La carne e padre Murphy
Nel corso degli anni il reverendo padre Lawrence C. Murphy aveva ceduto agli impulsi della carne, aveva cercato e ottenuto una qualche soddisfazione, un qualche piacere, abusando senza violenza, ma esercitando una coazione legata alla autorevolezza del suo ruolo, dei bambini sordomuti che vivevano con lui, a lui affidati, nella comunità di cura e di educazione di St. John, a Saint Francis, nello stato americano del Wisconsin. Per la chiesa padre Murphy era un peccatore; nell'interesse della sua anima e in quello delle vittime della sua concupiscenza doveva essere isolato e silenziato, indotto al pentimento sincero e completo e all'espiazione, in ultima istanza anche sanzionato
Leggi Il “tragico caso” di padre Murphy di Paolo Rodari
Nel corso degli anni il reverendo padre Lawrence C. Murphy aveva ceduto agli impulsi della carne, aveva cercato e ottenuto una qualche soddisfazione, un qualche piacere, abusando senza violenza, ma esercitando una coazione legata alla autorevolezza del suo ruolo, dei bambini sordomuti che vivevano con lui, a lui affidati, nella comunità di cura e di educazione di St. John, a Saint Francis, nello stato americano del Wisconsin. Per la chiesa padre Murphy era un peccatore; nell'interesse della sua anima e in quello delle vittime della sua concupiscenza doveva essere isolato e silenziato, indotto al pentimento sincero e completo e all'espiazione, in ultima istanza anche sanzionato sul piano del codice di diritto canonico e ridotto, eventualmente, allo stato laicale (che è la massima pena possibile verso un sacerdote, il quale perde le sue funzioni ma non la sua identità di presbitero, qualcosa di definitivo che attende soltanto il giudizio di Dio, una consacrazione dell'ordine sottratta al verdetto degli uomini).
Il New York Times, per la penna di Laurie Goodstein, ha riproposto ieri clamorosamente il caso, aiutato dalle carte che gli sono state portate dagli avvocati di quattro vecchi ragazzi da anni in battaglia per vedersi riconosciuto lo statuto di vittime degli abusi. Dalle carte emerge, raccontato con la consueta cura del giornalismo anglosassone di qualità (tanto che anche la Sala stampa vaticana e Avvenire e l'Osservatore Romano partono nelle repliche dal testo del Times, senza contestare i fatti) che la chiesa tutta, compresi l'allora cardinale Joseph Ratzinger e il cardinale Tarcisio Bertone, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per la dottrina della fede competente per materia, trattò il caso con grande imbarazzo. La tendenza fu quella di mettere in primo piano il buon nome dell'istituzione e la discrezione legata ai doveri della cura d'anime, piuttosto che la responsabilità penale e civile di padre Murphy al cospetto della giurisdizione pubblica (d'altra parte la magistratura civile si occupò del caso per un tratto ma poi lo lasciò cadere molto presto, archiviandolo).
Il caso Murphy può essere usato in modo semplicemente scandalistico, come scandalistica è la sintesi dell'articolo e dei commenti del New York Times: abbiamo beccato documentalmente un Ratzinger e un Bertone che negli anni Novanta non rispondono alle lettere di un vescovo di Milwaukee, il quale sollecita un processo di riduzione allo stato laicale di un prete pedofilo, oppure rispondono, come fece Bertone, in modo evasivo e inefficace, corrivo o compassionevole verso il vecchio prete malato che chiedeva, dopo venti e più anni di “espiazione”, alla vigilia della morte, di poter morire da sacerdote. Se invece si sia indifferenti allo scandalismo mediatico, non cointeressati alle guerre culturali il cui scopo è trasformare la chiesa cattolica, secolarizzarla a fondo e indurla a comportarsi in accordo pieno con i criteri mondani che le sono in parte estranei, allora il caso può essere utilizzato per capire come stanno davvero le cose, senza perdersi in dettagli inutili.
I radicali vogliono una chiesa democratizzata e agìta in pieno dalle leggi dello stato, senza spazio per il suo “sinistro” teatro del divino e del culto e della “repressiva e superstiziosa” cura d'anime. I liberali, per lo meno di tono e di metodo, come cerchiamo di essere noi del Foglio, credono invece in una libera chiesa in un libero stato, in una chiesa che ha diritto di parola, di azione, di educazione e di autogoverno. E che soprattutto ha diritto anche dal proprio punto di vista a distinguere, sacro principio liberale, tra peccato e reato. Infatti la signora Goodstein, cronista del NYT, rivela la sua impostazione culturale quando scrive, in tono accusatorio, che in base alla documentazione si può dire che “il Vaticano ha avuto la tendenza a leggere tutta la questione in termini di peccato e pentimento piuttosto che di reato e castigo”.
Secondo me, ma lo dico in tutta modestia, la chiesa fa bene, nel solco della lettera del Papa al clero irlandese, a mettere oggi l'accento sulla colpa anche legale costituita dai comportamenti pedofili, e a proclamare con molta assertività che i sacerdoti i quali tradiscano la fiducia dei bambini o dei ragazzi o delle ragazze devono rispondere sia a Dio sia ai tribunali civili. E probabilmente la chiesa dovrà dotarsi di strumenti ispettivi e canonici, legati o meno alla Congregazione per la dottrina della fede, che realizzino una molto più efficace cooperazione con gli organi del diritto comune, in modi tutti ancora da verificare. Ma non credo che i laici credenti, le suore, i preti, i vescovi, i canonisti, i teologi, i prefetti di curia e i papi potranno mai rinunciare a trattare il peccato come peccato, e il pentimento come porta aperta al perdono e all'espiazione cristiana, trasformandosi in macchine di burocrazia penale al servizio dei tribunali, che devono invece indagare sui reati e sanzionare i crimini. Né i laici liberali debbono pretendere questo scambio di funzioni, con omologazione delle identità. Uno scambio, d'altra parte, che a occhio e croce non avverrà mai.
E la chiesa dovrebbe cominciare a dirlo senza complessi, spiegando che la sua identità, nel nucleo più profondo, è legata a un'idea del peccato che è individualizzata, agisce caso per caso, non sopporta le leggi eguali e indifferenti all'anima di ciascuno tipiche del diritto positivo. La chiesa dovrebbe dire apertis verbis che il castigo penale, legittima aspirazione dei tribunali dello stato ai quali il clero può offrire cooperazione, è tuttavia nulla, è un granello di sabbia disperso nel vento, a fronte del meccanismo di imputazione divina che porta alla consapevolezza del peccato, al libero pentimento di coscienza, all'espiazione e al perdono o assoluzione dello specialissimo diritto che si realizza nella cura delle anime. La chiesa ha un suo modo di punire, giudicare, considerare, vedere l'uomo nel peccato e il peccato nell'uomo: un modo peculiare al quale in nessun caso può rinunciare. Ne va della tutela e difesa di un criterio, mezzo umano e mezzo divino, che è la chiave di volta del cristianesimo da un paio di millenni. La chiesa non può rinunciare alla notte dell'Innominato: non ne resterebbe pietra su pietra.
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