Quando c'era lei… Sdm anticipa il nuovo libro di Giampaolo Pansa
Roba simile in giro non si trova più. Mica sempre di buona qualità (la mai troppo vituperata arroganza del potere, ma anche questa arroganza necessita di una certa eleganza), e infatti andò a finire come tutti sanno: a puttane – in senso figurato, ma sempre parecchio meglio di quello letterale (a voler, per l'appunto, attardarsi sull'eleganza). Con il suo nuovo bel libro, Giampaolo Pansa ha costruito un monumento cartaceo alla nostalgia, una sorta di colorata e preziosa Galleria Vasariana della Prima Repubblica.
Roba simile in giro non si trova più. Mica sempre di buona qualità (la mai troppo vituperata arroganza del potere, ma anche questa arroganza necessita di una certa eleganza), e infatti andò a finire come tutti sanno: a puttane – in senso figurato, ma sempre parecchio meglio di quello letterale (a voler, per l'appunto, attardarsi sull'eleganza). Con il suo nuovo bel libro, Giampaolo Pansa ha costruito un monumento cartaceo alla nostalgia, una sorta di colorata e preziosa Galleria Vasariana della Prima Repubblica: questo e quello, il buono e il miserabile, lo scaltro e l'incapace… Quando c'erano, tutti a dire che non se ne poteva più; dopo quasi vent'anni che sono stati spazzati via, tutti a sospirare: almeno, quando c'erano loro… Si intitola così, “I cari estinti” (Rizzoli, in libreria dal 24 marzo), ma poi leggi e ricordi e ridi e t'incazzi ancora e ripensi, e più estinti (e pochissimo cari) ti sembrano i comprimari di oggi – che nel gigantesco affresco pansiano non riesci a intravedere neanche verso l'ottava fila.
Quasi viene uno struggimento persino al ricordo di facce definitivamente perdute – addirittura ormai meno presenti nella memoria di certi busti risorgimentali, persino di Mariano Rumor ti giunge il pensiero, e quasi lo vedi mentre Paolo VI lo fissa e cristianamente lo spintona: “La esorto a comandare. Cacci via qualcuno!”. E dunque, pure nel vintage (qualcosa che sta tra la prima Seicento e i primi frullatori elettrici) del doroteismo, ti pare di intravedere del buono – e del buono, si capisce, era difficile trovare. Pansa ha lunga memoria di sorprendente cronista politico di quell'era, deve avere da parte migliaia e migliaia di block notes (ne impilava a decine, per ogni congresso di partito) con milioni di battute e aneddoti e fatti, ha il gusto di rievocare con ferocia e insieme con una sorta di tenerezza. Ci sono centinaia di personaggi, nelle cinquecento pagine del libro. Quasi tutto è ormai solo memoria – e gli estinti così cari non lo sono solo politicamente, ma molti anche fisicamente. Al meglio, estinti – non fosse che per l'inevitabilità dell'età – per ogni cronaca quotidiana. Anche i capi sopravvissuti di tanto potere – gli Andreotti, per dire, o i Forlani – hanno adesso una caratura quasi metafisica, forse di semplice dimenticanza. E' un libro divertito (e perciò divertente) di grandi figure e di piccole figurine, e colpisce la distinzione netta, e che tale si manterrà per quasi tutta la storia della Prima Repubblica, tra i due ambiti: convivono, ma non s'invadono: la serva col vestito padronale è affare dell'epoca successiva. Il capo è al limite soppiantato da altro capo, come nella lunga storia correntizia democristiana (il potente Rumor, per dire, dovette cedere il passo all'allievo Bisaglia). “E' un libro revisionista”, scrive Pansa. Che nella premessa, rispetto alla sua prima vita di inarrivabile narratore di queste storie, compie anche alcune personali revisioni. Così, prima di avviare questa sorta di Commedia molto poco divina ma giornalisticamente molto godevole, fa innanzi tutto entrare in scena, e rendere chiare le sue personali convinzioni, i “tre grandi protagonisti” di quel lungo periodo, i tre partiti principali, ormai completamente dissolti, irrilevanti mucchietti di cenere: la Dc, il Pci e il Psi. Alla Dc Pansa concede il merito di aver retto le sorti del paese, “salvando la democrazia parlamentare che per fortuna ancora abbiamo”.
Al Psi di Craxi (e certo Pansa non fu craxiano negli anni della gloria di Bettino, anzi) il maggior merito: “E' stato l'attore di un progetto coraggioso che mirava a sottrarre il suo partito e l'Italia alla tenaglia paralizzante dei due colossi, il democristiano e il comunista”. Il giudizio più negativo è riservato al Pci, con “più colpe che meriti”, e quasi crudelmente sbeffeggia “la retorica che la sinistra continua a fare sul mitico Pci”. Il resto è memoria di Pansa e storia (a volte minuta, e perciò più divertente) che abbiamo adesso alle spalle: Fanfani come De Mita, Berlinguer e Occhetto, Craxi e De Martino, la tragedia di Moro e la ferocia del terrorismo, l'inabissarsi del paese e inaspettate sorprese come la vittoria sul divorzio, con intorno il pulviscolo di battute, faccine indefinite, glorie effimere. Tutti a volte vincitori, tutti a volte sconfitti. Pansa rievoca un biglietto affettuoso di De Martino, appena reduce dalla triste vicenda del rapimento del figlio, in occasione della morte di suo padre. “La Prima Repubblica era anche questo: uno stile e un cuore che oggi non scopriamo quasi più”, annota. Il lungo racconto si ferma alle soglie di Tangentopoli, del terremoto che cancellerà per sempre quell'intero universo così appassionatamente riportato in vita. Il Transatlantico, luogo di perdizione e di perdita di senso, comincia a inclinare come un Titanic più colossale dell'originale – e sui suoi marmi risuona il rumore dei tacchi di Cicciolina…
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