Come rinasce l'America

Stefano Cingolani

L'inverno del muto scontento stenta a togliersi di mezzo. Ai confini del Canada c'è ancora neve. E un terribile acquazzone durato quasi due giorni ha bloccato le linee ferroviarie da New Haven a Boston. Eppure sulla costa est degli Stati Uniti si sente netto, chiaro, rinfrescante, il cambio di stagione; un risveglio di spiriti prima ancora che di portafogli. Alla fine, sono fioriti i ciliegi e Washington, in queste due settimane, può celebrare senza patemi il National Cherry Blossom Festival. Sarà pur vero che l'americano medio si sente oppresso dal proprio debito e da quello del governo, mentre si scatena la fantasia vessatoria delle autorità locali che tassano di tutto e di più, dai funerali alle chat lines.

    L'inverno del muto scontento stenta a togliersi di mezzo. Ai confini del Canada c'è ancora neve. E un terribile acquazzone durato quasi due giorni ha bloccato le linee ferroviarie da New Haven a Boston. Eppure sulla costa est degli Stati Uniti si sente netto, chiaro, rinfrescante, il cambio di stagione; un risveglio di spiriti prima ancora che di portafogli. Alla fine, sono fioriti i ciliegi e Washington, in queste due settimane, può celebrare senza patemi il National Cherry Blossom Festival. Sarà pur vero che l'americano medio si sente oppresso dal proprio debito e da quello del governo, mentre si scatena la fantasia vessatoria delle autorità locali che tassano di tutto e di più, dai funerali alle chat lines. Sarà che il fardello del Leviatano condanna già l'America alla decadenza (ennesima condanna, ennesima decadenza, ennesima infausta previsione) come scrive Niall Ferguson, serio storico della famiglia Rothschild trasformatosi in star mediatica.

    Eppure, l'impressione che si ricava è ben altra.
    Non l'attonita atmosfera di fine regno spalmata sulle rovine di Ground Zero nei primi mesi del 2002. Né l'incredula e querula litania di dieci anni prima. Chi c'era lo ricorda bene. Vinta la guerra fredda, dissolto come neve al sole il Grande Nemico, liberato il Kuwait dal Piccolo Nemico… e sovraffatti da una dura recessione. “It's the economy stupid”. No, oggi è come se l'America fosse una molla compressa, già pronta a scattare. Dentro Abercrombie & Fitch, a South Street Seaport, dove l'East River sfocia nella baia, non si riesce ad entrare, tale è la ciurma di ragazze e ragazzi che s'avventa sulle camicie quadrettate, revival degli anni sessanta o sui jeans falso stazzonati che fanno impazzire i teenagers. Musica a palla nelle orecchie, carte di credito in una mano e shopping bags nell'altra. Sembrano tornate le vacche grasse. A&F, un tempo superclassico e un po' noioso, oggi è un fenomeno alla moda. Come American Eagle Outfitters a Times Square. O come Philippe Chow, il ristorante China chic, dove nemmeno una top model trova facilmente posto. Roba da snob newyorchesi che non dice nulla dell'America profonda? Un'altra rondine che non fa primavera?

    Allora, via di corsa sulla Fifth Avenue
    specchietto per le allodole, soprattutto forestiere. Il weekend di Pasqua non si cammina, tanti sono gli europei attratti dal dollaro a buon mercato: italiani, spagnoli, francesi a giudicare dalle lingue più parlate. E' un via vai anche nella cattedrale di San Patrizio dove il venerdì santo l'arcivescovo Timothy Dolan ha levato il suo monito contro i preti pedofili e gli attacchi preconcetti alla chiesa che vengono dal New York Times. Pure lui, considerato un progressista. L'Apple store, il cubo trasparente sotto l'austero grattacielo della General Motors, è pieno zeppo anche nei giorni dell'attesa. E tutti hanno visto le folle isteriche del 3 aprile, vigilia di Pasqua, ma giorno dell'ultima epifania per gli apostoli di Steve Jobs. Settecentomila iPad, al costo minimo di 499 dollari, in 48 ore. Sarà anche una infatuazione mediatica, ma qualcosa dice anche sullo stato di salute del consumatore americano mediamente giovane, secolarizzato, urbano, quello al quale punta la catena di valore delle grandi corporations.

