Giornali, tv, soldi e politica

Che cosa c'è dietro la guerra tra Murdoch e Google

Claudio Cerasa

Sulla pedana dove si combatte per decidere chi governerà il futuro dell'informazione, uno tra i duelli più affascinanti del mondo ha per protagonisti due formidabili spadaccini che da mesi si studiano, si inseguono, si osservano, si stuzzicano, a volte persino si sputtanano, ma che al contrario di quanto molti potrebbero credere hanno appena cominciato a incrociare le lame. I nomi dei due rivali che lottano per definire l'evoluzione dell'universo dei mass media sono quelli di Eric Schmidt e Rupert Murdoch: il primo è il cervello operativo di quel colosso mondiale di nome Google; il secondo è il numero uno di quel gigante dell'informazione chiamato News Corporation.

    Sulla pedana dove si combatte per decidere chi governerà il futuro dell'informazione, uno tra i duelli più affascinanti del mondo ha per protagonisti due formidabili spadaccini che da mesi si studiano, si inseguono, si osservano, si stuzzicano, a volte persino si sputtanano, ma che al contrario di quanto molti potrebbero credere hanno appena cominciato a incrociare le lame. I nomi dei due rivali che lottano per definire l'evoluzione dell'universo dei mass media sono quelli di Eric Schmidt e Rupert Murdoch: il primo è il cervello operativo di quel colosso mondiale di nome Google, che da tempo ha smesso di essere soltanto il motore di ricerca più famoso del mondo; il secondo è il numero uno di quel gigante dell'informazione chiamato News Corporation che tra giornali, riviste, libri, televisioni, canali satellitari e siti Web oggi è la quarta corazzata mediatica più grande del pianeta.

    Le ragioni della contesa riguardano il tentativo portato avanti da entrambi gli imperi di rafforzare la propria presa su alcune importanti fette del mercato economico mondiale: c'entrano le televisioni, c'entrano i social network, c'entrano le reti satellitari ma c'entrano soprattutto le dinamiche legate alla sfida che si sta combattendo attorno alla battaglia più bella: quella dell'inchiostro. E il senso di questa disputa tra il re dei giornali e il principe del Web si trova ben riassunto in un'immagine pubblicata il 16 febbraio 2009 sulla prima pagina del Time, quando il settimanale americano mandò in stampa una copertina con un pesciolino rosso avvolto tra le pagine di un giornale. Didascalia sottintesa: “Volete che i giornali facciano questa fine?”. Ecco, la guerra tra Google e Murdoch offre molte risposte a questa domanda.

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    Partiamo dal principio: tutto è cominciato quando il vecchio Rupert ha iniziato a osservare con occhio sospetto i servizi con cui Google offre ai propri utenti la possibilità di ripescare sul suo motore di ricerca contenuti prodotti da altre testate giornalistiche. Per la precisione, l'occhio dello Squalo ha puntato quel servizio che in tempo reale mette a disposizione di tutti i naviganti le news che arrivano dalle principali fonti (compresa la News Corp) disponibili sul Web: Google News. Tesi di Murdoch: gli uomini di Google sfruttano i miei contenuti in modo illegittimo, improprio e sleale con il fine evidente di attirare pubblicità senza offrire alcun risarcimento; e tutto questo viene fatto in un momento molto particolare, in cui il mercato editoriale è prossimo al collasso e in cui Google non può certo essere lasciata lì ferma a inghiottirsi ogni risorsa disponibile sulla Rete. “Costoro – ha detto senza troppi giri di parole appena due mesi fa Murdoch, di fronte agli organi federali della Trade Commission – pensano che hanno il diritto d'impadronirsi dei nostri contenuti e di usarli senza contribuire di un centesimo ai costi. Questo si chiama furto. E noi faremo in modo di ottenere un prezzo ragionevole ma equo per il valore che offriamo”. Risposta di Google: “Non capiamo dove sia il problema: i produttori di notizie hanno il completo controllo su quanto dei loro contenuti appare in caso di ricerca; se ci chiedono di non inserire il loro materiale, non lo facciamo”.
    Molti osservatori hanno notato che attorno alla battaglia combattuta a suon di miliardi tra Google e Murdoch esistono però diversi elementi contraddittori.

