I segreti delle amazzoni verdi
Vuoi davvero parlare di noi? E come mai, cosa abbiamo fatto?”. E' stata più o meno questa la reazione di quasi tutte le leghiste, che mi hanno guardato con aria stupita, quando ho cominciato la mia circumnavigazione intorno al cosmo femminile della Lega Nord. Tre mesi passati a (in)seguirle con invadente, ossessiva curiosità, per capire chi fossero le donne della “Padania” che nessuno, o quasi, conosce. E che invece lentamente, gradualmente, sono emerse, quasi sempre dopo anni di una militanza politica .
L'introduzione del libro di Cristina Giudici “Leghiste, Pioniere di una nuova politica” (13 euro), pubblicato da Marsilio e da pochi giorni in libreria.
"Vuoi davvero parlare di noi? E come mai, cosa abbiamo fatto?”. E' stata più o meno questa la reazione di quasi tutte le leghiste, che mi hanno guardato con aria stupita, quando ho cominciato la mia circumnavigazione intorno al cosmo femminile della Lega Nord. Tre mesi passati a (in)seguirle con invadente, ossessiva curiosità, per capire chi fossero le donne della “Padania” che nessuno, o quasi, conosce. E che invece lentamente, gradualmente, sono emerse, quasi sempre dopo anni di una militanza politica – loro preferiscono chiamarla territoriale – che le rende speciali nel panorama italiano. Sembra un paradosso, ma l'unico partito che non ha mai inserito nel suo statuto o nel suo programma il tema delle pari opportunità (e quando parla della questione femminile ricorre sempre a immagini, motti, slogan sulla famiglia tradizionale), conta ormai su una numerosa truppa femminile. Che ha sfiorato il famoso tetto di cristallo, con ruoli sempre più strategici.
Conquistati semplicemente perché Umberto Bossi punta sui cavalli che sanno galoppare. E non importa se siano donne o uomini, perché quello che conta per la Lega nord è la militanza costante, la fedeltà al progetto federalista, ai diktat di Bossi, oltre alle umane coincidenze, ovviamente. “Però, è vero, siamo diventate tante. Forse siamo più tenaci, più capaci”, mi hanno detto in molte, davanti ai numeri, all'elenco delle donne sindaci, assessori, parlamentari compilato per convincerle che non avevo deciso di (in)seguirle per caso. Anche se, per le leghiste, le quote rosa, gli interrogativi sull'esclusione delle donne dalla politica sono elucubrazioni mentali che lasciano volentieri agli avversari, visto che per loro il potere non è sapere, come si diceva una volta a sinistra, ma semmai amministrare. Nonostante siano più simili di quanto immaginino alle militanti comuniste d'antan, visto che hanno abolito il confine tra spazio pubblico e privato, assoggettandosi alla supremazia della politica. E hanno il culto della personalità che, coniugato al femminile, si è trasformato in una devozione religiosa verso il Capo, come tutte chiamano Umberto Bossi. Ricordare che la più giovane presidente della Camera, Irene Pivetti, salita sullo scranno che fu di Nilde Iotti nel 1994, è stata leghista, può essere fuorviante. Eccetto il ministro dell'Interno Roberto Maroni, da sempre sostenitore della superiorità femminile (e infatti ha scelto una squadra esclusivamente rosa), nessun leghista teorizza con enfasi il principio della parità dei sessi, semmai crede nella capacità individuale di conquistarsi i galloni sul campo. Perché la Lega è il partito del fare e nella sua arena vince chi sa fare (e obbedire) meglio.
Certo, il programma per le elezioni regionali del Carroccio prevede un breve capitolo dedicato alle pari opportunità, in cui si danno indicazioni concrete per superare “gli steccati ideologici, mettendo da parte vetusti dogmatismi”. Ma non si parla mai esplicitamente della discriminazione che impedisce alle donne di frantumare il tetto di cristallo e avanzare in politica o in economia. Ci si limita a riassumere l'azione del governo per destinare finanziamenti ai nidi familiari ispirati al modello delle Tagesmütter (donne che ospitano a pagamento bambini da accudire), alla creazione di un albo di badanti e baby-sitter; bonus per mandare i figli in centri estivi e ludoteche e infine sostegni economici per favorire l'inserimento delle donne nel mercato del lavoro.
Lo ammetto, le militanti leghiste mi incuriosivano da tempo. Sin da quando sono “calate” numerose su Roma, dopo le ultime elezioni parlamentari. Mi sembravano un gruppo di scout prestate ai salotti della politica, quasi per caso. Sempre in disparte nelle fotografie di gruppo pubblicate sul quotidiano di partito, “La Padania”, apparivano come sagome sfuocate, presenze marginali, rimaste nelle retrovie di un partito in ascesa con una forte identità maschile.
