L'Ikea del giallo
Sjöwall/Wahlöö: un classico da ormai quarant'anni, sempre in coppia per dieci modelli diversi ma con un unico protagonista, Martin Beck, che li rende inimitabili nella loro semplicità. Mankell: l'iniziatore della nuova stagione anni Novanta, adorato in patria ma perfetto per l'export, di trama profonda ma comprensibile ai più, attento ai bisogni del sociale. Nesser: una costruzione tradizionale con soluzioni di forte componente poliziesca. Kepler: una rivelazione, stile semplice e intrigo complesso, un mistero a partire dal nome, pseudonimo di una coppia di coniugi.
Sjöwall/Wahlöö: un classico da ormai quarant'anni, sempre in coppia per dieci modelli diversi ma con un unico protagonista, Martin Beck, che li rende inimitabili nella loro semplicità. Mankell: l'iniziatore della nuova stagione anni Novanta, adorato in patria ma perfetto per l'export, di trama profonda ma comprensibile ai più, attento ai bisogni del sociale. Nesser: una costruzione tradizionale con soluzioni di forte componente poliziesca. Kepler: una rivelazione, stile semplice e intrigo complesso, un mistero a partire dal nome, pseudonimo di una coppia di coniugi. Lindkvist: tratto particolare, personale, di ispirazione gotica.
Serie Larsson Millennium: il blockbuster inossidabile, definitivo, adatto per cominciare una propria piccola collezione o per svecchiare l'esistente, si calcola che in Svezia sia presente in una casa su due. Läckberg: l'idea pop che accontenta tutti, con una fiction soft, spinta con grande abilità promozionale. Persson: un impianto narrativo modulare, razionale, con dettagli che la critica definisce “documentaristici”. Marklund: una sicurezza, ogni uscita un successo, femminile ma adatta a tutta la famiglia.
Si potrebbe continuare. Perché in catalogo, ormai, gli editori italiani (Marsilio e Iperborea in testa) hanno quasi tutti i titoli esistenti. Uno dopo l'altro li abbiamo importati, tradotti e comprati, sulla scia del successo indigeno. Portati a casa e piazzati sui nostri scaffali. Componibili, intercambiabili, abbinabili, in infinite varianti, solo all'apparenza semplici da montare e da smontare.
E soprattutto con quei nomi. Impronunciabili, impossibili da ricordare, simillimi e iperconsonantici. Con i deckare – questo il termine colloquiale per indicare il “giallo” in Svezia – gli svedesi hanno raggiunto in letteratura l'ideale che Ingvar Kamprad, fondatore dell'Ikea, volle per la mobilia, il “design democratico”.
Fatto sta che distinguerli è impossibile, almeno se ci si basa su nomi e cognomi degli autori e purtroppo sempre più spesso anche se ci si basa sul plot. Il “giallo svedese” è diventato un sottogenere e quando si entra in libreria se ne prende uno per l'altro, con il rischio di prendere, tra l'uno e l'altro, una solenne fregatura. La sindrome da “melma indistinta”, che tanto fa paura anche agli editor perché rischia di trasformare anche un romanzo di qualità (i cui diritti sono stati contrattati e acquisiti come quelli di un romanzo di qualità) in una bufala seriale, è tanto reale che Einaudi, che ha lanciato la settimana scorsa nella collana Stile Libero Big, l'ennesimo giallo svedese, “Tre secondi” a firma Anders Roslund & Börge Hellström, ci tiene a precisare che l'opera – in cui il protagonista Piet Hoffman, nome in codice Paula (che lassù è nome maschile, tanto per confonderci ancor più), è scisso tra il ruolo di infiltrato, finto criminale, braccato dalla mafia slava e quello di tranquillo padre di famiglia in cui qualsiasi svedese tipo possa identificarsi, che ama la moglie e accompagna a scuola i figli, fino a diventare criminale completo per proteggere la vita normale – è stata acquistata proprio per la forza del romanzo più che per l'appartenenza alla linea scandinava.
Siccome però per Einaudi è il primo salto nei deckare dopo aver portato al successo anche da noi Anne Holt – l'avvocato ed ex ministro della Giustizia norvegese che della linea scandinava fa parte ma non essendo svedese viene confusa di meno con gli altri perché ha un nome più corto, pronunciabile e che sembra inglese – l'editore non ha voluto rinunciare a lanciare il titolo come “miglior giallo svedese dell'anno” e gli autori come “il nuovo fenomeno del crime svedese”. E chi vorrebbe farsi scappare di mano il futuro Stieg Larsson o Larssen o Karlsson, come lo storpiano le anziane signore che di thriller sono ghiotte, ma come sempre più spesso lo confonde anche chi si occupa di editoria da tempo immemore? Disse una volta in una riunione un caporedattore cultura, di fronte alla proposta di intervistare Gao Xingjian sul suo ultimo romanzo: “Non saprei, stiamo traducendo autori cinesi in massa e tutti dicono di essere dissidenti e bravi. Ma come si fa a sapere se là sono veramente famosi e se scrivono capolavori o spazzatura? Bisognerebbe leggerli tutti. Lasciamo perdere”. Che avesse vinto il Nobel era un dettaglio, così come l'editore presso cui veniva pubblicato. Se c'è inflazione, tutto si svaluta.
