Un vero interista Mario lo ama alla follia

Claudio Cerasa

Quando inizia a sbirciare tra le maglie degli undici giocatori scelti dal proprio allenatore per andare in campo senza trovare scritto da nessuna parte il nome di Mario Balotelli, un vero tifoso interista solitamente si incazza. Ieri è successo di nuovo: per la quinta volta consecutiva José Mourinho non ha convocato il più ganzo tra gli attaccanti nerazzurri e ha fatto imbestialire tutti quegli interisti che la domenica ballano sugli spalti e che considerano questo irresistibile bresciano nato a Palermo da genitori ghanesi qualcosa in più di un semplice giocatore di talento.

    Quando inizia a sbirciare tra le maglie degli undici giocatori scelti dal proprio allenatore per andare in campo senza trovare scritto da nessuna parte il nome di Mario Balotelli, un vero tifoso interista solitamente si incazza. Ieri è successo di nuovo: per la quinta volta consecutiva José Mourinho non ha convocato il più ganzo tra gli attaccanti nerazzurri e ha fatto imbestialire tutti quegli interisti che la domenica ballano sugli spalti – cantando “Se-sal-tel-li-seg-na-Ba-lo-tel-li” – e che considerano questo irresistibile bresciano nato a Palermo da genitori ghanesi qualcosa in più di un semplice giocatore di talento. Ne ha avuti tanti di campioni, l'Inter, ma non ne ha mai avuto nessuno come Mario. Perché per un vero interista Balotelli non è un ribelle scassacazzi che mette sottosopra lo spogliatoio, ma è piuttosto un fenomenale calciatore i cui gesti corrispondono perfettamente al sentimento più intimo di un qualsiasi tifoso uscito fuori dalle catacombe del piagnisteo sportivo dopo aver ospitato per anni secchiate di bromuro tra le mutande.

    L'Inter è da tempo una squadra abituata a vincere con il sorriso di Moratti, con le strette di mano di Zanetti, con i dammi il cinque di Maicon ma è anche una società che negli ultimi tempi ha sempre vissuto le sue goduriose vittorie come un coito interrotto nel massimo momento del piacere. L'eleganza dell'Inter, dicono i commentatori pensosi, consiste nel vincere senza far soffrire troppo gli avversari: trionfando sempre con timida squisitezza e sopraffina delicatezza. All'interista è sempre però mancata la gioia di potersi bullare dei successi e di incassare i trionfi senza dover strozzare in gola la felicità per paura che un giorno o l'altro qualcuno gliel'avrebbe fatta pagare.

    Balotelli era, è, lo sfogo di un urlo di gioia trattenuto nel proprio corpo per troppi anni. E se Mourinho è il simbolo di una squadra diventata vincente non per demeriti altrui, Balotelli è l'emblema del tifoso che è tornato a manifestare di fronte al mondo la propria libido calcistica riuscendo persino a far ridiventare il 5 maggio una data importante per la letteratura italiana, e non il simbolo di una disfatta sportiva. Ecco: il Balotelli che in campo gioca senza filtri, ostentando la sua bellezza, la sua giovinezza, la sua potenza, genera nel tifoso un incontenibile sentimento di identificazione. L'interista riconosce se stesso in quel bambinone capriccioso che fa impazzire gli altri segnando gol strepitosi senza aver bisogno di strapparsi a morsi la maglia per esultare dopo aver bucato la porta degli avversari. I gesti sbruffoni fanno morire di invidia i giocatori non all'altezza, quei buuuu buuuu allo stadio sono il sogno di ogni calciatore di talento (mi fischi, mi temi; non mi fischi non mi temi) e il non gioire, poi, è un gesto che manda in bestia i tuoi rivali perché significa indifferenza per un colpo che gli altri semplicemente si sognerebbero. Balotelli invece se segna neanche esulta. “Quando tornerò a esultare per un gol? Quando segnerò in finale a un Mondiale, sicuramente”.

    Gli anti Mario Balotelli sono tutti quegli interisti travolti dalla sindrome del micheleserrismo che sognano di poter avere a vita un alibi dietro cui ripararsi in caso di sconfitta. Il micheleserrismo è una sfumatura caratteriale che ha reso per anni piacevole la sofferenza agli interisti, fino a far divenire il dolore un tratto necessario della propria passione sportiva. L'Inter, si sa, è una squadra che ha gioiosamente sofferto per molto tempo facendo per anni la stessa cosa che oggi riesce con sorprendente facilità al Partito democratico: non preoccuparsi delle esauste coronarie di migliaia di supporter e non perdere occasione per farsi sconfiggere anche quando gli avversari fanno di tutto per farti vincere. Quando poi l'interista sente nominare i verbi “cedere”, “prestare”, “vendere” è ovvio che non possa fare a meno di tremare. La storia recente dei nerazzurri è fatta di giocatori fenomenali esplosi solo nel momento in cui la società li ha offerti al miglior nemico pensando di fare un affare (“li abbiamo inculati”) scoprendo solo quando ormai era troppo tardi che i calciatori scambiati per brocchi erano in realtà dei veri fenomeni. In Balotelli – guai se lo mandano via – l'interista vede dunque ricomporsi i frammenti di tutti i sogni spezzati: le sgroppate di Roberto Carlos, i sorrisi di Ronaldo, i passetti di Andrea Pirlo, le sciabolate di Seedorf, le cannonate del primo Adriano. Vorremmo mica dare a quegli altri pure Balotelli?

    Il nostro amato Mourinho ha dimostrato di sapere palleggiare bene con le parole e sarebbe sciocco se non riuscisse a trovare quelle giuste da suggerire a Balotelli per riconciliare se stesso con la squadra. Gli interisti sanno che Mou è la proiezione concreta di una leadership esemplare esercitata con coraggio in circostanze in cui anche ai migliori leader potrebbero tremare le gambe. Ma gli infantili litigi con il suo attaccante più dotato nascondono un tratto migliorabile del suo carattere. L'idea che una squadra debba essere una scuola in cui far crescere un calciatore è un'intuizione buona per gli allenatori che non sanno vincere gli scudetti. I problemi di questo tipo, invece, si risolvono senza che gli altri si accorgano che ci siano e anche le punizioni esemplari sono sempre eccezioni che alla fine tendono a indebolire un leader. E' impensabile chiedere a un campione fuori dalle righe e fuori dagli schemi di lasciarsi intrappolare nel rigido schema educativo di un allenatore, e così come non si può chiedere a D'Alema di essere più simpatico, a Berlusconi di parlare meno al telefono, a Zagrebelsky di non insegnare ogni settimana all'Italia come interpretare la parola “democrazia”, non si può chiedere a Balotelli di non essere Balotelli: i gesti naturali si possono arginare, non evitare.

    Da genitore Mou dovrebbe ricordare che i figli ribelli non si educano mettendoli in castigo e sfidando il loro orgoglio. Un buon padre sa che un figlio talentuoso, esuberante e tutto il resto non lo si istruisce sfidandolo a chi ce l'ha più lungo: semplicemente lo si forma mettendolo nelle condizioni di imparare dai propri errori. Perché in qualsiasi campo (sempre che non si voglia essere masochisti: cosa che all'Inter riesce sempre molto bene) i fuoriclasse si tengono dentro a prescindere da quanto siano capricciosi. Mourinho questo lo sa. Per questo ci saranno sempre più interisti, come chi scrive, che continueranno ad aspettare che San Siro ricominci a saltellare e che superMario torni presto sotto la curva guardando il pubblico senza esultare e puntando ancora orgoglioso l'indice sul petto: dove c'è il cuore ma anche lo scudetto.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.