Il segreto del successo della Lega è il suo popolanismo

Maurizio Crippa

Un giorno ancora lontano, quando l'Italia sarà diventata federale o anche no, non lo sarà mai diventata, troppo frammentata di suo per poterlo essere, qualche archivista della politica proverà forse a spostare di scaffale Umberto Bossi. Proverà a togliergli l'etichetta ingiallita di padre del federalismo o, a seconda che sia andata, di barbaro e balordo attentatore all'Italia unita, e si accorgerà che la vera essenza della sua lunga avventura di capopopolo sta da un'altra parte. In un prima e in un dopo rispetto al federalismo, alle riforme, alla secessione, alla xenofobia, alla religione della terra.

Leggi Il trionfo del re ferito il ritratto di Umberto Bossi scritto da Annalena Benini

    Un giorno ancora lontano, quando l'Italia sarà diventata federale o anche no, non lo sarà mai diventata, troppo frammentata di suo per poterlo essere, qualche archivista della politica proverà forse a spostare di scaffale Umberto Bossi. Proverà a togliergli l'etichetta ingiallita di padre del federalismo o, a seconda che sia andata, di barbaro e balordo attentatore all'Italia unita, e si accorgerà che la vera essenza della sua lunga avventura di capopopolo sta da un'altra parte. In un prima e in un dopo rispetto al federalismo, alle riforme, alla secessione, alla xenofobia (presunta), alla religione della terra progressivamente slittata dal folclore pagano-celtico all'osservanza tridentina e di campanile. L'essenza del successo politico di Umberto Bossi, comunque vada, risiede in un lieve slittamento consonantico, che corrisponde però a un grande slittamento semantico, e infine a un enorme slittamento politico.

    E' il passaggio dal popolarismo di marca catto-democristiana, ma anche solidal-socialista, delle valli e delle terre padane al popolanismo, che è il vero cemento su cui si radica l'ideologia leghista. Postmoderno e arcaicizzante insieme, triviale e antisolidale, ma solido e lucido specchio di una classe sociale che solo lì, nella lega popolana e borghese, ha a poco a poco trovato identità. Popolanismo che è altra cosa dal populismo, che oggi tende a trionfare nella sua versione urbana, mediatica, di classe media e terziarizzata che ha invaso (e vinto) la politica dell'età berlusconiana. Ma che nella sua componente pedemontana, agricola (Luca Zaia non è un bluff) ma anche artigiana e operaia è un atteggiamento e un modo d'essere più solido, più radicato, più somigliante al nobile originale. Il popolanismo della Lega – il “popolo” e la “sua terra” sono gli slogan eterni dei Bossi; così come il suo monumento è un prato, la scarpata d'erba comprata in eterna proprietà a Pontida – è oggi la marca politica più evidente della Lega. Più ancora di un secessionismo ormai mitologico, più ancora di un federalismo che nel militante medio non va oltre la percezione del “padroni a casa nostra”. L'orizzonte politico in cui da anni Bossi si muove è l'interpretazione, magari naïf ma molto comprensibile, di una politica “dei” e “per” i ceti medio-popolari, contadini e financo proletari: basta guardare la penetrazione nelle piccole fabbriche, e l'attacco in grande stile, in questa campagna elettorale, ai distretti operai di Torino. Tanto che ormai, dopo decenni di guerra fredda tra il proletariato e i nuovi barbari egoisti e razzisti, il credo popolano e microborghese, periferico e pedemontano della Lega è penetrato anche nella sinistra, a riassumere il poco che resta del credo operaista.

    Il terremoto intervenuto non è di poco conto. Anche ovviamente considerando che a cambiare è stato il mondo intero, il grande mondo e la piccola patria, l'officina e la globalizzazione. Tanto più se si pensa che il successo di Bossi è creato su slogan vagamente tautologici (padroni a casa nostra), su truismi come “il popolo è un albero che senza radici è destinato a morire”, uno degli slogan preferiti della saggia senilità del condottiero di Gemonio. Soprattutto se si pensa all'oggi, quando dalle urne regionali la Lega nord potrebbe uscire non solo come il primo partito in Veneto, ma addirittura in Lombardia, e padrona politica del campo in Piemonte. E la testa di ponte in Emilia-Romagna gettata, e la discesa iniziata come un lungo brivido giù per la dorsale appenninica. E l'accerchiamento delle città a partire dalle campagne, c'è un che di polpottiano, in Bossi, iniziato anche quello. Vedi alla voce Milano. Impensabile nel 1980 quando fondò l'Unione nord occidentale lombarda per l'autonomia, ma anche oggi, quando la Lega ha ormai 360 sindaci e il controllo del “suo” territorio. Ora che il mito della buona amministrazione ha sostituito la secessione: “Il vero potere è amministrare”, è un altro mantra a cui Bossi il Vecchio non rinuncia più. Per “la nostra gente”, dice. A casa propria.

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    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"