Nel nome di sua sanità
L'unica è la Toscana. Enrico Rossi, assessore alla Salute da due legislature, è il candidato del centrosinistra alla carica di presidente della giunta regionale di quella regione. Segue le orme di Claudio Martini, presidente uscente, che veniva anche lui da quello stesso assessorato, prima di vincere le elezioni come governatore. Ma normalmente gli assessori alla Sanità delle regioni hanno tanto di quel potere quante poche speranze di salire la scala gerarchica fino alla presidenza della regione o a incarichi governativi, magari come semplici sottosegretari o viceministri.
L'unica è la Toscana. Enrico Rossi, assessore alla Salute da due legislature, è il candidato del centrosinistra alla carica di presidente della giunta regionale di quella regione. Segue le orme di Claudio Martini, presidente uscente, che veniva anche lui da quello stesso assessorato, prima di vincere le elezioni come governatore. Ma normalmente gli assessori alla Sanità delle regioni hanno tanto di quel potere quante poche speranze di salire la scala gerarchica fino alla presidenza della regione o a incarichi governativi, magari come semplici sottosegretari o viceministri. E' il solo caso di relazione inversa conclamata, in politica, tra il potere detenuto e la possibilità di ascendere a più prestigiosi incarichi. Massimo potere, minima possibilità. Se si toglie la Toscana, appunto, trovare un assessore regionale alla Salute che va avanti è pressoché impossibile. Per bene che vada questi assessori passano la mano, dopo essere arrivati in fondo al mandato a pezzi e bocconi. Spesso la mano la devono passare ancor prima di essere arrivati in fondo al mandato, colpiti e affondati dagli scandali o dai debiti accumulati dai loro assessorati – a volte dagli uni e pure dagli altri. Disarcionati dalla magistratura, defenestrati dal governo che incarica qualche commissario straordinario per vedere di mettere a posto i bilanci.
Tanti complimenti a Enrico Rossi, dunque – eccezione che conferma la curiosa regola. Del resto, anche a livello di governo nazionale la storia è pressappoco la stessa. O tecnici del settore di fama più o meno chiara (Veronesi, Sirchia, Fazio) o politici navigati che di salute non ne masticavano molta, almeno quando cominciarono a fare i ministri (Bindi, Turco). Destra o sinistra, la storia è questa: i politici e i tecnici-politici che entrano nella sanità non fanno strada. E generalmente parlando non combinano neppure grandi cose. Ma di questo diremo meglio in una prossima puntata. La suddetta relazione inversa tra potere e possibilità di carriera politica, per la verità, non dovrebbe apparire così sorprendente, sol che si consideri che la sanità rappresenta quasi i tre quarti dei bilanci regionali, la polpa vera dell'intervento e dell'essere stesso delle regioni. Tanti, perfino troppi, un'infinità di soldi, di finanziamenti, per spese correnti e investimenti. Difficili da maneggiare tutti quanti. A maggior ragione se si considera che il Servizio sanitario nazionale, nelle sue alquanto diversificate declinazioni regionali, è per un verso un corpaccione extralarge pantagruelicamente impegnato a rimpinzarsi senza sosta e, per un altro, un arcipelago di isole delle più svariate dimensioni con scarsi o nulli rapporti reciproci, quando non impegnate, sotto sotto, a boicottarsi vicendevolmente. Insomma, tutto meno che quel sistema unitario, integrato eccetera eccetera che viene normalmente descritto nelle brochure.
Ma sul tanti, sul perfino troppi, a proposito dei soldi che costa il Servizio sanitario nazionale, e che le regioni amministrano, suppongo che non uno dei politici e degli amministratori che a vario titolo operano in questo settore sarebbe d'accordo col sottoscritto. Ma c'è un'importante novità nel panorama nazionale, a questo riguardo, di cui tener conto. Alla fine dello scorso anno governo e regioni hanno siglato, dopo una lunga e non facile trattativa durata quattro mesi, il “Patto per la salute 2010-2012”, ovvero un accordo finanziario e programmatico con il quale le regioni si assumono il compito di assicurare l'equilibrio economico finanziario della gestione sanitaria, “in condizioni di efficienza ed appropriatezza”, mentre, per parte sua, lo stato si impegna ad assicurare 104.614 milioni di euro per l'anno in corso (+2,36 per cento rispetto all'anno precedente), 106.934 milioni di euro per l'anno 2011 e un incremento del 2,8 per cento per l'anno 2012, in forza del quale il finanziamento arriverà a sfiorare in quell'anno i 110 miliardi di euro per le sole spese correnti della sanità.
