Il Rahm è nudo

Paola Peduzzi

Non si è neanche messo un asciugamano attorno ai fianchi, è entrato nudo nelle docce dello spogliatoio della palestra del Congresso, è andato dritto verso la sua preda, che ignara si insaponava fischiettando, le ha puntato il dito sul petto e ha cominciato a blaterare insulti, parolacce, anatemi, minacce. Poi si è voltato, è entrato nella doccia di fianco, ha aperto l'acqua e ha iniziato a lavarsi. Rahm Emanuel, chief of staff di Barack Obama, è così come lo rappresentano, magro e nervoso, cinico e spregiudicato, cattivissimo. La vittima, in questo caso, era un deputato democratico di New York, Eric Massa.

    Non si è neanche messo un asciugamano attorno ai fianchi, è entrato nudo nelle docce dello spogliatoio della palestra del Congresso, è andato dritto verso la sua preda, che ignara si insaponava fischiettando, le ha puntato il dito sul petto e ha cominciato a blaterare insulti, parolacce, anatemi, minacce. Poi si è voltato, è entrato nella doccia di fianco, ha aperto l'acqua e ha iniziato a lavarsi. Rahm Emanuel, chief of staff di Barack Obama, è così come lo rappresentano, magro e nervoso, cinico e spregiudicato, cattivissimo. La vittima, in questo caso, era un deputato democratico di New York, Eric Massa, assalito per un voto non dato al Congresso appena otto settimane dopo esser diventato deputato. Oggi Massa è il nemico numero uno, reo di aver votato contro la riforma sanitaria, appena finito al vaglio della commissione etica della Camera per aver importunato un ragazzo dello staff e così costretto a dimettersi.

    Massa sostiene che tutti i suoi recenti mali dipendano da quel “no” contro la riforma sanitaria, e comunque “Emanuel mi odia dal primo giorno”. E' naturalmente diventato l'idolo dei conservatori, perché ha detto a chiare lettere quello che molti pensano a Washington: “Emanuel è nato dalle uova del diavolo. Venderebbe sua madre per ottenere un voto. Metterebbe i suoi figli sui binari del treno per ottenere un voto”. Emanuel è il prodotto della politica di Washington, ci ha passato tutti gli anni Novanta, anni clintoniani eccitanti e furibondi, fatti di feroci battaglie al Congresso (ha già visto fallire sotto i suoi occhi una riforma sanitaria, per questo è piuttosto sensibile alla faccenda), poi è andato a Chicago dove ha messo via parecchi soldi e ora è tornato con Obama a Washington a fare quello che sa fare meglio: “Getting stuff done”, trattare, alzare la posta il più possibile e poi trovare l'accordo, tornare a casa con un risultato. Politica insomma, quella cosa che gli obamiani guardano con sufficienza e insofferenza, perché per loro è la stagione dei sogni e delle utopie, del mondo migliore, della rivoluzione. Eppure Obama ha scelto Emanuel proprio perché lui sa fare questo: la politica, i compromessi. Così facendo anzi ha evitato l'errore di Jimmy Carter e di Bill Clinton, che scelsero come loro chief of staff l'amico fidato, estraneo a Washington, per dimostrare la volontà di cambiare il sistema, salvo poi accorgersi di aver sbagliato e cambiare del tutto strada.


    Ora che è iniziata la fase della grande disillusione,
    con il presidente che scivola nei sondaggi e nelle aspettative, perché in un anno – “un anno perso”, sentenzia ingeneroso George Packer sul New Yorker – si è combinato troppo poco per poter ancora sperare in una svolta vera, ora il “dream team” di Obama è sotto costante accusa. E' caccia al colpevole: di certo il presidente è vittima di qualcuno, lui così ingenuo e idealista, con quel sorriso che tutto può, non è certo colpa sua se Guantanamo non è stato chiuso, se la mente dell'undici settembre sarà infine processata nelle corti militari (come voleva mestamente Bush), se la riforma sanitaria galleggia a stento tra Camera e Senato, se i posti di lavoro non vengono creati al ritmo stabilito, se l'ultima legge importante firmata risale a prima della pausa di agosto dell'anno scorso, dev'esserci per forza qualche mente malvagia che trama contro il presidente, che lo danneggia, che gli impedisce di essere come lui vorrebbe. E se c'è un cattivo che siede nella stanza di fianco allo studio ovale, con libero accesso alle stanze presidenziali, chi può essere più colpevole di lui? E' semplice, accadde la stessa cosa con James Baker, potentissimo chief of staff di Ronald Reagan, accusato di continuo perché alterava la vera natura del presidente, “Let Reagan be Reagan”, gli dicevano. Così oggi, “Let Obama be Obama”, Rahm togliti di mezzo, sei di troppo, tarpi le ali al nostro sogno.

