L'Europa ha fatto una riflessione di gruppo: tutto da rifare
Hanno ragione gli islandesi a diffidare dei salvataggi statali
Le colpe dei banchieri non ricadano sui contribuenti. Almeno non lo faranno in Islanda, dove il 93 per cento dei cittadini ha votato contro la “tassa” da 12 mila euro a testa per salvare i crediti olandesi e britannici. Reykjavik aveva infatti deciso di soddisfare, con risorse pubbliche, le richieste di Londra e dell'Aia, le quali chiedevano garanzie per 3,9 miliardi di euro nei confronti della banca islandese Landsbanki, fallita nel 2008. Fondata nel 1885, Landsbanki è stata per oltre un secolo la più importante banca del paese, per il quale ha addirittura svolto (tra il 1927 e il 1961) le funzioni di banca centrale.
Leggi Che cosa hanno combinato quegli ingenui degli islandesi
Le colpe dei banchieri non ricadano sui contribuenti. Almeno non lo faranno in Islanda, dove il 93 per cento dei cittadini ha votato contro la “tassa” da 12 mila euro a testa per salvare i crediti olandesi e britannici. Reykjavik aveva infatti deciso di soddisfare, con risorse pubbliche, le richieste di Londra e dell'Aia, le quali chiedevano garanzie per 3,9 miliardi di euro nei confronti della banca islandese Landsbanki, fallita nel 2008. Fondata nel 1885, Landsbanki è stata per oltre un secolo la più importante banca del paese, per il quale ha addirittura svolto (tra il 1927 e il 1961) le funzioni di banca centrale. Le successive riforme hanno portato alla sua privatizzazione, tra il 1998 e il 2003.
Travolta dall'esuberanza degli anni Duemila, non ha retto l'impatto della crisi e, il 7 ottobre 2008, è entrata in amministrazione controllata. Prima di allora, però, il suo successo era travolgente: con utili per 456 milioni di euro nel 2007 e un Roe dopo le tasse del 27 per cento, non aveva avuto problemi a piazzare i suoi prodotti – come il conto online Icesave – in patria e all'estero. Le operazioni estere sono cominciate proprio nel 2008, quando già gli scricchiolii cominciavano a farsi sentire.
Un investitore attento, insomma, avrebbe dovuto esitare. Ciò non impedì a trecentomila inglesi e centoventicinquemila olandesi di lasciarsi sedurre (ironicamente, nel Regno Unito Landsbanki promuoveva la sua “clear difference”, in Olanda si presentava come “de transparante spaarbank”). Dopo il collasso, fu subito ovvia la sproporzione tra il debito esterno della banca e il pil islandese (12 miliardi di euro nel 2009, il 30 per cento in meno del 2008). Da qui, un lungo tira e molla politico, amplificato dal bullismo internazionale (Londra ha chiesto il congelamento degli asset britannici della banca in ossequio alle norme antiterrorismo), che è sfociato nel no referendario.
Sul piano legale, la battaglia è incerta: come membro dell'Area economica europea, Reykjavik è tenuta a garantire i primi 20 mila euro dei depositi, e non può discriminare tra creditori islandesi e stranieri. Sul primo punto, il governo sostiene che i conti aperti nelle filiali straniere non sono sotto la sua giurisdizione. Sulla seconda obiezione, dice che la discriminazione non riguarda la nazionalità dei correntisti, ma delle sussidiarie interessate.
Il referendum di sabato è, come sempre, una miscela tra diverse componenti: dall'aspirazione opportunistica a non sborsare quattrini fino al tradizionale euroscetticismo islandese. Ma fondamentalmente esprime l'avversione al bailout, dovuta forse alla percezione dell'inefficacia dei salvataggi altrove. La crisi ha diviso le persone in due categorie: quelle che condannano il fallimento di Lehman Brothers e chi pensa sia stata l'unica cosa giusta perché ne ha sanzionato l'irresponsabilità. In un mercato libero, nessuno dovrebbe essere “too big too fail”: neppure una piccola banca islandese.
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