    I più critici sostengono che è difficile credere che il problema
    dei giornali sia quello di ritrovarsi qualche link sulle pagine di Google News: i siti Internet, si sa, vivono di accessi, e ogni accesso in più ricevuto dovrebbe essere considerato non un furto ma un dono del cielo. Nel caso specifico di Murdoch, per esempio, il 27 per cento delle visite che arrivano quotidianamente sulla versione online del Wall Street Journal provengono proprio da Google News, e gran parte di questi clic sono di persone che senza Google non sarebbero mai finite su siti come quello del Journal (per l'esattezza, sono il 44 per cento i clic che da Google arrivano sul Wsj di utenti che non erano mai stati sul sito del quotidiano di Murdoch). Diversi analisti hanno così offerto un consiglio allo squalo australiano: piuttosto che osservare con preoccupazione un'azienda che utilizza le notizie altrui per offrire un proprio servizio, perché non iniziare a riflettere su come sfruttare al meglio una grande chance offerta da Google come quella degli accessi a volontà? “Gli editori – sostiene Alberto Marinelli, docente di Nuove tecnologie all'Università della Sapienza – considerano la perdita di potere di acquisto sulle pubblicità tutta colpa del Web. E' vero che se i giornali non sanno monetizzare una risorsa che gli viene offerta gratuitamente il problema è anche loro, ma dall'altra parte bisogna stare molto attenti perché in questo settore esiste una questione che andrebbe risolta quanto prima. Quando gli editori dicono che i motori di ricerca sottraggono loro contenuti senza offrire alcuna contropartita un po' di ragione ce l'hanno e forse il mondo della carta stampata avrebbe da imparare dall'universo della musica. In questo campo, si sa, le grandi major sono state abili a trovare un accordo con portali come YouTube e hanno messo le cose in chiaro: mandate pure online le nostre canzoni ma poi dateci una piccola percentuale di quello che incassate grazie a noi. Dubito che anche nel rapporto tra editori e aggregatori nel futuro non funzionerà sempre di più in questo modo”.

    La grande apprensione di Murdoch è però legata
    anche a una questione di quattrini. I cinque miliardi di dollari investiti due anni fa nel Wsj non hanno ancora portato tutti i profitti sperati, i dati che arrivano dall'editoria americana continuano a essere tutto tranne che incoraggianti e da qualche tempo a questa parte chi conosce bene Murdoch inizia a sospettare che i soldi spesi per acquistare il Journal potevano essere spesi in modo migliore, forse.
    “Comprare il Wall Street Journal – ha sussurrato un ex dirigente della News Corporation al giornalista Gabriel Sherman, che ha ritratto lo Squalo in un lungo articolo pubblicato tre settimane fa dal Magazine del New York Times – è stato il peggior affare che Rupert abbia mai fatto: semplicemente non aveva alcun senso”.
    Per capire l'origine della preoccupazione di Murdoch bisogna però fare un passetto indietro e dare una sbirciatina ad alcuni dati arrivati sulla scrivania del numero uno della News Corporation alla fine dello scorso anno. I dati riguardano le vendite dei giornali americani e non sono certo rassicuranti. Nel 2009 gli indotti dei quotidiani sono calati del 21,6 per cento, i ricavi dei giornali a pagamento sono precipitati del 27 per cento e le vendite degli spazi riservati agli inserzionisti hanno registrato un calo pari a 11,2 miliardi di dollari (da 27,6 a 37,8: peggior dato dal 1986). Di fronte a questi numeri, Murdoch non ha potuto fare a meno di notare come Internet abbia invece arginato con un certo successo l'onda d'urto della crisi economica. Nel 2009 la raccolta pubblicitaria sulle versioni online dei giornali americani è cresciuta del 5,1 per cento, alla fine del 2010 è previsto che negli Stati Uniti la pubblicità sul Web raggiungerà i 119,6 miliardi di dollari e di questo passo (lo dice una ricerca della ZenithOptimedia) il ricavo ottenuto dalle inserzioni su Internet dovrebbe superare quello dei giornali entro il 2015. (E nel resto del mondo le cose non sono andate meglio: nel 2009 in Francia 2.300 giornalisti hanno perso il posto di lavoro, negli Stati Uniti vi sono 115.000 giornalisti in meno rispetto a dieci anni fa e in Italia due grandi gruppi editoriali come Rcs e l'Espresso hanno visto scendere i propri ricavi in modo preoccupante: del 17 per cento e del 14,9 per cento). Naturalmente questi dati hanno allarmato il capo della News Corp, e una volta valutate con attenzione le statistiche Murdoch ha riunito i suoi collaboratori, ha studiato i numeri, ha fatto due calcoli e non ha avuto dubbi. I colpevoli di tutto questo? Quei furbacchioni di Google.

