Tutta colpa delle regioni, ma il governo può evitarlo
Perché la sanità al sud è allo sfascio
Basta guardare ai diversi sistemi sanitari regionali, per scoprire, senza neppure dovercisi spremere troppo le meningi, che l'equazione mezzogiorno buono-governi cattivi, o le tante varianti della stessa pseudo equazione, di verità non ne contiene che in deboli tracce. Primo dato: a fronte di una spesa sanitaria corrente rispetto al pil che si attesta a livello nazionale attorno all'8,7 per cento abbiamo queste proporzioni nelle diverse ripartizioni geografiche: 7,4 per cento al nord, 8,4 per cento al centro, 11,8 per cento nel mezzogiorno. Non basta, perché gli incrementi dell'ultimo quinquennio sono stati pari a 0,6 per cento di punto di pil al nord, 0,9 per cento al centro, 1,3 per cento nel mezzogiorno.
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Basta guardare ai diversi sistemi sanitari regionali, per scoprire, senza neppure dovercisi spremere troppo le meningi, che l'equazione mezzogiorno buono-governi cattivi, o le tante varianti della stessa pseudo equazione, di verità non ne contiene che in deboli tracce. Primo dato: a fronte di una spesa sanitaria corrente rispetto al pil che si attesta a livello nazionale attorno all'8,7 per cento abbiamo queste proporzioni nelle diverse ripartizioni geografiche: 7,4 per cento al nord, 8,4 per cento al centro, 11,8 per cento nel mezzogiorno. Non basta, perché gli incrementi dell'ultimo quinquennio sono stati pari a 0,6 per cento di punto di pil al nord, 0,9 per cento al centro, 1,3 per cento nel mezzogiorno. Qui si parla di spesa complessiva, comprendente cioè anche la spesa sanitaria delle famiglie. Ma non è quest'ultima all'origine delle differenze, all'origine delle differenze territoriali è soltanto la spesa pubblica, che oscilla tra il minimo del 5,56 per cento del pil al nord e il massimo del 9,78 per cento del pil nel mezzogiorno. In Sicilia e Campania, la sola spesa pubblica per la sanità supera abbondantemente il 10 per cento (in Sicilia sfiora l'11 per cento). Certo il pil nelle regioni del nord è proporzionalmente più alto, ma questa sarebbe semmai una ragione in più perché una più alta proporzione di pil finisse nella spesa sanitaria. E' quello che avviene normalmente a livello mondiale, dove la spesa sanitaria rappresenta una proporzione tanto più alta del pil quanto più alto è il pil di un paese.
Qui non si tratta dunque di finanziamenti carenti. Si tratta di altro. Ora, siccome non c'è quasi relazione, se non blanda e spuria, tra livello dei servizi sanitari e speranza di vita o vita media nelle regioni italiane (tant'è vero che, per fare soltanto un esempio, la regione con il peggiore servizio sanitario a memoria d'uomo, vale a dire la Calabria, è al tempo stesso una di quelle dov'è più alta la speranza di vita), per capire dove sta il problema bisogna fare un ragionamento un tantino più approfondito. Si prendano le nascite e la mortalità infantile, quella entro il primo anno di vita. Nel mezzogiorno abbiamo circa 36 nascite ogni 100 nascite in tutt'Italia, ma circa 50 bambini morti entro il primo anno di vita ogni 100 bambini morti nel primo anno di vita in Italia. Questo divario a sfavore del mezzogiorno raggiunge il suo massimo nei primi sei giorni di vita, ovvero quando partorienti e neonati sono ancora normalmente in ospedale o vi hanno trascorso quasi interamente quei sei giorni, ovvero quando il divario dovrebbe, teoricamente parlando, essere minimo. Diversamente, quel divario diminuisce dopo, nel primo mese e nel primo anno. E' un fatto: il di più di mortalità infantile del mezzogiorno matura sostanzialmente negli ospedali, ed è dunque responsabilità non dei più difficili ambienti socio-culturali o delle peggiori condizioni di vita di quelle regioni rispetto al centro-nord quanto, soprattutto anche se non esclusivamente, del loro sistema sanitario. Ecco dunque dove sta il problema: in quasi tutto il mezzogiorno (e io colloco il Lazio, sotto questo aspetto, visto il rapporto tra spese e risultati, nel mezzogiorno) la sanità è gestita come peggio non si potrebbe.
Anche il “Libro verde sul futuro del modello sociale” (2008) del ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali afferma che “le analisi che considerano la spesa articolata per regioni, sotto diversi parametri, ci confermano che le criticità non risiedono in una carenza di mezzi. Non di rado, anzi, a costi elevati corrisponde una bassa qualità dei servizi offerti”. Ma naturalmente lo si può considerare un documento di parte. Un sospetto al quale non si prestano le analisi di Luca Ricolfi che, con riferimento all'indice rappresentato dalla relazione tra qualità dell'output e la spesa pro capite in sanità, ha potuto individuare cinque fasce di regioni italiane. Nelle due fasce superiori stanno: Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia, Marche, Umbria, Toscana, Emilia-Romagna. Nelle due fasce inferiori: Calabria, Sardegna, Sicilia, Campania, Molise oltre a, per un altissimo livello di spesa a fronte di risultati non più che medi, Lazio e Liguria. Nessuna regione del sud come delle isole rientra in una delle due fasce superiori.