Schiacciate sul fondo del palcoscenico della politica leghista, coperte e sopraffatte dalle voci baritonali dei loro colleghi. E così, l'estate scorsa, quando il dibattito politico si è ridotto a un derby fra i tifosi e gli avversari di Silvio Berlusconi che discutevano con passione morbosa di escort e di veline, e tutti osservavano Noemi o Patrizia D'Addario come fossero pesci in un acquario, ho spostato lo sguardo. In direzione opposta al casting della politica, appiattito sul velinismo. Così ho cominciato, quasi per gioco, da un altro casting – quello di Miss Padania –, dove la militanza si mescola all'esibizione del corpo femminile: le letterine padane fanno un percorso contrario rispetto alle veline-deputate e qualche volta finiscono nelle liste elettorali. All'inizio, lo ammetto, il mio approccio è stato beffardo. Avanzavo con l'entusiasmo di un etologo in cerca di specie rare. D'accordo, mi ero già occupata della Lega e ne avevo intuito la potenza politica e sociale, ma insomma guardavo le militanti leghiste attraverso la lente degli stereotipi comuni. Le consideravo anch'io un po' rtro, bigotte e bizzarre, confinate nei perimetri dei loro cortili padani. E invece sono finita in un universo parallelo, nel quale sono sprofondata con euforico, ma consapevole, gaudio. Sono diventata curiosa, ossessiva, vorace.
Ho attraversato comuni e province per conoscere questa nuova classe di amministratrici, che mi hanno confidato le loro battaglie contro assessori molto light. Sono stata ospite di Gianna Gancia, neopresidente della provincia di Cuneo, mentre cercava di dimostrare ai suoi elettori che non era solo Lady Calderoli. Ho passato due giorni con Francesca Zaccariotto, presidente della provincia di Venezia e sindaco di San Donà di Piave, che nella sua città ha messo più fiori che telecamere. Ho seguito il sindaco di Seriate, Silvana Saita, che ha rallegrato la sua cittadina alle porte di Bergamo con match letterari, vestita da boxeur. Ho girato per Viggiù, paese quasi spettrale al confine con la Svizzera, con Sandy Cane, afroamericana, sostenitrice di Barack Obama e sindaco leghista. Ho incontrato le deputate che sono arrivate a Roma, dopo anni di gavetta, e ogni martedì vanno nella città eterna con lo spirito di calciatori in trasferta. Ho seguito le associazioni delle donne padane, che organizzano convegni sul ruolo della donna ai tempi dei Promessi sposi, gite domenicali a mostre d'arte o a santuari, ma allo stesso tempo gestiscono sportelli sociali per aiutare le famiglie in difficoltà o reti di sostegno per mogli maltrattate. Sono andata a Trieste per incontrare Federica Seganti, agguerritissimo assessore alla Sicurezza del Friuli-Venezia Giulia. Ho voluto andare a Lendinara, dove vive Emanuela Munerato, un'operaia approdata al Parlamento da un'azienda tessile del Polesine. E alla fine, senza neanche rendermene conto, sono stata trascinata nel vortice animalista di Stefania Piazzo, giornalista della Padania che, in tandem con il sottosegretario al ministero della Salute, Francesca Martini, si batte per il benessere degli animali e combatte contro la Gomorra dei canili.
Lo ribadisco: mi hanno stupito. Sarà perché molte di loro amano la piazza, le liturgie collettive, i mercati, le osterie. O perché tutte, o quasi, mi hanno raccontato che per conquistarsi il trono, per piccolo che sia, hanno sempre trovato un maschio a sbarrare la strada, anche all'interno del loro stesso partito. O forse, ancora, perché amano gli animali, i boschi, i viaggi in camper, le piste ciclabili, l'energia pulita. E nelle loro amministrazioni si sono scontrate contro chi invece vuole costruire palazzi e centri commerciali. Trasversali, hanno soffiato agli ambientalisti il sole che ride per sostituirlo con quello delle Alpi, intercettando nel tragitto le frustrazioni degli operai, le angosce dei precari, le aspettative degli artigiani e dei piccoli imprenditori. Con un femminismo rielaborato, fatto su misura. E poi la maggior parte di loro non ama il bisturi né il silicone, e si sottrae volentieri ai sensori della videocrazia. Démodé, bigotte e spregiudicate. Tradizionaliste e anticonformiste. In ogni caso, con le dovute eccezioni, spesso autentiche, irregolari. Quasi immobili, avvinghiate alla terra, in un mondo che invece si muove freneticamente per poi ritrovarsi allo stesso posto. Confuso e smarrito, come è forse giusto che sia. Seppure in maggioranza laiche, hanno tutte una fede priva di dubbi. Perché sono convinte di rappresentare un cambiamento, di essere le pioniere di un ritorno alla politica. Quella fatta di ideali, per il bene comune. Anche se esclusivamente padano e federalista. Con un pauperismo per niente costruito a tavolino, che le ha rese popolari fra i ceti popolari. Con un senso eccessivo della legalità.
E un'ossessione per le regole, che loro vorrebbero ferree, anche se le aggirano ogni volta che possono per ingannare la burocrazia. Soprattutto se romana. E alla fine mi sono arresa davanti alla loro tenacia esistenziale, oltre che territoriale. Un po' meravigliata di fronte a donne intraprendenti, dinamiche, determinate, che hanno lasciato a casa i mariti a fare la balia ai figli per dedicarsi al bene supremo del partito. Prive, fra l'altro, del classico senso di colpa, del conflitto di coscienza che accomuna mogli e madri in carriera. Chapeau. E hanno ingentilito l'immagine della Lega nord, contribuendo al famoso salto di qualità, generazionale, culturale del Carroccio, di cui si parla da qualche tempo. Perché rappresentano il lato B, l'altra faccia della questione settentrionale e, quando lo ottengono, maneggiano il potere con disinvolta scaltrezza. E alla fine di ogni intervista, per pudore, per incapacità di comprensione di una società liquida, plasmata dal velinismo, mi hanno chiesto: “Ma devi proprio scrivere anche di Miss Padania? E' un po' imbarazzante…”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano