I nuovi equilibri di Generali tra alta finanza e politica. Il ruolo dei francesi

Il gran traghettatore

Stefano Cingolani

Presidente, allora va a Trieste? A questa domanda dei cronisti, il presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi, ha risposto con un “Ciao” salutando con la mano, mentre saliva in auto al termine del comitato nomine dell'istituto di Piazzetta Cuccia. L'accordo alla fine è stato raggiunto: Geronzi sarà presidente delle Assicurazioni Generali, al posto di Antoine Bernheim.

    Presidente, allora va a Trieste? A questa domanda dei cronisti, il presidente di Mediobanca, Cesare Geronzi, ha risposto con un “Ciao” salutando con la mano, mentre saliva in auto al termine del comitato nomine dell'istituto di Piazzetta Cuccia. L'accordo alla fine è stato raggiunto: Geronzi sarà presidente delle Assicurazioni Generali, al posto di Antoine Bernheim. Ma per esaudire le aspettative dei francesi, che gradivano una riconferma di Bernheim, l'intesa si basa pure su una vicepresidenza per Vincent Bolloré, capofila dei soci francesi di Mediobanca: Bolloré sostituisce così Gabriele Galateri di Genola. Alcune voci parlano di una possibile seconda vicepresidenza. L'accordo unanime trovato dagli azionisti della banca d'affari per la partecipata Generali, grazie al ruolo di mediatore di Fabrizio Palenzona, prevede anche che al posto di Geronzi alla presidenza di Mediobanca vada Renato Pagliaro, attuale dg dell'istituto. Il consiglio di amministrazione del Leone resterà di 19 membri, di cui tre spetteranno ai soci di minoranza. Nella lista ci sono gli attuali due ad del Leone.

    Formalmente l'iter sarà concluso la prossima settimana, con la riunione mercoledì del patto di sindacato di Mediobanca. In quella occasione sarà discusso anche il nuovo presidente del patto, carica attualmente ricoperta da Geronzi e vista come non compatibile con la presidenza di Generali. L'ipotesi più accreditata per la guida del patto è il professor Angelo Casò, attuale presidente del comitato interno di Piazzetta Cuccia. Con il passaggio di Geronzi alle Generali, e dopo le tensioni con il top management di Mediobanca, alcuni osservatori prevedono uno spostamento del baricentro negli equilibri Mediobanca-Generali da Milano a Trieste e un ruolo ancor più sistemico del gruppo assicurativo.

    Lo scontro per la presidenza delle Assicurazioni Generali chiude un'era e ne apre un'altra, complice la crisi. Ma quale? La candidatura di Cesare Geronzi si presta a molte interpretazioni. Può essere vista come l'ultima offensiva del bancocentrismo cattolico grazie al patto tra le due anime dell'Italia “bianca”: quella nordica popolar-progressista e quella romana vatican-conservatrice. Reconquista è un termine usato da Giancarlo Galli, acuto osservatore e brillante narratore, cattolico e nordista. In effetti, il Leone di Trieste, da quando faceva parte dell'impero asburgico, è stato il guardiano di un laicismo mitteleuropeo. Prima e ancor più di Mediobanca.

    Antoine Bernheim ne è soltanto l'ultimo esponente, ma bisogna ricordare quanto meno Cesare Merzagora, Eugenio Coppola di Canzano, Alfonso Desiata (l'amico di Claudio Magris) o Padoa-Schioppa padre, quel Fabio che fu a lungo amministratore delegato. Ora c'è un uomo che racconta di sé: “Sono battezzato e praticante, sin dagli anni del Dopoguerra quando militavo nell'Azione cattolica di Luigi Gedda, ho frequentato curia, cardinali, preti, e tanti politici”. Alcuni leggono l'intera storia in chiave machiavellica: è la politique d'abord, specchio della soluzione data alla recessione. Anche se il primato della politica sulla economia viene realizzato, per una vera eterogenesi dei fini, non dai giacobini liberali, ma dai tradizionalisti vandeani. Geronzi non nega che “in questo momento noi banchieri dobbiamo essere governativi. Io dialogo con Tremonti e le assicuro che è un buon dialogo. Ha le idee molto chiare”, ha confermato sia allo stesso Galli (“Nella giungla degli gnomi”, Garzanti) sia in forma diversa a Ferruccio de Bortoli. Proprio quest'ultima intervista, pubblicata il primo agosto 2008 dal Sole 24 Ore diretto da De Bortoli, segna il colpo di acceleratore in un processo cominciato dieci anni fa, dopo la morte di Enrico Cuccia.

    Chi non crede a grandi progetti escatologici, pensa che sia solo la battaglia di una vita, il coronamento di una lunga e complessa carriera, sinusoide ascendente partita dalla Banca d'Italia negli anni Sessanta. La pensa così Giorgio La Malfa che a Mediobanca entrava con i calzoni corti, accompagnato dal padre Ugo, ed è rimasto vicino a “Vincenzino” Maranghi finché non venne sconfitto dall'alleanza tra Geronzi e Alessandro Profumo. Una strana coppia, a lungo salda, anche dopo che nel 2007 Capitalia venne riversata in Unicredit, proiettando Geronzi sulla poltrona di Cuccia.

    Inutile cercare esempi nel passato italiano o straniero. Il banchiere romano non è un esponente dell'alta finanza come Bernheim, non è un intellettuale che nell'ombra costruisce grandi disegni come Cuccia, o un despota carismatico alla John Pierpont Morgan. Non proviene nemmeno da quella aristocrazia bianca della quale è espressione perfetta Giovanni Bazoli. Chi è, e come ha fatto, allora, ad arrivare fin lassù? Galli lo definisce “un gran traghettatore”. Ovunque uomo di passaggio, “si è sempre messo nella condizione di andare da un'altra parte, ne ha creato innanzitutto le condizioni, mettendo a disposizione la sua abilità e gestendo il cambiamento”.

    Sul “banchiere di Marino” come lo chiamano gli avversari arricciando il naso e puntando il mento all'in su, è stato scritto molto. Nel suo sito personale, che abbonda in rassegna stampa, ama ricordare che ha cominciato a lavorare a 17 anni, sotto la spinta di una famiglia modesta e laboriosa: il padre tranviere, tre fratelli, il liceo a Roma, il Pilo Alberelli in piazza Santa Maria Maggiore, solidamente conservatore, ma non tra quelli dove studia l'élite. Non il Tasso che ha formato l'aristocrazia rossa, penetrata nelle stanze dei bottoni passando per la sinistra radicale. Non il collegio Massimo dei gesuiti che ha sfornato tra gli altri Mario Draghi e Luca di Montezemolo. Per mantenersi all'università, lavora finché nel 1960 arriva quello che egli stesso chiama, non senza understatement, “il colpo di fortuna”: vince un concorso per entrare in Banca d'Italia. Qui incontra il suo patrono, Guido Carli, il suo sodale (almeno fino al 2005), Antonio Fazio, e i suoi due ostacoli, Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini.
    Il cursus honorum di Geronzi non è lastricato di stage e studi a Cambridge, né di dotte discussioni all'Ufficio studi dove con l'aiuto di Franco Modigliani, si stava creando il primo modello econometrico italiano. A lui, fin dall'inizio, tocca un ruolo operativo, il cambio della moneta, nel quale, con tenacia e abilità, diventa un vero specialista. Tanto che un giorno, intervenendo alla Camera, Beniamino Andreatta rende pubblico per la prima volta il suo nome: “Mentre voi state discutendo, c'è un signore che manipola il tasso di inflazione del nostro paese”. Leggiamo ancora, dalla biografia ufficiale, come viene descritta questa epifania: “Grande sussurro all'interno del Parlamento: ma chi è? Un personaggio di Sciascia? E' proprio uno sconosciuto, ma è uno sconosciuto che ogni giorno concorre a determinare il valore di cambio della lira nei confronti del dollaro impegnando le riserve valutarie del paese”. Quell'oscura attività “gli ha messo addosso un saio e, come succede per un monaco, se lo sentirà suo per il resto della vita”.