E tanto pochi questi soldi non debbono essere se Vasco Errani, presidente della giunta dell'Emilia-Romagna e della Conferenza delle regioni ha dichiarato in proposito la sua soddisfazione, anche in considerazione del fatto che il governo ha dovuto mettere sul piatto un finanziamento aggiuntivo di quasi tre miliardi di euro per raggiungere l'accordo. Accordo che prevede anche, per esigenze di adeguamento strutturale e tecnologico, un innalzamento da 23 a 24 miliardi di euro del “programma di investimenti di edilizia ospedaliera”. Il buono, anzi l'ottimo, almeno dal punto di vista delle regioni, accordo con il governo non deve però aver lasciato del tutto tranquillo proprio il presidente Errani, che con una immediata quanto ferma dichiarazione ha tenuto a sottolineare che le regioni debbono evitare di produrre deficit che sarebbero chiamate a coprire o con meccanismi automatici, come addizionali e blocco del turn over, o con risorse proprie attinte dai bilanci regionali. Specificando che oltre la soglia del cinque per cento di deficit le regioni si impegnano a piani di rientro che verranno valutati da una commissione tecnica paritetica regioni-governo che, dovesse bocciarli, farebbe scattare automaticamente la procedura di commissariamento.
Insomma, sottolinea Errani, il livello del finanziamento di ciascuna regione è stato concordato, i finanziamenti assicurati, chi tra le regioni accumula deficit se ne assume fino in fondo la responsabilità, su tutti i piani. Questo si chiama parlar chiaro. Vedremo se alle parole seguiranno i fatti e, soprattutto, se i soldi verranno davvero spesi dalle regioni con criteri di efficienza e appropriatezza.
Soldi spesi bene, si dice comunque di quelli che vanno in favore della salute delle persone, dei cittadini. Lo stesso ministro Tremonti, quando parla della spesa pubblica, non perde occasione per sottolineare che non ci saranno tagli alla sanità (non dice che non ci saranno tagli alla scuola o all'università, ai trasporti o alle pensioni, alla pubblica amministrazione o che so io, no, ricorda soltanto la sanità). La sanità è sacra, dunque? Di più, di più. Nessuno osa mettere in discussione una virgola della spesa sanitaria, la spesa sanitaria è buona e giusta a prescindere.
La questione è che tutti sono convinti, a sinistra come al centro come a destra, tra i partiti che una volta si sarebbero detti di massa e quelli che raccolgono poche manciate di consensi, tra l'inclito e il volgo, che il sistema sanitario sia decisivo nel determinare i livelli di salute pubblica; che, più precisamente ancora, a un sistema sanitario meglio organizzato e strutturato di un altro corrisponda indefettibilmente un proporzionalmente più alto livello di benessere delle popolazioni che ne usufruiscono. Tutti sono convinti, o almeno così si mostrano quanti operano nella sanità, e sono una moltitudine, e specialmente i tanti luminari (una volta si sarebbe detto baroni) di questo mondo, che se la vita media degli italiani continua a crescere, fino a inerpicarsi ai più alti livelli mondiali assieme a un'altra mezza dozzina di paesi occidentali (includendo il Giappone nell'occidente), è perché abbiamo uno dei sistemi sanitari migliori del mondo. Se il secondo al mondo dopo la Francia o soltanto il diciassettesimo nella sola Europa è un problema di criteri e classifiche, e vattelappesca come sia possibile che per un verso ci ritroviamo in cima e per un altro in fondo, magari siamo soltanto a metà tra i paesi che hanno un sistema sanitario minimamente degno di questo nome – ipotesi, questa, più probabile di altre, al di fuori della molta quanto interessata retorica su quanto è all'avanguardia la medicina italiana e quanto universale e democratico il nostro servizio sanitario.
Tutti convinti, dicevo, di una formidabile decisività del sistema/servizio sanitario nel determinare lo stato di salute delle comunità. Politici in primis. Mi è capitato di ascoltare in televisione molti esponenti politici, ai talk show momentaneamente quanto scioccamente sospesi in nome di una legge/regolamentazione, la cosiddetta par condicio, che meno democratica non si può neppure col candeggio – come recitava una volta una famosa pubblicità. Segnatamente mi hanno colpito Nichi Vendola ed Emma Bonino, aspiranti presidenti di due regioni che di guai con la sanità ne hanno avuti e ne hanno in quantità industriali. Ci hanno spiegato per quali ragioni la sanità è difficile da governare, e non è poco, ma non per quali ragioni è il terreno di coltura del malaffare, e meno ancora come intendono governarla loro, affinché non sia più così. Emma Bonino, in particolare, si sente che si muove su tematiche che le sono familiari, quando parla di sanità, ma neppure lei ha chiarito molto su come fare a trasformare la megalopoli sanitaria del Lazio in un sistema – hai visto mai? – percorso da un minimo di umanità, oltre che di razionalità. Perché, è osservazione quotidiana, più cresce e si espande – strutturandosi in vere e proprie e complicatissime città, alla pari se non più dei centri commerciali megagalattici, il che è tutto dire – più il sistema non perde soltanto in efficienza, ma prima e più ancora in umanità.