    Effemeridi astrologiche, sensazioni spesso erronee.
    Fin dai primi rudimenti del giornalismo, mestiere fenomenologico come pochi, si impara che non bisogna mai intervistare i tassisti né basarsi sulle prime impressioni. E allora, voce agli esperti e agli immancabili numeri che, pur basandosi su estrapolazioni statistiche, appaiono al senso comune certi e grondanti sostanza.
    I consumi personali sono cresciuti nel primo trimestre dell'anno di 3,1 punti al netto dell'inflazione. Si è messo in moto così il 70 per cento dell'economia americana. “Un passo robusto – spiega l'economista James O'Sullivan al Wall Street Journal – Non c'è segno di un double dip, cioè una ricaduta nella recessione”, come invece teme Bob Shiller, professore a Yale, autore di fortunati bestseller economici (a cominciare da “Irrational exuberance” sui ruggenti anni Novanta) e inventore insieme a Karl Case di un indice sui prezzi degli immobili al quale nessuno ha creduto durante gli anni della bolla. Shiller adesso si dedica a sviluppare l'economia comportamentale, un misto di psicologia e business, ma non perde d'occhio i suoi grafici, secondo i quali il mercato delle case stenta ancora a decollare. Del resto, in vent'anni è stato costruito di tutto e di più e bisogna ancora smaltire l'eccesso di capacità produttiva.

    Gli scettici guardano alle proiezioni sugli acquisti e storcono la bocca. Drogati, dicono, dalla spesa pubblica e dagli incentivi del governo. Il Dipartimento al commercio ci dice da dove vengono i quattrini e dove vanno. Sui 13,16 trilioni (un trilione equivale a mille miliardi di dollari) di reddito disponibile, due sono attribuibili ai benefici sociali, uno ai profitti dei capitalisti, mille e 770 miliardi dai dividendi e dagli interessi, il resto (7,82 trilioni) da salari e stipendi. Proprio questa parte del reddito ancora ristagna, spiega Sullivan. Anzi, senza i salvataggi di imprese e banche, sarebbe crollata. Ora stenta a risalire perché l'occupazione va a rilento.
    Il Dipartimento del lavoro fornisce gli ultimi dati secondo i quali gli occupati nei settori non industriali, sono aumentati a marzo di 162 mila unità, lasciando la disoccupazione ferma al 9,7 per cento. “E' cominciata la svolta”, brinda Barack Obama. I suoi critici di destra e di sinistra ricordano che dall'inizio della recessione, nel dicembre 2007, sono stati persi 8 milioni di posti e per ridurre l'esercito industriale di riserva, che ammonta a 15 milioni di persone, ce ne vuole il doppio e per molti anni a venire.

    Una ripresa senza lavoro, jobless recovery,
    sentenziano i macroeconomisti che, però, seguono poco la microeconomia, cioè le imprese dove il lavoro viene creato per davvero. Le fabbriche hanno ripreso a far girare le macchine. L'indice manifatturiero a marzo ha registrato il miglior dato dal 2004, con un aumento di oltre tre punti. L'industria delle industrie, quella automobilistica, che ha sofferto più di tutte le altre, ha fatto registrare balzi del 20 per cento per General Motors e Honda, salgono anche Ford e Toyota nonostante la grave crisi sulla qualità dei prodotti. Solo Chrysler continua a perdere terreno e riduce le vendite. Ma c'è bisogno di tempo per rifare la linea di prodotti del partner Fiat e Sergio Marchionne ha chiesto tempo, ammesso che il mercato glielo conceda.

    Per la prima volta in molti anni, le esportazioni tirano. E' l'effetto di un dollaro meno forte, certamente. Ma non basta. I prodotti made in Usa che vanno nei paesi emergenti superano quelli destinati ai paesi sviluppati. Una novità storica. Gli Stati Uniti hanno beni che servono là dove la domanda tira, nella “macchina mondiale”, più che in Germania o in Francia. Intel ormai realizza all'estero l'80 per cento del proprio fatturato grazie ai processori montati sui computer prodotti in Corea o in Cina. Ma quando si analizza l'export americano, non bisogna fissarsi solo sulle merci, si deve guardare ai brevetti tecnologici, ai servizi, all'intrattenimento, alle major di Hollywood che incorporano tutte queste componenti. Avatar ha incassato due miliardi di dollari in due mesi. Tedeschi e francesi dovranno vendere all'estero almeno una dozzina di Airbus per compensare. E non potranno certo farlo in così breve tempo. Intendiamoci, gli Stati Uniti restano un'economia chiusa nel senso che solo dieci dollari su cento vanno all'estero, quattro volte meno della Germania, quasi tre volte meno della Cina e della Gran Bretagna.