Ma come si è arrivati a tanto? Com'è che i deckare sono entrati nelle nostre case, hanno invaso le nostre Billy e i nostri Camilleri e Carofiglio hanno ceduto loro il posto nelle nostre classifiche senza colpo ferire? Urge, proprio come nelle lunghe domeniche ai grandi magazzini della mobilia, trovare l'equivalente letterario dell'omino con divisa fosforescente tra un Ektorp e un Norden e chiedere una consulenza sul terzo motivo dopo il Nobel e l'Ikea per cui la Svezia ha goduto di fama riconosciuta nel Novecento. Proprio sulla scia dell'organizzazione Nobel, che da oltre un secolo si avvale di un'accademia che se ne cale dei giudizi sdegnati del globo a proposito delle sue scelte eccentriche, abbiamo trovato apposito organismo per i deckare. Si chiama Deckarakademin (Accademia del giallo), sta per compiere quarant'anni e ci siamo fatti spiegare come funziona dal suo creatore, perché consultare al sito internet è inutile a meno che non si parli svedese: l'accademia si picca di localismo e per ora si rifiuta di pubblicare la traduzione dei contenuti e dei meccanismi di votazione persino in inglese.
“All'inizio eravamo in tredici, sei critici, sei scrittori e un nome noto. Negli ultimi anni siamo aumentati fino a ventiquattro tra scrittori e critici, ci incontriamo due volte l'anno e ci dividiamo in gruppi. Tra una riunione e l'altra metà di noi leggerà tutti i deckare dell'anno e l'altra tutti i gialli tradotti in Svezia, cercando di selezionare la crème de la crème. Il nostro scopo è quello di stimolare la scrittura di qualità nel genere e uno dei modi che usiamo è appunto quello di attribuire ogni anno un premio al miglior romanzo, alla migliore opera prima e al miglior giallo straniero tradotto nella nostra lingua. Pubblichiamo anche saggi e analisi sul genere e ospitiamo congressi mondiali di crime novelist”, ci racconta l'autorità in materia Bo Lundin, che oltre che critico e scrittore è fondatore e membro onorario di questo ente nazionale per il thriller. “Al momento abbiamo un solo problema: troppo poche donne in accademia. Ci stiamo lavorando, ma è dura: quando diventi membro dell'accademia, lo rimani a vita e prendersi un impegno del genere non è da tutte. Eppure, sarebbero necessarie a riflettere il cambiamento epocale avvenuto tra gli scrittori di gialli e tra il pubblico: quindici anni fa le gialliste svedesi erano una o due, oggi abbiamo superato quota venticinque. Sarà colpa del marketing editoriale, oggi sempre in cerca, più che del nuovo Mankell, della nuova Marklund (da noi pubblicata da Marsilio e Mondadori), ma il motivo è proprio che sono le donne a leggere, mentre i lettori maschi sono in calo”.
Se fino a poco tempo fa “credevano nel design, ma amavano gli gnomi”, come sintetizza poeticamente Nanni Delbecchi nel suo “Il signor Ikea” (non per niente edito da Marsilio), sembra che oggi gli svedesi non facciano altro che scrivere gialli, leggere gialli ed esportare gialli. Sarà che magari non sono mai guariti, dal 1986. Perché i nordici, si sa, non sono mica come noi, non sono abituati, almeno in tempi recenti, ai misteri, agli intrighi e agli omicidi immotivati. E alla fine anche se si trova la soluzione, la macchia di sangue, grande o piccola che sia, non se ne va. Tu la cancelli e lei riappare, come nei mistery della migliore tradizione. Il fatto è che dalla morte violenta di Olof Palme, in Svezia i gialli hanno cominciato a proliferare. Non che prima nessuno ci si fosse cimentato. Ma ai nostri non va giù che stiano per scadere – nel 2011 – i venticinque anni che il codice penale del paese concede alle istruttorie e siamo ancora in alto mare: il processo più lungo e costoso mai affrontato in Svezia e la condanna all'ergastolo di un sospetto poi prosciolto in appello non hanno saziato l'ansia indagatoria che ha ipnotizzato gli svedesi di fronte alla morte di un primo ministro assassinato in pieno centro di Stoccolma, delitto di cui non è stata trovata nemmeno l'arma. “L'ambizione della Svezia di essere il paese del welfare è morta con Palme e per scrivere del suo assassinio (“The end of Welfare State”, ndr) ho dovuto scalare sei stanze piene di montagne di carta. Oggi tutto quello che pensiamo della Svezia è idealizzato” aggiunge schiettamente Leif G. W. Persson, autore di una trilogia deckare (Marsilio). “Anche io prima di venire in Italia pensavo che tutto fosse come nel ‘Rigoletto'”.