    “Quella di Murdoch – ha raccontato a Maurizio Molinari sulla Stampa Michael Wolff, autore del libro “The man who owns the news” (L'uomo che possiede le notizie) – si presenta come una campagna molto aggressiva. Punta a essere sulla bocca di tutti e lui si dedicherà fino in fondo a vincerla nella convinzione che leggere gratis sul Web quanto si paga sulla carta è un controsenso. Dobbiamo attenderci nuovi, duri affondi. Punterà a guidare alleanze sempre più vaste, nobili e soprattutto popolari imputando a Google di essere una sorta di parassita che fa soldi e cresce sfruttando, gratis, le proprietà degli altri. Il tema-chiave è la tutela della proprietà intellettuale. Ma ciò che Murdoch non può cambiare è l'abitudine degli utenti del Web. Miliardi di persone sono oramai abituate a navigare gratis attraverso i siti dei giornali di carta, cercando liberamente ciò di cui hanno bisogno attraverso i motori di ricerca. Non si può tornare indietro. E' troppo tardi”.
    L'apprensione di Murdoch è legata anche a un altro aspetto: i dati sulla crisi dell'editoria hanno prodotto un grave problema di percezione – e per certi versi di credibilità – che i grandi editori hanno deciso di non sottovalutare; tanto che alla fine di marzo le otto maggiori industrie editoriali americane – Charles H. Townsend, Condé Nast, Cathie Black, Hearst Corporation, Meredith Corporation, Ann Moore, Time, Wenner Media – hanno messo sul piatto novanta milioni di dollari per acquistare 1.400 pagine di giornale per un'originale campagna promozionale di cui è protagonista il campione di nuoto Michael Phelps. Scopo dell'investimento? Convincere l'opinione pubblica (e soprattutto gli inserzionisti) che, a differenza dei giornali in cui un lettore si immerge dolcemente come fosse un abile nuotatore, il Web, per quanto bello, promettente e certamente affascinante, resta ancora troppo superficiale. “The Internet is fleeting – suggerisce la reclame – Magazine are immersive. We surf the Internet. We swim in magazines”. La campagna sulla generosa resistenza della carta stampata viene sostenuta anche da diversi dati fatti circolare dagli stessi editori. Alcune recenti indagini condotte dal Pew Research (importante centro di ricerca americano) dimostrano, per esempio, che il tempo di lettura medio di un utente su Internet è ancora molto basso (circa settanta secondi, quasi un terzo rispetto a quello dei giornali e solo lo 0,56 per cento di quello complessivo passato sul Web) e che, nonostante la crisi, la carta rappresenta ancora il vero motore economico del sistema editoriale, con il 90 per cento dei ricavi del settore generati ancora dai media tradizionali. Non solo. Il Pew Research fornisce anche altre statistiche significative: nell'ultimo anno soltanto il sette per cento degli americani sostiene di essersi informato esclusivamente su Internet e la percentuale di naviganti che ammette di non aver mai cliccato su alcuna pubblicità online è molto alta: 79 per cento.

    “La crescita dell'informazione su Internet sarà pure sorprendente – aggiunge Alberto Marinelli – ma sulla Rete, in fondo, si parla soltanto di quello di cui si discute su giornali e sulla tv. Indagini recenti hanno per di più dimostrato che l'ottanta per cento dei link copiaincollati su Internet fa riferimento a notizie riportate proprio dai media tradizionali ed è anche per questo che sono in molti a sostenere che l'informazione sul Web è destinata a essere complementare, e non alternativa, a quella della carta stampata. Detto questo, chi crede che i grandi brand legati al giornalismo saranno presto travolti dall'organizzazione autonoma delle persone – blog, socialnetwork e quanto altro – commette un grave errore. Perché nel mondo dei nuovi media è sempre andata così: all'aumento dell'informazione cresce il bisogno dell'intermediazione. A questo va anche aggiunto che un buon prodotto con una sua identità, una sua garanzia e una sua riconoscibilità è indispensabile in un settore in cui i lettori, più che le informazioni, sono interessati ad acquistare le interpretazioni delle informazioni. E' una stupidaggine pensare che le persone possano fare da sole: servirà sempre qualcuno che li guidi in questo percorso”.