Ma c'è un altro dato. L'85 per cento del disavanzo complessivo in questo settore si è concentrato in sole tre regioni: Lazio, Campania e Sicilia. Ora, si dà il caso che Campania e Sicilia, assieme alla Calabria, rappresentino le tre regioni italiane dov'è di gran lunga più bassa la qualità dell'assistenza sanitaria. E questa è ancor più una regola che non ammette eccezioni: a una peggiore gestione economico-finanziaria corrisponde sempre una peggiore qualità dei servizi. Tutto questo si traduce, se non in una significativa contrazione della speranza di vita, in quelle “minori opportunità e tutele per i soggetti più deboli” di cui parla il Libro verde del ministero. E ancora si potrebbe pensare a una conclusione interessata. Ma è un fatto che al sud sono effettivamente più diffuse che al centro-nord tanto la malattia cronica quanto la disabilità. Il mezzogiorno presenta un indice di prevalenza di patologie croniche “gravi” superiore al 14 per cento della popolazione. Al nord è circa il 12 per cento.
Per quanto riguarda la disabilità, ecco cosa afferma l'Istat: “E' più diffusa nell'Italia insulare (5,7 per cento) e nell'Italia meridionale (5,2 per cento), mentre al nord, nonostante vi siano tassi di invecchiamento della popolazione più elevati, la percentuale di persone con disabilità supera di poco il 4 per cento”. Le differenze a livello territoriale sono ancora più evidenti nella popolazione anziana. Infatti, sempre per l'Istat: “Tra gli uomini di 65 anni e più residenti nelle isole e del sud la quota di persone disabili è pari rispettivamente al 17,9 per cento e al 15,4 per cento contro percentuali al di sotto del 12 per cento dell'Italia del nord. Particolarmente critica la situazione delle donne nel sud, tra le quali la percentuale di disabili sfiora il 30 per cento nelle isole ed è del 26,5 per cento nel sud a fronte di una quota del 19,5 per cento nel nord Italia”.
In presenza di un quadro come questo, se non si vuole cioè procedere a una istituzionalizzazione massiccia tanto della cronicità che della disabilità, con costi da capogiro, occorre puntare su quella “assistenza domiciliare integrata” che dovrebbe costituire la grande innovazione del nostro tempo, specialmente in un paese come il nostro, dove gli anziani ultrasessantacinquenni hanno ormai superato quota 20 per cento, dove la vita media è tra le più alte del mondo, dove le donne ultraottantenni sono molto più numerose delle loro nipotine. Ma l'incidenza dell'assistenza domiciliare integrata sulla spesa sanitaria, che si aggira attorno a un modesto 1,2 per cento a livello nazionale, scende a 0,7 per cento al sud, dov'è addirittura in calo. Risultati di un sistema sanitario che al sud è stato lasciato in gran parte all'iniziativa meramente speculativa dei privati che, lungi dall'integrare, si sono semplicemente sostituiti a un comparto pubblico carente, confuso, mal gestito e peggio indirizzato, al di fuori di ogni logica realmente sanitaria. Perché mai dovrebbero esserci in media, per Asl, 14 tra ambulatori e laboratori privati convenzionati al nord, a fronte di 55 nel mezzogiorno? Non a caso, del resto, strumentazioni come Eco e Tac si concentrano al sud “fuori” dagli ospedali in misura almeno doppia rispetto al nord. Cosicché le donne meridionali possono confermare anno dopo anno il record mondiale delle ecografie prenatali a pagamento. Frutto di questa stessa logica sono le scandalose proporzioni di oltre sei parti cesarei ogni dieci parti in Campania (ma tutto il sud è largamente “cesarizzato”), imbattibile misura del nulla e più ancora del peggio, visto che in questa stessa regione la mortalità perinatale, quella appunto legata alla nascita e ai primi giorni di vita del bambino, è la più alta d'Italia. Il tutto mentre non c'è uno straccio di consultorio familiare efficiente nell'intero mezzogiorno.
E' inevitabile chiederci che cosa c'entrino con questo andazzo i finanziamenti mancanti, l'incuria del governo (anzi, dei governi, quali che siano) e la pretesa volontà della classe politica di volta in volta al potere di gettare la croce sulle popolazioni meridionali. Non soltanto non c'entrano niente, perché sanitariamente parlando niente di tutto questo è vero, ma se colpevoli sono, governo e classe politica di governo, lo sono in senso opposto a quello lamentato oggi dal centrosinistra. C'entrano in quanto non intervengono per cercare non soltanto di arginare i debiti delle regioni – come si è cominciato a fare con più energia – ma anche di moralizzare l'ambiente che più si presta a ogni sorta di “affari” con verifiche sul campo. Cosa aspetta il ministero della Salute, dati alla mano, a sanzionare modi di essere e di fare che, ancorché non illegali, sono non meno censurabili sotto ogni profilo sanitario e aziendale, e aprono la strada a comportamenti più propriamente illegali? Non ci si dica che il ministero non ha di questi poteri. Quando sigla con le regioni un patto per la salute, il governo di turno ci ficchi anche qualche standard, superato il quale i finanziamenti statali cessano e passano in carico ai bilanci regionali. E' questo il modo. Anche di aiutare concretamente il mezzogiorno a darsi una mossa. Le prediche e le reciproche accuse sul mezzogiorno maltrattato non servono più neppure alla propaganda politica. Sanità docet.
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