Perché il calcio inglese ha dato a Gordon Brown una bella lezione di liberismo

Claudio Cerasa

Nel pasticciato mondo del pallone europeo sta succedendo qualcosa di interessante: le squadre dei campionati più a rischio sono state costrette a trovare soluzioni immediate per disintossicarsi dalla droga del denaro troppo facile, le banche non sono più disposte ad aprire i rubinetti in modo illimitato e alla fine il risultato è che i team del Vecchio continente non si affollano più come un tempo alla rissa dei saldi invernali solo per tentare di acquistare l'ultimo mezzo brocco dal nome esotico rimasto disponibile sul mercato.

    Nel pasticciato mondo del pallone europeo sta succedendo qualcosa di interessante: le squadre dei campionati più a rischio sono state costrette a trovare soluzioni immediate per disintossicarsi dalla droga del denaro troppo facile, le banche non sono più disposte ad aprire i rubinetti in modo illimitato e alla fine il risultato è che i team del Vecchio continente non si affollano più come un tempo alla rissa dei saldi invernali solo per tentare di acquistare l'ultimo mezzo brocco dal nome esotico rimasto disponibile sul mercato. Le maliziose cronache di questi tempi hanno raccontato il caso di alcune squadre talmente schiacciate dai propri debiti da essere ormai prossime al fallimento, ma i malandati conti britannici (il deficit complessivo della Premier ammonta a circa tre miliardi di sterline) nascondono in realtà una novità sfuggita all'occhio del giornalista collettivo.

    L'indebitamento delle squadre europee non ha infatti prodotto soltanto clamorosi flop come quelli del Portsmouth (70 milioni di sterline di buco) e alcuni dati riportati poco tempo fa dal Financial Times dimostrano che la crisi ha dato una svegliata più che salutare ai dirigenti delle grandi squadre europee. Per capirci: i club inglesi hanno speso 34 milioni di euro nell'ultima sessione di mercato (è la cifra più bassa dal 2003) e oggi i dirigenti di prestigiosi club come l'Arsenal, il Chelsea e il Manchester United non hanno più paura a rivendicare la scelta di non voler partecipare in massa alle caotiche compravendite di riparazione invernale.

    Per spiegare questo piccolo ma significativo fenomeno alcuni economisti hanno iniziato a tirare fuori dal cilindro dati affascinanti. Il professor Stefan Szymanski, docente di economia alla Cass Business School, ha per esempio dimostrato che i soldi spesi per acquistare i giocatori non pesano sulla classifica come ci si potrebbe aspettare, e analizzando i conti dei 40 principali club inglesi ha calcolato che i nuovi arrivati riescono a incidere solo sul 16 per cento dei punti conquistati dalle squadre di appartenenza. Il primo a far sua la lezione di Szymanski si chiama Ivan Gazidis, oggi Sports business executive dell'Arsenal e uno dei principali sostenitori della sostanziale abolizione del mercato di riparazione: ed è stato senza spendere quasi una sterlina che nell'ultima sessione di mercato Gazidis ha contribuito a trasformare l'Arsenal in una delle squadre più forti d'Europa. “Che senso ha – sostiene proprio Gazidis – mettersi in casa a metà stagione un giocatore che ha bisogno di molto tempo per ambientarsi? Il calcio è uno sport dove si vince anche con i secondi, e se a metà campionato la nostra squadra schiera un giocatore che ha bisogno di più tempo del dovuto per capire dove arriverà il passaggio del compagno significa esporsi in modo gratuito a una possibile sconfitta”. Alcuni osservatori hanno poi notato un altro aspetto interessante. A differenza dell'atteggiamento avuto del governo di fronte al fallimento di due anni fa della Northern Rock è cambiata la sensibilità di Gordon Brown nei confronti delle quattro parole che hanno terrorizzato i governi di mezzo mondo: too big to fail.

    Come successo con i colossi finanziari americani salvati dal governo per evitare che il loro crollo mettesse in pericolo la stabilità del mercato, non molto tempo fa Brown fece una mossa criticata dai suoi elettori: salvare la Northern con soldi statali. Sarà che ora il premier si ritrova in piena campagna elettorale, ma dalle ultime dichiarazioni rilasciate da alcuni esponenti del governo il concetto del “troppo grande per fallire” pare essere sparito dal vocabolario del primo ministro. “Utilizzare i soldi dei contribuenti per pagare gli stipendi dei calciatori oggi semplicemente non è più possibile”. Le parole tra virgolette sono dello stesso cancelliere dello Scacchiere, Alistair Darling, che fino a pochi mesi fa era convinto che nazionalizzare le banche fosse la miglior opzione per difendere i contribuenti, e che oggi, giusto giusto sotto elezioni, sembra invece diventato l'ultimo difensore di questo strano ma esemplare liberismo pallonaro.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.