    Tuttavia si collocano sui gradini più alti nella scala del valore. La nuova spinta all'esportazione è uno dei cambiamenti che gli Stati Uniti stanno compiendo dentro la crisi e grazie alla crisi. L'altro è l'aumento del tasso di risparmio, salito al 3,9 per cento rispetto all'1,5 del 2007, ultimo anno del boom. Anche per questo è particolarmente importante l'aumento dei consumi nel primo trimestre che avviene in presenza di una riduzione dei debiti delle famiglie. Torniamo alla tabella del dipartimento del commercio. Di quei 13 trilioni di reddito disponibile, solo 11 vengono spesi. Per 6,97 trilioni in servizi che rappresentano il grosso dell'economia.
    Il quadro, dunque, è ben più complesso dello schizzo con il quale l'America viene dipinta in Italia: una pennellata di Google e Facebook, un tocco e ritocco di finanzieri avidi e sudaticci, una processione dolorosa di disoccupati e il peso del debito, quello privato passato poi al governo, che grava come il mondo sulla schiena di Atlante. Intendiamoci, la crisi fiscale è seria e il rosso dei bilanci sta già tingendo le dita agli esattori fiscali. L'American Enterprise Institute, think tank conservatore, ha messo in fila la stima stato per stato, calcolando anche il debito nascosto, cioè quello attribuibile ai fondi pensione. Peggio di tutti sta l'Alaska di Sarah Palin, seguita da Rhode Island, New Mexico, Ohio, Mississippi, Illinois, New Jersey, Montana e Hawaii che scende di poco sotto la fatidica soglia di Maastricht (il 60 per cento del pil). Il New York Times ha paragonato la California a una Grecia in territorio americano.

    La paura scatena l'immaginazione più perversa degli amministratori. In Michigan tassano il taglio dei capelli: 5,5 per cento, non molto di per sé, ma c'è già chi scommette nel ritorno dei capelloni. Il Maine ha deciso di gabellare i clown, i commedianti di strada e gli acrobati. Il Kentucky si accanisce contro i viaggi in pallone aerostatico. Il Nebraska ce l'ha con la posta del cuore anche nelle versioni più aggiornate, cioè via Web. Per ogni proposta di incontro galante, una quota va allo stato. Ma la più odiosa di tutte le imposte è considerata quella sui funerali per la quale una speciale corona (di crisantemi) spetta al solito Michigan (probabilmente lo stato con maggiori sofferenze, visto che i redditi sono scesi ai livelli del 1963) e alla Pennsylvania che ha sventagliato una mitraglia di gabelle sui servizi, compresa la pubblicità. Il governatore Edward Rendell, un democratico, si difende: “Non sono un tassatore folle, è che bisogna approfittare per mettere ordine nell'imposizione locale: perché mai nei cinema vengono tassati i popcorn e non le caramelle?”. Negli anni delle vacche magre, togliere un'imposta sui consumi o sui servizi serviva a guadagnare voti e fare un favore ai lobbisti. Adesso, si procede sparando nel mucchio. Tutto grasso che cola per i Tea party.

    Dietro il movimento che sta trasformando il panorama politico della destra, c'è la crescente irritazione per i governi gabellieri, non solo la rivolta contro l'espansione del mostro federale e la nazionalizzazione della sanità. Di qui al prossimo mese, quando si terranno le primarie in dieci stati, il movimento cercherà di candidare propri esponenti tra i repubblicani, in vista delle elezioni di mid term a novembre. Bravi a mobilitare e arringare le folle, molti degli improvvisati leader non hanno un quattrino e stentano a mettere insieme le consistenti somme che servono per entrare al Congresso. Gli stati maggiori del Grand Old Party non nascondono il loro scetticismo misto alla paura di venire incalzati e persino scalzati dal basso. Certo è che la base si è attivata come non accadeva dal 1994 quando Pat Buchanan guidò la risposta vittoriosa al primo clintonismo.