    Nessuno è il miglior giudice di se stesso. Ma questo aneddoto e le considerazioni che lo accompagnano, offrono una chiave per interpretare una personalità che a molti sfugge. A Ferruccio de Bortoli dice di aver “sempre seguito una regola aurea: freddezza, distacco, trasparenza”. E' la stessa intervista in cui, alla domanda se volesse mai andare a Trieste, risponde: “No, Bernheim troverà lui un successore”. Alla regola aurea manca un precetto che il cardinal Mazzarino nel suo breviario apocrifo, assegnava come dote fondamentale di un buon politico: “Prima simula, poi dissimula”. Non è finzione, è accortezza e astuzia, per meglio raggiungere l'obiettivo. Una meta che non cala dall'alto, come è avvenuto per Bernheim, né per successione dinastica o per cooptazione, ma viene perseguito con la tenacia di chi si è fatto arbitro del proprio destino.

    Uscito dall'ombra, Geronzi avrebbe voluto compiere il grande salto, ma si trova davanti, nella scala verso la sommità, due personalità diverse e ingombranti ciascuna a suo modo, come Dini e Ciampi. Così, lascia via Nazionale e segue l'allora direttore generale Rinaldo Ossola in una missione impossibile: risanare il Banco di Napoli. E' il 1980, l'anno del terremoto. Resta fino al 1982 quando entrambi verranno costretti a gettare la spugna. Sulla città è piovuta una manna tragica e insperata: i quattrini per la ricostruzione ai quali molti politologi e moralisti attribuiscono la progressiva degenerazione della vita civica. “Quell'anno e mezzo si conclude con una sconfitta – scrive ancora l'autobiografia sul sito – Sia lui che Ossola saranno letteralmente cacciati per volere di un mondo politico a quel tempo invadente e aggressivo. Entrambi sono vistosamente minacciati”. Una esperienza che ancor oggi vive come drammatica e dalla quale ha appreso molto, a cominciare da come si tratta con i politici.   

    Nell'ottobre si apre una posizione
    apparentemente minore, ma che si rivela densa di promesse: la direzione generale della Cassa di Risparmio di Roma, con appena 130 sportelli in tre delle quattro province laziali. “E' un posto dal quale potrà ricominciare”, gli dice Ciampi, dall'alto della sua poltrona di governatore. Sarà profetico. Nel 1988 l'Iri di Romano Prodi mette in vendita il Banco di Santo Spirito, antica istituzione del Vaticano fondata nel 1605 da Papa Paolo V. Geronzi si fa avanti, riempie la Cassa dei quattrini che mancano, ottiene il via libera da Bankitalia e comincia quel cammino di grandezza per aggregazione che durerà vent'anni. Nel 1991, quando all'Iri c'è l'andreottiano Franco Nobili, arriva il Banco di Roma. Poi il Banco di Sicilia e via via, finché, alla svolta del nuovo millennio il gruppo chiamato Capitalia è uno dei primi su scala nazionale. Non proprio efficiente, carico di debiti e prestiti a rischio. Ci penserà a rifare i conti il giovane Matteo Arpe che poi entra in contrasto con il proprio mentore. Ma è incontournable. A Roma e non solo.