    Così il pettegolezzo del momento a Washington è: saprà resistere, Rahm Emanuel, alla caccia all'uomo, è duro abbastanza, cattivo abbastanza, soprattutto, è stimato abbastanza dal suo capo da essere salvato in caso di emergenza? Ma c'è anche l'altra campana, c'è chi insinua: e se alla fine la verità fosse tutt'al contrario, se fosse Obama che non ascolta il suo collaboratore più esperto, incappando così in un errore via l'altro? Ci sono ormai gli schieramenti, a Washington, chi sta con Rahm e accusa gli altri membri del “dream team” di troppo amore verso il presidente (e il presidente di essere drogato di consenso), e chi insiste nel considerare Rahm l'anello debole di una catena che, a parte lui, regge alla grande. La battaglia è più che aperta, perché se è vero che Emanuel è il cattivo di questa Amministrazione, è allo stesso tempo il più esperto tra i consiglieri di Obama, oltre che – su questo c'è unanimità anche tra i detrattori, e non si tratta di un dettaglio – un uomo estremamente leale e fedele: il bene del suo capo viene prima del suo. Per questo è in questi giorni – raccontano i cronisti politici – molto provato: non gli piace stare al centro del pettegolezzo, non gli piace questo continuo chiacchiericcio sul team presidenziale, in un momento in cui lo spirito bipartisan è evaporato e le truppe devono stare e mostrarsi compatte.

    Anche Obama detesta i continui titoli sulla (presunta?) crisi interna ai suoi, già deve affrontare la rabbia dei repubblicani – alimentata dall'ostinazione dei Tea party, che il 16 riscenderanno in piazza per protestare contro la politica economica della Casa Bianca – e quella dei liberal, che ormai non sono più disillusi, sono neri di rabbia (per avere un Bush light, ci potevamo tenere quello originale, era almeno più semplice e meno doloroso, criticarlo). Già Obama ha deputati e senatori in perenne subbuglio, perché non c'è nulla di più destabilizzante di un Congresso tutto dalla tua parte ma per questo estremamente esigente, e per di più in un anno elettorale per il Congresso e non per la Casa Bianca: è un'accusa costante a Obama, tu non hai i nostri stessi tempi, noi qui ci giochiamo tutto nel giro di sei mesi, tu hai tempo per riaverti da queste settimane disgraziate, noi no, e via con il piagnisteo, con i tanti candidati che non cercano la rielezione, e lo spettro del 1994 – quando ci fu il cappotto dei repubblicani capeggiati da Newt Gingrich – che s'aggira sempre più minaccioso. Molti degli uomini obamiani vivono in bilico perenne: c'è il segretario al Tesoro, Tim Geithner, da sempre criticato, che ora ammette: “Abbiamo salvato l'economia, ma ci siamo persi la gente”; c'è il caos al dipartimento di Giustizia dove si è consumata una retromarcia molto costosa in termini politici: la non chiusura di Guantanamo e non processo civile a Khaled Sheikh Mohammed, regista dell'11 settembre. Il ministro Eric Holder ha voluto forzare fin dall'inizio – perché le aspettative in questo senso erano altissime, non si contano più gli editoriali e i commenti festosi e trionfali sulla svolta obamiana nella gestione della guerra al terrore – sia sulla questione del supercarcere sia sul processo ai terroristi, imponendo una tempistica che non è stata rispettata.

    Così Guantanamo è apertissimo e – peggio ancora – Khalid Sheikh Mohammed sarà processato, con tutta probabilità, dalle famigerate corti militari, come voleva l'Amministrazione Bush, e non a New York, come ipotizzato, dopo che c'è stata una rivolta repubblicana (nei sondaggi Obama crolla anche sul fronte della sicurezza nazionale) e anche il sindaco di New York, Michael Bloomberg, ha detto che in fondo il processo potevano pure organizzarlo lontano da casa sua. Insomma, un nulla di fatto grandioso, che ha fatto infuriare tutti, soprattutto la base liberal.
    Obama ora non può permettersi anche una crisi interna al suo team, per questo ha chiesto ai suoi, piuttosto scocciato, di smetterla con gli intrighi washingtoniani, che a star dietro a certe faccende irrilevanti si finisce con il perdere di vista le cose importanti: è già andata così con le elezioni in Massachusetts, il seggio di Ted Kennedy perso dopo decenni e la corazzata elettorale obamiana – una macchina che aveva mostrato nella campagna presidenziale del 2008 la sua scintillante perfezione – in irreparabile ritardo (ancora oggi Emanuel non riesce a parlare di quella questione, a un cronista che gli ha chiesto che cosa è accaduto, lui ha risposto: “Non posso parlarne, non ho con me abbastanza cerotti”). E' necessario soprattutto ottenere qualche risultato, dimostrare che il “change” non è certo semplice come ci si aspettava, ma esiste, c'è, “yes we can”, anche adesso che la sbornia rivuluzionaria si è trasformata in mal di testa. E per ottenere risultati Rahm Emanuel è fondamentale.