Un altro passo in direzione della superfetazione e di umanità nel sistema sanitario non rimarrà più neppure il ricordo. Un immane, labirintico ammasso di macchinari, di attrezzature, di tubi e spine e pompe e schermi e sonde, e immagini su immagini di micromillimetri di corpi e organi e delle più minute sezioni di corpi e organi e feti e embrioni, per riuscire a tenere la persona umana in quanto tale sempre più fuori da tutto, estranea a tutto, subordinata a tutto, impossibilitata a tutto. Nelle mani della medicina moderna la persona umana è fantozzianamente parlando una “merdaccia” che può essere sottoposta ai più improbabili e meno garantiti, e per niente o pochissimo valutati, percorsi terapeutici dentro ai quali nessuno si prende la briga di spiegarle neppure “perché”, solo e soltanto che è per il suo bene. Prendere o lasciare. Ma l'equazione servizio sanitario uguale salute è di una debolezza congenita, nel senso che è vera in ben modesta proporzione. Si stima generalmente (e sono stime di parte medica, sia chiaro) che il sistema sanitario, la rete dei servizi sanitari, la medicina nella sua accezione più ampia e concreta, tutto questo incida per non più del 15 per cento sui livelli, la qualità, la lunghezza della vita. Non pochissimo, ma di certo neppure troppo. Com'è allora che ci occupiamo praticamente soltanto di questo, quando parliamo di salute, di qualità e lunghezza della vita?
Per rispondere occorre ritornare alla politica. Perché la politica, che già non se la ripassa benissimo neppure col resto, visto il personale ch'è capace di selezionare, con la medicina-sanità è alquanto balbuziente, se non addirittura silenziosa. Incapace di maturare un proprio punto di vista, freudianamente convinta, al fondo, che di medicina e organizzazione dei servizi sanitari non possano parlare con cognizione di causa che la medicina e i medici, la politica, segnatamente da quando il grado di innovazione e di applicazione dell'innovazione tecnologica è cominciato a crescere in misura esponenziale, diventando in pratica il vero indicatore del progresso sanitario, s'è come fatta da parte, rinunciando a darsi una autonoma visione delle cose mediche e sanitarie – troppo complicate, troppo specifiche – e a sviluppare una programmazione e una azione conseguenti.
Il sistema sanitario soffre di bulimia, di gigantismo, di ipertrofia. Non sa più autoregolarsi se non espandendosi, ma più si espande e diventa complesso e meno, perdendo contatto con la persona umana in quanto tale, nella sua globalità, risulta efficace. E' questo terreno dell'espansione continua e scarsamente controllata, del resto, a prestarsi piuttosto bene per partite affaristiche di dubbia utilità, oltreché moralità. Ma la politica è per un verso convinta che soltanto aumentando l'offerta di servizi, e segnatamente di quelli ad alta intensità tecnologica, si possa reggere il passo e, prima ancora, la domanda che sale dal basso (senza accorgersi, o non volendo accorgersi, che nessuna domanda come quella di prestazioni sanitarie è tutta o quasi frutto delle pressioni dall'alto). E, per l'altro, che questa espansione sia davvero risolutiva in termini di salvaguardia e incremento della salute pubblica. Dunque, non si attesterà su una linea di contenimento, di valutazione effettiva dei servizi, di reale controllo dei risultati, di sperimentazione di percorsi alternativi rispetto a gradi sempre crescenti di medicalizzazione della vita e non soltanto della salute.
Questo della sanità è il settore nel quale la politica, specialmente quella nelle regioni, là dove si costruisce la rete dei servizi che i cittadini vedono e incontrano tutti i giorni, sa di avere più da perdere. Per questo, guidato che sia da tecnici o da politici, il servizio sanitario a livello tanto nazionale che a maggior ragione regionale non verrà complessivamente ridimensionato, né sarà passato al setaccio di un serio riordino. Ma tutt'al più accompagnato verso quegli approdi che ne continuino a garantire una indiscussa centralità non oppressa dai debiti, da liste di attesa interminabili, da catastrofiche inefficienze, da squilibri e scollamenti tra ospedale e territorio e tra sanitario e sociale tali da generare paralizzanti conflittualità interne. E', a suo modo, un equilibrio virtuoso. E, comunque, il massimo di equilibrio possibile al momento. Quanto all'efficacia, male che vada non c'è poi molto da scendere rispetto al 15 per cento, teorico e pure stimato per eccesso.
Il Foglio sportivo - in corpore sano