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    Diversi commentatori hanno notato un altro aspetto importante, perché la guerra tra Google e Murdoch avrebbe in realtà sollevato un tappo che doveva saltare da tempo: come si fa a vendere un quotidiano quando gran parte delle notizie che lo compongono si trovano in giro – in tv, in Rete, in radio, persino su alcuni free press distribuiti il pomeriggio – ben prima che il giornale arrivi in edicola? I primi a sperimentare la difficoltà di campare di sole notizie sono stati i giornali sportivi: alla fine degli anni Ottanta i direttori di Gazzetta dello Sport, Tutto Sport e Corriere dello Sport si resero conto che il lunedì era diventato difficile produrre un quotidiano in grado di offrire qualcosa in più rispetto a quello che gli appassionati di sport avevano già visto in televisione la domenica pomeriggio, e così – tra gol in tempo reale, interviste post partita e infiniti approfondimenti serali – la stampa sportiva iniziò a perdere copie proprio nel giorno in cui in teoria avrebbe dovuto guadagnarne di più. Dunque che fare? La Gazzetta chiese una mano ad alcuni professori delle università di Siena e di Urbino, e alla fine di un lungo periodo di osservazione i consigli di Stefano Magistretti, Patrizia Violi e Omar Calabrese aiutarono i giornalisti a trovare un modo per contenere la perdita di copie. “Suggerimmo – racconta oggi Omar Calabrese – di puntare tutto su commenti, opinioni, spigolature, storie, inchieste e di iniziare a rendere inseparabili i fatti dalle opinioni. Risultato? Oggi i giornali sportivi sono ancora i quotidiani più venduti d'Italia”.

    Gli unici dati non sconfortanti che arrivano dal mondo della carta stampata riguardano quei giornali più piccoli che hanno attraversato la recessione senza mettersi eccessivamente nei guai, e che alla fine della crisi hanno visto scendere i propri ricavi un po' meno degli altri: meno 12,4 per cento, contro il meno 21 dei giornali più grandi. “Le persone – sostiene Bart Adams, publisher del The Daily Record – possono leggere di Obama più o meno ovunque ma dov'è che possono trovare invece qualcosa che riguardi i fatti che accadono a pochi passi da loro”. I grandi numeri dei piccoli giornali hanno avuto l'effetto non secondario di convincere l'editore più famoso del mondo – proprio Murdoch – ad assumere trentacinque nuovi giornalisti per aprire a New York il dorso locale del Wall Street Journal. La ragione? “A New York – ha spiegato lo Squalo in modo spietato – c'è un quotidiano che, per inseguire premi giornalistici, ha smesso di coprire la città nel modo in cui lo faceva un tempo, lasciandosi così sfuggire la cronaca della città più bella del mondo”.

    Il dorso newyorchese del Wall Street Journal è però solo una delle tante mosse studiate da Murdoch per tentare contemporaneamente di portare ossigeno nei polmoni della News Corp e di trovare nuove strategie per battere sul campo la concorrenza dell'altro gigante progressista dell'informazione americana: il New York Times (giornale che poco dopo le polemiche tra Murdoch e Google ha rafforzato il suo rapporto con l'azienda di Eric Schmidt, siglando un'alleanza per lanciare un servizio innovativo di pagine tematiche aggiornate in rete 24 ore su 24: “Living story pages”). E la sfida al Times è fatta anche di piccoli dettagli. Negli ultimi mesi, per esempio, la News Corporation ha prima contattato via mail alcuni abbonati del Times offrendo loro un abbonamento al Wall Street Journal con consegna a domicilio a dieci dollari al mese (e con un prezzo inferiore ai 40 dollari pagati dagli abbonati del Times della zona di New York) e in seguito ha deciso anche di offrire megasconti per fare pubblicità sul Wall Street Journal e il New York Post (tra il 79 per cento e l'83 per cento).