    Intanto gli americani si spostano, cambiano di nuovo residenza. Gli anni Novanta hanno visto una grande migrazione verso sud dove si pagava meno, si ottenevano prestiti a go go, ed era possibile farsi una casa e vedere il suo prezzo salire ben più dell'interesse sul mutuo. La Sunbelt, la cintura del sole, dalla California al Nevada, dall'Arizona al Texas, dalla Georgia alla Florida, ha visto aumentare la popolazione dispersa negli immensi sobborghi, distribuita ogni giorno sulle grandi autostrade intasate di suv e pick-up. Oggi le cose stanno cambiando. Il crollo dei prezzi, l'aumento della benzina, la caduta del boom meridionale basato su debiti e immobili, sta innescando nuove migrazioni. Torna ad attrarre la metropoli dove si creano i nuovi posti di lavoro. A cominciare dalla stessa, pur affollata, area del nordest. Sono solo primi segnali e i sociologi pensano che questa volta ci sarà una sorta di dispersione, non tanto un flusso continuo. Questo è l'anno del censimento e sarà interessante leggere la fotografia demografica della nuova America che non sta mai ferma.

    Il movimento si percepisce con chiarezza. Durerà? E dove porta? “Siamo ancora lontani dall'essere usciti dal tunnel”, ha detto ieri il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che poi ha auspicato un “forte impegno” verso la responsabilità fiscale e ha notato che “la storia ha dimostrato la resistenza e la capacità di recupero dell'economia americana”. E infatti gli Stati Uniti cresceranno quest'anno tra il 3 e il 4 per cento – partendo dal 2,4 e 2,3 per cento dei due primi trimestri, ha previsto ieri l'Ocse – un passo lento rispetto ad altre fasi storiche, segno di quanto dura e profonda sia stata questa recessione. Ma è un ritmo pur sempre doppio rispetto all'Europa e al Giappone, triplo in rapporto all'Italia che si consola e si compiace della sua stagnazione. “Solo la Cina ci può salvare”, sentenzia ancora Ferguson, in preda a un'affettata depressione. Davvero? Allora andiamo a leggere la catena di valore dell'iPad, l'ultima meraviglia della tecnologia americana. L'iPod ci aveva mostrato che i cinesi percepivano poco più che due dollari su cento, 60 andavano ad Apple (idea, progettazione, infrastruttura, ecc,), 30 ai giapponesi di Toshiba e Mitsubishi che producevano il display e parte dei microprocessori insieme alle americane Broadcom e PortalPlayer. Per iPhone non è cambiato molto: i ragazzi di Silicon Valley si prendono oltre metà della torta. In iPad, Toshiba continua a fornire parte della memoria, ma il grosso dei microprocessori viene dalla coreana Samsung, mentre per la prima volta Apple ha disegnato un proprio chip riappropriandosi di una parte della catena tecnologica. Broadcom resta della partita e si aggiunge Texas Instrument per il touch screen, mentre le due batterie sono giapponesi, fornite dalla Amperex, unità di Tdk. L'infrastruttura dell'iPad ha un cuore inglese e si chiama Arm, nata come una divisione di Acorn, la ghianda (traduzione letterale del nome) maturata nei laboratori di Cambridge e diventata subito compagna della mela di Cupertino.

    Sempre in preda a problemi finanziari, la casa madre passa alla Olivetti nel 1985. Dal 1998 smette di produrre computer. La stessa azienda di Ivrea, del resto, cambia pelle per trasformarsi nella scatola finanziaria usata da Roberto Colaninno per scalare Telecom. Arm, invece, quotata nella City e a Wall Street, continua a disegnare le sue sofisticate architetture, soprattutto per telefonini. Smontare le scatole magiche di Steve Jobs è molto istruttivo. Se il futuro dell'economia occidentale, quella dei paesi iperindustrializzati, si gioca sul valore e non sulla quantità, allora la struttura di iPad, iPod e iPhone ci rassicura un po'. La nostra sorte non è segnata. Cassandre di tutto il mondo, arrendetevi.