“E' difficile dire quando sia cominciato tutto”, ci spiega ancora il nostro consulente per la “letteratura democratica” mister Bo. “Il crime novel è un fenomeno prima di tutto anglosassone. Nel decennio tra le due guerre, uno scrittore svedese di nome Frank Heller ha riscosso un certo successo in Europa, ma di certo sono stati i titoli di Sjöwall/Wahlöö, Henning Mankell e Stieg Larsson a sfondare. Quello di cui sono sicuro è che un episodio storico, sociale e politico che ha stimolato la scrittura di gialli e il loro boom di vendite c'è: il fallimento del welfare state. Il filo rosso che lega i deckare è la disillusione. Persino troppi dei detective protagonisti sono tristi uomini di mezza età che cercano di sfangarla in una società più o meno ingiusta. Troppi sospiri. Troppo buio. Troppo freddo. Persino per la Svezia. Per non parlare delle detective donne, che non sono altro che la piena espressione del mutamento di ruolo nella società svedese di questi ultimi anni: probabile che in altri paesi europei tutte queste femmine forti e autosufficienti le troviate pure esotiche”.
Magari da dentro la Svezia è difficile apprezzare appieno le dirompenti e innovative caratteristiche alla Kill Bill dell'hacker lesbica incazzata nera Lisbeth Salander, eroina di “Uomini che odiano le donne” (Marsilio) e degli eccetera. Magari Bo è un po' pessimista, ci siamo detti. Esattamente come ce lo saremmo detti dell'omino della mobilia che si mostri certo dell'esaurimento scorte dell'anta Abstrakt laccata di colore rosso, l'unica perfetta per la nostra cucina. E siccome non abbiamo nessuna voglia di ritornare perché domenica prossima abbiamo un matrimonio, ci rivolgiamo a un consulente che dovrebbe essere più conciliante con il giallo svedese se non altro perché il deckare che gli è capitato di tradurre in ultima battuta nella nostra lingua – “L'ipnotista” di Lars Kepler (Longanesi) – non si schioda dalle classifiche italiane da settimane: “Ci sono diverse opinioni sul boom svedese del giallo. Gli studi secondo cui qui l'attuale produzione di polizieschi sia legata ad un mutamento della società sono i più numerosi. La gravissima crisi economica di inizio anni Novanta ha risvegliato bruscamente il paese dal suo sogno socialdemocratico. In tempi più recenti, l'assassinio del ministro degli Esteri, Anna Lindh, ha riacceso il dibattito su un paese che ha perso l'innocenza”, ci spiega Alessandro Bassini. “Il successo del giallo in Svezia è persino maggiore che in Italia. Il 60 per cento dei libri che si pubblicano ogni anno appartengono a questo genere e in tutte le librerie i deckare hanno un posto a sé, spesso uguale se non addirittura maggiore rispetto al resto dei romanzi esposti sugli scaffali. Lo stesso riguarda le vendite. La critica legge il successo del giallo in generale da una prospettiva storica, ma il pericolo che la letteratura svedese si ‘appiattisca' su questo genere c'è”.
Secondo Bassini, ogni scrittore ha il suo tratto peculiare, nonostante la produzione in serie. Tuttavia quel che affascina l'intera Europa, e l'Italia in particolare, sembra essere una modalità specifica e trasversale ai deckare di narrare la mente criminale. Quella stessa modalità che ha portato al successo le bluastre puntate di Carlo Lucarelli e le interminabili sessioni criminologiche con plastico delle serate di Bruno Vespa e che ha fatto divenire di tendenza la trasformazione dei criminologi in parerologi tout court: lo scavo psicologico a tutti i costi, la discesa nella mente del criminale come diritto narrativo da allegare all'omicidio. Quasi mai si parla di “raptus” o di “follia” nei gialli svedesi; c'è alla base, invece, un trauma non rimosso che spinge qualcuno a compiere un crimine. Capire questo trauma rende trasparente tutto il meccanismo. Da qui al giustificazionismo il passo è più breve di quel che sembra. Per non parlare dell'identificazione, borderline con l'empatia: “Ogni speculazione sulla morte che ignori il delitto diviene inattendibile”, scrive Manlio Sgalambro nel suo ultimo saggio “Del delitto” (Adelphi). “L'uomo è mortale non significa in primis che l'uomo muore – insigne banalità concettuale – ma che l'uomo è datore di morte. L'assassino e la sua vittima sono inscindibili. ‘Ti sei interessato a me sino a uccidermi' può dire l'altro. E per un attimo può anche piangere per la commozione”.
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