    La guerra dell'inchiostro è anche il primo vero campo di battaglia su cui Murdoch e Schmidt si stanno sfidando a volto scoperto. Il fascino dello scontro tra i due imperi è infatti legato anche alle visioni del mondo dei due imprenditori che rappresentano due modi molto diversi di intendere persino la politica. Il Sun in Inghilterra così come la Fox negli Stati Uniti (entrambi di proprietà di Murdoch) esprimono a tutti gli effetti un background culturale vicino a quel pensiero conservatore detestato invece dai ragazzi di Google, e se nel Regno Unito i giornali di Rupert, anche a queste elezioni, non appoggeranno il premier laburista Gordon Brown (pur avendo invece sostenuto per anni l'ex primo ministro Tony Blair), in America è stato proprio Barack Obama ad accusare la Fox di “dedicarsi esclusivamente ad attaccare la sua Amministrazione” e a definire la Rete, pur senza citarla direttamente, “un enorme megafono” usato contro di lui. Dall'altra parte, invece, Schmidt è qualcosa più di un normale supporter democratico: dopo aver versato nel 2004 agli amici democratici il 98 per cento dei finanziamenti elettorali a sua disposizione (raggiungendo il massimo delle donazioni possibili sia per John Kerry sia per Howard Dean) alla fine del 2008 – quando la sua intenzione di endorsare il candidato democratico venne rivelata guarda caso da un articolo del Wall Street Journal – è stato scelto da Barack Obama come advisor della sua campagna elettorale; è stato voluto ancora da Obama, all'inizio del 2009, all'interno del suoi transition adivsory board; e a metà 2009 gli è stato proposto dal presidente di guidare l'ufficio ricerche tecnologiche della Casa Bianca.

    Ma la rivalità tra Murdoch e Schmidt è destinata a non riguardare soltanto il mondo dei giornali. La guerra tra News Corp e Google ha infatti aperto un altro fronte legato alle nuove tecnologie e al mondo della televisione. Un fronte svelato dallo stesso Squalo alla fine di novembre, nel momento più caldo della battaglia tra i due giganti dell'informazione, quando Murdoch diede del ladro di contenuti alla società di Schmidt, quando Schmidt rispose che Murdoch avrebbe potuto sganciarsi in qualsiasi momento dai motori di ricerca e quando, senza perdere tempo, il tycoon ammise di voler trovare al più presto un accordo per distribuire su Internet i propri contenuti con il motore di ricerca della Microsoft (Bing); dando di fatto vita a una santa alleanza contro Google formata da Murdoch, da Microsoft e anche dalla Apple. Che c'entra Steve Jobs? Ecco: il numero uno della Apple aveva firmato un patto preciso con la Google di Schmidt: tu non ti immischi nei miei affari io non mi immischio nei tuoi. E' andata così per quasi sei anni, fino a quando Google non ha scelto di investire tre miliardi di dollari in un progetto che secondo Jobs non sarebbe mai dovuto nascere: il Googlephone; un telefonino con cui Schmidt ha fatto il suo ingresso in quel mercato degli smartphone dove la Apple è ancora dominus indiscusso ma dove Google minaccia ora di rosicchiare significative quote di mercato. “Non abbiate dubbi – ha confessato a fine gennaio Steve Jobs ai suoi dipendenti, poco prima che anche Microsoft facesse il suo ingresso nel mercato degli smartphone presentando il suo nuovo telefonino in partnership con la Nokia – Google vuole eliminare l'iPhone, ma noi non glielo permetteremo”.

    Ai contatti avviati tra Murdoch e Ballmer vanno però aggiunti anche altri due particolari significativi: perché se da un lato Jobs è pronto a stringere una partnership per far diventare Bing il motore di ricerca principe di iPhone e iPad, dall'altro Murdoch ha scelto di allearsi proprio con Jobs per offrire in esclusiva alla Apple (e solo alla Apple) i preziosi contenuti giornalistici delle sue testate. (I due storici nemici – Microsoft e Apple – avevano già deciso in passato di allearsi per far fronte a un nemico comune, e già nel 1996, per esempio, Jobs rivelò che la Microsoft allora di Bill Gates aveva speso 150 milioni di dollari per acquistare il 7 per cento circa delle azioni di Apple per evitare che la Mela fosse schiacciata da una grave crisi del settore delle nuove tecnologie).
    I massimi dirigenti della News Corporation hanno però iniziato a osservare con interesse anche un'altra fetta di mercato in cui i ragazzi di Google promettono di essere minacciosi. Lo scorso nove marzo Schmidt ha annunciato un accordo con l'operatore americano Dish Network per un servizio di ricerca di programmi televisivi compatibile con il nuovo telefonino presentato da Google, e l'intesa con Dish Network – un'azienda americana specializzata nella fornitura di contenuti tv e pay per view che proprio insieme con Google ha già messo in commercio una scatoletta bianca, collegata con una tastiera e con un televisore, da cui è possibile scegliere un qualsiasi programma tv, gratuito o a pagamento, o un qualsiasi video di YouTube presente sulla faccia della terra – ha messo in allarme i vertici della NewsCorp.