    In quel decennio Novanta
    in cui crolla la lira e con essa anche il vecchio sistema politico, Geronzi diventa un supporto fondamentale. Si è parlato e scritto dei suoi buoni rapporti con Giulio Andreotti e con la Dc della capitale. O del sostegno che trovò Gianfranco Fini quando nel 1993 tentò la sfortunata battaglia per la poltrona di sindaco. Ma è anche vero che Francesco Rutelli prima e Walter Veltroni poi, trovano nella banca romana un supporto leale. Così gli imprenditori e i palazzinari, vecchi e nuovi, insieme ai quali viene ricostruito un tessuto economico che vorrebbe fare della capitale un polo se non alternativo, certo riequilibrante, rispetto al predominio della finanza milanese. Di qui passano i finanziamenti alle squadre di calcio: la Lazio di Cragnotti e la Roma di Ciarrapico e Sensi. Conservatore sì, ma non immobile, al contrario. Geronzi non anticipa i processi come farebbe un laico giacobino, ma li accompagna. Un facilitatore. Eppure, non un tetragono difensore dello status quo.
    Così, quando, tra il 1993 e il 1994, Silvio Berlusconi è in difficoltà finanziarie, la Banca di Roma sostiene la quotazione in Borsa di Mediaset. Ma il successo del Giubileo del 2000, fiore all'occhiello della giunta di sinistra e ponte di ferro tra le due rive del Tevere, non sarebbe stato possibile senza il concorso fattivo della banca capitolina. Alla politica, come del resto alla chiesa, Geronzi riserba un grande rispetto e non lo nega. “Nessun rapporto speciale” dice a Giancarlo Galli. “Con due eccezioni: il mio vescovo di Albano e Valentino Parlato del Manifesto. Sì, Valentino l'ho aiutato più di una volta”. Ma aiuterà anche il Pci a far fronte ai suoi debiti. E tra i suoi estimatori resta Massimo D'Alema.

    Gli anni dell'irresistibile ascesa sono anche gli stessi delle cadute rovinose. La peggiore delle quali ha il volto di Sergio Cragnotti e il marchio del barattolo Cirio che Giulio Tremonti teneva sulla sua scrivania al Tesoro fino al 2004, quando si dimise, dopo uno scontro con Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, al quale non era certo estraneo il rapporto tra Geronzi e Antonio Fazio, governatore della Banca d'Italia. Lo scacco Cirio (e in parte Parmalat) va ben al di là delle accuse giudiziarie che si stanno ridimensionando o addirittura cadono con il passar del tempo. Il fallimento, per un banchiere di razza, è veder cadere una impresa, un imprenditore e un progetto sui quali aveva puntato. Noi non facciamo i poliziotti, gli inquirenti o gli inquisitori.
    L'attacco al fortino nel quale si erano rinserrati i vecchi poteri forti, comincia poco dopo la morte di Cuccia avvenuta il 23 giugno 2000. E passa per il ribaltamento degli equilibri in Generali e Mediobanca, con la caduta di Maranghi l'11 aprile 2003 voluta da Profumo, Geronzi, Vincent Bolloré e Antonio Fazio. E' il momento in cui il governatore della Banca d'Italia vuol collocarsi al centro del sistema finanziario. E della massima sintonia con Geronzi.

    Due anni dopo, quando si innesca la triplice scalata, all'Antonveneta, al Corriere della Sera e alla Bnl, avviene una rottura strategica. E' stato scritto che l'ostentata amicizia tra il governatore e Gianpiero Fiorani ha irritato il vecchio amico il quale sosteneva gli olandesi di Abn Amro, anche perché ce li aveva in casa, nell'azionariato di Capitalia. Può darsi. Fatto sta che Geronzi sceglie di diventare non il grimaldello del vecchio sistema, ma l'uomo dell'equilibrio. Ancora una volta, il facilitatore. Questa operazione passa per la stabilizzazione del Corriere. E ne esce vincitore. Dopo aver appoggiato il ritorno di Paolo Mieli alla direzione, Geronzi lo sostiene contro l'amministratore delegato Vittorio Colao, vecchio amico di Corrado Passera (anche lui un McKinsey boy), costretto a gettare la spugna. Da un male nasce un bene visto che Colao oggi è il big boss mondiale di Vodafone. Una piccola moralità, parte della filosofia geronziana. Un uomo che non alza la voce e ragiona in modo piano e diretto. Disposto a sopportare anche critiche e attacchi purché non si tocchino le amate figlie Benedetta e Chiara.