    Emanuel non è come gli altri del dream team. Come ha spiegato Peter Becker in uno splendido articolo sui limiti del “rahmismo” che uscirà sul magazine del New York Times domenica (è stato anticipato online già da lunedì, il che ha scatenato ancora di più i pettegoli: perché tanta fretta? C'è nell'aria un regolamento di conti che si sta per concludere?), il chief of staff è più “amichevole con il presidente che suo amico”. Emanuel è la prima persona che Obama incontra alla mattina e l'ultimo con cui parla alla sera, ma non vanno a giocare a golf assieme nel fine settimana – Obama lo prende spesso in giro perché non capisce niente di sport – né Emanuel va a Camp David con la frequenza con cui vanno gli altri della “gang di Chicago”, David Axelrod, Valerie Jarrett e Robert Gibbs. Rahm è anche il più prevedibile di tutti: è noto che fin dall'inizio ha fatto pressioni per non porre troppo in alto l'asta delle aspettative (non fu ascoltato) perché altrimenti sarebbe stato difficile poter sbandierare i successi, ma poi quando è stata scelta una strada più rivoluzionaria – tutto e subito – si è rimboccato le maniche ed è andato a terrorizzare il Congresso come è sua abitudine senza mai far trasparire che, fosse stato per lui, la tattica sarebbe stata completamente diversa. Il classico esempio che i sostenitori di Emanuel portano è quello della riforma sanitaria: il chief of staff fin dall'inizio disse che era meglio procedere per piccoli passi, un pacchetto di riforma alla volta, altrimenti si sarebbe finiti incastrati nella maledizione della sanità, che lui aveva già sperimentato sulla sua pelle, e quindi sapeva quanto male facesse. Ha prevalso la linea della “grande rivoluzione nella sanità americana” perché più coerente con il cambiamento professato in campagna elettorale, con risultati al momento disastrosi.

    Anche su Guantanamo Emanuel era molto più cauto rispetto agli altri, ma pure su quella questione è rimasto in minoranza. Poiché non è il tipo che va a dire in giro “io l'avevo detto”, ora il chief of staff continua a fare il suo lavoro di mastino, un voto alla volta, con precisione e aggressività, cercando di ristabilire a modo suo quello spirito bipartisan che considera indispensabile per ottenere risultati concreti. Ma la domanda cui nessuno risponde è: se Emanuel è il custode del “getting stuff done”, com'è possibile che l'elenco dei progetti davvero realizzati sia così povero? Axelrod, che va dicendo che il chief of staff è come un fratello, spiega che “c'è una tensione costante tra la necessità di portare a casa dei successi all'interno del sistema e l'impegno a cambiarlo, il sistema. Trovare in ogni momento un equilibrio è maledettamente difficile”. Talmente difficile che l'equilibrio non c'è, è un'altalena perenne tra il radicalismo e il pragmatismo, soltanto ora sembra che – in vista anche delle presidenziali del 2012 – stia prevalendo il secondo, in assenza di alternative. Emanuel è il pragmatico per eccellenza e per questo il più facile da colpire – lui ci mette del suo, perché nella sua irosa prevedibilità si è fatto nemici ovunque – ma certamente al fondo c'è l'errore strategico di aver sempre voluto mostrare questa nuova Casa Bianca come il simbolo della purezza, senza individuare al momento opportuno le falle dell'impostazione: l'idealismo è ammirevole, ma poi i posti di lavoro van creati, l'assicurazione sanitaria va pagata e il sistema va in qualche modo preso in considerazione. Il limite del “rahmismo” è nella natura della strategia adottata fino adesso.
    Che ne sarà allora del chief of staff, resisterà o, com'è nella tradizione dei suoi predecessori, lascerà dopo al massimo due anni dall'inizio del mandato (soltanto nella serie tv “The West Wing” il chief of staff dura sempre, fino a che non gli viene un infarto e muore, per esigenze esterne al copione, certo, perché era morto l'attore, ma non era credibile che un essere umano potesse fare quel lavoro per più di due anni)? Secondo la maggior parte degli interpreti del pettegolezzo washingtoniano, Emanuel resterà fino alle elezioni di novembre e nel frattempo vorrà segnare punti sulla riforma sanitaria. Poi se si dovesse concretizzare la sconfitta democratica come molti prevedono oggi, si vedrà. Non è un mistero che Rahm Emanuel voglia tornare a Chicago a fare il sindaco, ma non vuole correre contro l'attuale sindaco, che è un suo caro amico e che l'anno prossimo potrebbe ricandidarsi. Il sogno di tornare a Chicago deve quindi attendere, e infatti contrariamente a quanto aveva deciso e detto all'inzio Emanuel ha infine trasferito la moglie e i tre figli a Washington. Quindi vuole restare, e Obama non è il tipo che licenzia i suoi quando sono in mezzo alla tormenta, aspetta sempre che lo scandalo sia finito. Per ora, quindi, Emanuel sta dove sta. Alle cinque e mezza, almeno due mattine a settimana, lo potete trovare alla palestra della Camera che coltiva la sua immagine del più cattivo di tutti.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi