti, e non soggetti, della vecchia logica di mobilitazione politica. Del resto l'Obama che vedono impegnato in estenuanti trattative è difficile da identificare con l'uomo dei sogni della campagna elettorale, e non perché appaia meno giusto e saggio, ma perché adesso rivela la sua vulnerabilità. Un buon politico, insomma, ma pur sempre un politico, che giovedì ha convocato democratici e repubblicani, li ha messi per sei ore davanti a delle telecamere, li ha fatti discutere di riforma sanitaria per strappare un accordo bipartisan e far ripartire il processo al Congresso, tutti insieme, nel compromesso. Un politico, non un profeta dell'americanità.

    E si arriva all'ultimo capitolo, per ora, di questa storia. Novembre 2009. Massachusetts. Voto per l'elezione del senatore che prenderà il posto del trapassato Ted Kennedy. Sembra impossibile che il feudo democratico sottragga il suo apporto alla maggioranza del 60 per cento al Senato che mette al riparo dagli ostruzionismi repubblicani. Ma ormai gli attivisti di Obama queste vicende le seguono sui giornali. Perciò, quando cominciano a suonare i primi campanelli d'allarme, sono lo stupore e la disabitudine i sentimenti che li accolgono. Lo stesso ruolo dirompente di provocazione, rumore mediatico e sovvertimento dell'ordine costituito della politica americana, un tempo giocato dalle legioni dell'Ofa, adesso è appannaggio dei raduni dei Tea Party, che riescono là dove il Partito repubblicano ha fallito: nel pubblicizzare una restituzione dell'America agli americani, come se fosse un procedimento possibile solo in base alla manifestazione delle intenzioni.

    In ogni caso, adesso la cosa nuova sono loro, i media li coccolano, e l'opinione pubblica ne risente, perché quando si parla di “rinnovamento radicale” nell'ambito di una crisi endemica, in linea di massima c'è da guadagnarci. Non a caso il carneade Scott Brown le sta suonando a Martha Coakley e con la sconfitta si perderebbe non soltanto il Massachusetts, ma anche la finalizzazione della riforma della sanità. Axelrod e Obama, però, s'accorgono fuori tempo massimo del disastro. Quando convengono che l'unica cosa da fare sia richiamare in servizio la riserva di attivisti, è troppo tardi. I reggimenti dell'Ofa in quel momento sono inattivi, o dedicati al reclutamento in altri stati. Quando si tenta di mandarli a supporto della agonizzante candidata democratica, la risposta è tiepida: soltanto 45 mila iscritti danno la disponibilità. Il milione e mezzo di telefonate effettuate negli ultimi giorni di campagna e i 50 uomini sguinzagliati per i quartieri di Boston a caccia di voti non riescono a chiudere il gap che alla fine consegna il repubblicano Brown al Senato, e Obama a una valanga di guai.

    Ma la lezione è stata presa. I movimenti sono per definizione, cangianti ed effimeri. Vanno stabilizzati o comunque tenuti vivi con un ricambio di motivazioni e obiettivi. Non sono una truppa di specialisti. Sono emotivi, umorali, capaci di capolavori, ma anche di disfatte. Chi pensava che Obama avesse sapientemente parcheggiato il suo tesoro elettorale, ovvero la forza delle braccia e delle menti di quanti l'hanno portato una prima volta alla Casa Bianca, si è sbagliato. Quella dote si è vaporizzata, è scomparsa, dopo aver masticato amaro ed essersi sentita tradita. Perciò è ora che Obama e Plouffe tornino a parlarne. Qualsiasi sarà la condizione dell'America e del Congresso tra un anno da adesso, un presidente che cerchi la rielezione deve affrettarsi a scegliere i generali e le strategie della campagna. E al riguardo, i contatti a porte chiuse si sono già avviati. Impossibile pensare che Obama non si affidi di nuovo a Axelrod, Plouffe e al comunicatore Gibbs.

    Assai probabile che il vertice dello staff si allargherà, e già imbarcato risulta essere Jim Messina, attuale numero due di Emanuel alla Casa Bianca e ampiamente coinvolto anche nel successo 2008. A Messina dovrebbe andare il compito di guida operativa della campagna; Plouffe si limiterebbe a elaborare le principali strategie di metodo; e Axelrod sarà l'ottimizzatore del posizionamento del presidente sulle questioni essenziali. Ma il compito sarà comunque duro: non più lavorare su un'idea, su un disegno del futuro, forse perfino su un'illusione. Si deve ripartire da qualcosa che somiglia a una delusione, o forse, semplicemente, a una disillusione. Eppure si dovrà convincere la gente dell'Ofa a preparare di nuovo lo zainetto e a rimettersi per strada. Si deve spiegar loro che perseguire un'utopia non fa parte del vero gioco della politica. Ma che darsi da fare per mantenere alla Casa Bianca questo efficiente, umanissimo presidente – errori inclusi – sia un obiettivo più che degno di mobilitazione. Per fare quella cosa così faticosa e strana che continua a essere l'occuparsi seriamente di politica, oggi, in America. (nella foto Reuters: Il presidente americano, Barack Obama, chiede al vicepresidente Joe Biden di sedersi durante l'incontro tra democratici e repubblicani sulla riforma della sanità, giovedì scorso a Washington)