La calamita della firma democratica
Perché ogni parola di Saviano diventa inevitabilmente un appello
Il suo orizzonte non è più Largo Fochetti, ma il Palazzo di Vetro, laggiù a New York. Roberto Saviano, di appello in appello, si è allargato da Repubblica all'Onu. L'ultimo (in ordine cronologico) invito alla società civile, “Per un voto onesto servirebbe l'Onu”, sulla necessità di elezioni regolari, ha già chiamato alla firma più di trentamila persone. Saviano aveva semplicemente scritto un articolo accorato. Ma ogni cosa coraggiosa scritta da Saviano diventa ormai spontaneamente appello planetario, o almeno gruppo su Facebook.
Il suo orizzonte non è più Largo Fochetti, ma il Palazzo di Vetro, laggiù a New York. Roberto Saviano, di appello in appello, si è allargato da Repubblica all'Onu. L'ultimo (in ordine cronologico) invito alla società civile, “Per un voto onesto servirebbe l'Onu”, sulla necessità di elezioni regolari, ha già chiamato alla firma più di trentamila persone. Saviano aveva semplicemente scritto un articolo accorato: “E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro paese chieda aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un'affermazione del genere”. Ma ogni cosa coraggiosa scritta da Saviano diventa ormai spontaneamente appello planetario, o almeno gruppo su Facebook. Ogni parola di Saviano si trasforma nella causa giusta sotto cui mettere una firma: gesto gratificante e riposante insieme, soprattutto azione collezionabile (“Quanti ne hai tu?”, “Ah, ho perso il conto, in questo paese ogni giorno bisogna firmare un appello”).
Anche Saviano è un grande firmatario: per la libertà di stampa, contro la vendita dei beni confiscati alle mafie, per la liberazione di Cesare Battisti (firma pubblicamente ritirata), contro la legge sulle intercettazioni. Un appello non è un appello senza il nome Roberto Saviano, ma se c'è lui si può regalare il proprio nome a scatola chiusa, senza nemmeno leggere, e sentirsi eroi per un minuto. Così, quando lui stesso, di suo pugno, scrisse un appello al presidente del Consiglio per chiedergli di ritirare la legge sul processo breve (“io non rappresento altro che me stesso, la mia parola, il mio mestiere di scrittore”, perché un po' di egocentrismo negli appelli crea pathos), arrivarono cinquecentomila firme, una valanga di adesioni, tra cui naturalmente quelle dei grandi affezionati, gli entusiasti che non si perdono un appello: Andrea Camilleri, Roberto Benigni, Dario Fo, Renzo Piano. Nessun altro è un appellista così formidabile, nessuno ha come lui il talento di attirare consensi e partecipazioni a pioggia, anzi Saviano deve stare attento perché ogni sua parola viene intesa come richiamo alla società civile: così, se una mattina si svegliasse spiritoso e decidesse di scrivere l'elogio di Simona Ventura, immediatamente mezzo milione di persone proporrebbero la Ventura presidente della Repubblica. Se Saviano dicesse un giorno pubblicamente che adora la canzone di Pupo ed Emanuele Filiberto, cinquecentomila persone proporrebbero quella canzone come inno nazionale.
Saviano non è solo firmatario, ideatore, ispiratore, ma anche oggetto del desiderio, protagonista di affollati appelli: sei premi Nobel (Montalcini, Gorbaciov, Grass, Pamuk, Tutu e naturalmente Dario Fo) firmarono per primi la preghiera allo stato di proteggere meglio il giovane scrittore sotto scorta dalle minacce dei Casalesi (“La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini”), e subito dopo tutti gli altri premi Nobel ancora in vita, registi, attori, scrittori fecero una gara di velocità per non arrivare troppo in basso nella lista dei nomi. Roberto Saviano è la calamita di ogni richiamo alla firma democratica: è lui l'appellista supremo.
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