    Sarà perché il maggior filosofo italiano
    resta Tommaso d'Aquino, ma ancora oggi, dopo tutto quel che è successo (in ordine inverso, la crisi, la globalizzazione, la fine della lira, il crollo del vecchio sistema politico, l'implosione dell'Unione sovietica e via via scuotendo) l'Italia è sempre alla ricerca, eterna, infinita, inane, di un primo motore immobile. Lo è la politica e lo è la finanza che si guardano in un continuo gioco di specchi. Enrico Cuccia si pensava così, ma quando sembrava esserlo per davvero, visto che esercitava una influenza determinante sia sul grande capitalismo (aveva in mano la Fiat, la Pirelli, l'Olivetti) sia sulla grande politica, è fallito. Ci ha provato Antonio Fazio caduto clamorosamente. Lo ha tentato più volte Giovanni Bazoli, che fin dagli anni Ottanta, con il sostegno di Beniamino Andreatta e l'aiuto di Romano Prodi all'Iri, aveva rappresentato il contrappeso più rilevante al potere di Mediobanca. Adesso tocca a Geronzi. In una fase storica in cui questa logica relazionale conta ancora (basti vedere quel che è accaduto attorno al capezzale di Lehman Brothers), ma sempre più sembra il residuo del vecchio mondo antico.

    Allora perché tanti appetiti? Si dice perché tra Mediobanca e Generali girano i pacchetti di controllo del fior fiore dell'economia italiana. Davvero? C'è Telecom piena di debiti che potrebbe diventare spagnola. C'è Alitalia che ancora non decolla. C'è Rcs che non è mai diventato un editore di una certa caratura industriale. Certo possiede il giornale della borghesia, ma ormai essa si rispecchia nel suo consiglio di amministrazione come Dorian Gray nel proprio ritratto stregato. Per Galli la chiave di lettura resta sempre la stessa: si pensa di traghettare Mediobanca e Generali verso altre sponde e altri lidi. Bernheim non può farlo per il suo vizio di fondo: tutti avrebbero gridato allo scippo nazionale. Geronzi, uomo di sistema, banchiere di garanzia, non genera uguali arrière pensées. Ma è difficile capire che cosa c'è al di là del fiume. E, se vogliamo davvero usare ancora l'immagine del traghettatore, allora il rischio è che diventi un dantesco Caronte.

    Anche in Italia, del resto, si fanno avanti nuovi soggetti e si aguzzano nuovi appetiti. Le fondazioni bancarie stanno cambiando lentamente pelle, si fanno attive e assertive. La Lega, forte del suo insediamento locale, vuol contare sempre più. Le imprese avranno bisogno di altri canali di finanziamento per rimpiazzare prestiti sempre più concessi con il contagocce. E, quando la grande macchina mondiale si rimetterà in moto, i nocciolini duri custoditi da Mediobanca o da Generali conteranno sempre meno. “La stanza di compensazione del capitalismo italiano non esiste più – insiste Galli – Semmai c'è un salotto di madame Guermantes”. Il Leone di Trieste non è e non sarà il re della giungla finanziaria. E difficilmente una società di assicurazioni, una industria la quale vende prodotti (le polizze) e non concede prestiti, potrà diventare holding di partecipazioni. Allora che senso ha per Geronzi la sua “investitura” (così la chiama)? Ricorriamo ancora una volta all'intervista di Giancarlo Galli. “E' legata al Bene comune – insiste il banchiere – e condizionata dalla globalizzazione. La crisi finanziaria si è trasferita nell'economia reale azzannandola. Nessuno può garantire a occhi chiusi la tenuta del sistema finanziario internazionale. La storia insegna che dalle grandi crisi si esce spesso con le guerre, la mutilazione della democrazia. Io vorrei fare in modo che dal tunnel si uscisse senza traumi”. Ecco il suo programma. Realizzarlo non sarà facile perché, diceva André Gide, “il presente sarebbe pieno di tutti i futuri, se il passato non vi proiettasse già una storia”.