    Non solo per l'oggetto dell'accordo con Dish, ma anche perché nei prossimi mesi Google ha intenzione di rafforzarsi ancora di più nel settore televisivo: potenziando quella che presto potrebbe diventare la sua principale fonte di profitto, YouTube. Se fino a oggi YouTube (società acquistata da Schmidt cinque anni fa per 1,65 miliardi di dollari) è stato un colosso che ha vissuto di vita propria ma che non ha offerto significativi introiti al suo management, molti analisti oggi sono convinti che prima della fine del 2010 Google riuscirà a fare quel passo che finora non gli era riuscito: convincere migliaia di inserzionisti a investire tanti soldi su YouTube (oggi, per una serie di questioni burocratiche, non è ancora possibile) e diventare di fatto un competitors sul Web di grandi imperi televisivi come la stessa News Corp. I suoi conti Schmidt li ha già fatti: tra una cosa e l'altra, attraverso YouTube, Google potrebbe incassare qualcosa come 700 milioni di dollari all'anno di pubblicità. “Il problema – ha sostenuto pochi giorni fa sul Guardian Jeff Jarvis, docente di giornalismo alla City University di New York – è che rispetto alle nuove tecnologie Murdoch si comporta come un uomo che si muove alla cieca in terra straniera: qualcuno mi spieghi come si fa a combattere una battaglia contro un impero come Google senza essere capaci di mandare neppure una e-mail”.

    A parte le maliziose voci pettegole – messe in giro dallo spietato biografo di Murdoch, Michael Wolff, che nel suo libro sostiene che lo Squalo abbia imparato solo lo scorso anno a mandare le e-mail – il fatto è che dietro l'eroica battaglia combattuta dal tycoon australiano in nome della difesa estrema della sacralità della carta stampata esiste un problema che accomuna molti grandi editori in giro per il mondo. Una questione chiave è certamente quella che riguarda la ricerca di una futura formula che riesca a far coesistere in uno stesso ambiente lavorativo sia i contenuti prodotti dai giornali cartacei sia quelli realizzati dai migliori organi di informazione online: e il caso del primo premio Pulitzer assegnato pochi giorni fa a un blog americano (ProPubblica.org) per un servizio realizzato insieme con il magazine del New York Times suggerisce che l'informazione su Internet e quella cartacea saranno destinate a trovare presto nuovi punto di contatto: “Video – sostengo Massimo Gaggi e Marco Bardazzi nel libro “L'ultima notizia” – didn't kill The Radio Star and Internet will not kill the Paper Star”).

    Detto questo, il grande problema che si pongono oggi i grandi editori ha evidentemente un origine diversa, e verrebbe da dire quasi romantica. Murdoch è infatti il capostipite di una massiccia generazione di imprenditori (in Italia vedi alla voce De Benedetti) che si ritrovano in età avanzata a gestire un impero senza avere la certezza che le proprie passioni verranno ereditate dai figli. Un aspetto di cui Murdoch è seriamente preoccupato: perché nessuno dei suoi eredi – né Elisabeth, né Prudence, né Lachlan, né James – ha mai mostrato particolare interesse per il mondo della carta stampata. Si capisce dunque che l'apprensione del vecchio Squalo australiano non è connessa soltanto al contenimento dell'irresistibile ascesa di Google ma è legata soprattutto a una paura diversa: quella di ritrovarsi un giorno con un erede al trono che non sia più disposto a fare follie in difesa dell'inchiostro e che in fin dei conti consideri la carta stampata utile al massimo per incartare tanti bei pesciolini rossi.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.