Il ritorno del fuoco sacro in occidente. CAPITOLIVM

Alessandro Giuli

Nella ricorrenza delle feste minervali, lustrato il bronzo fatale con olio al dittamo di Creta e pronunciata l'invocazione rituale alla Dea Armipotente – “da qualunque origine tu tragga il tuo nome, o Pallade, per i duci nostri l'egida sempre imbraccia!” –, Lucio Giulio Glanico incontra il maestro Giulio Pomponio Leto alle pendici del Campidoglio, lì dove la pietra vulcanica dei leoni di Iside sorveglia l'ingresso alla scalinata che conduce sulla sommità del colle.
Giulio Pomponio Leto – O mio Lucio, come lame dardanie snudate all'unisono – il sangue le muove nella difesa dei Penati iliaci – io e te ci ritroviamo al cospetto della rocca saturnia.

    MMDCCLXII ab Vrbe condita
    XIV ad Kal. Apr.
    ARMILVSTRIVM

    Nella ricorrenza delle feste minervali, lustrato il bronzo fatale
    con olio al dittamo di Creta e pronunciata l'invocazione rituale alla Dea Armipotente – “da qualunque origine tu tragga il tuo nome, o Pallade, per i duci nostri l'egida sempre imbraccia!” –, Lucio Giulio Glanico incontra il maestro Giulio Pomponio Leto alle pendici del Campidoglio, lì dove la pietra vulcanica dei leoni di Iside sorveglia l'ingresso alla scalinata che conduce sulla sommità del colle.

    Giulio Pomponio Leto – O mio Lucio, come lame dardanie snudate all'unisono – il sangue le muove nella difesa dei Penati iliaci – io e te ci ritroviamo al cospetto della rocca saturnia trasmessa come pegno d'imperio al figlio Giove Ottimo Massimo, signore del Campidoglio. Pochi sarebbero i giorni più fausti di questo per vedersi qui. Giacché oggi la Dea Glaucopide rinasce unigenita dalla sommità celeste di Iuppiter Pater e, quale sapienza in armi, la sua mente saggia presiede dall'alto ai riti marziali di Roma: le battaglie di primavera s'approssimano, Lucio. E come dice lo ierofante osirideo: “Iovis con Marte ogni potenza avviva…”. Ma ora incamminiamoci verso la vetta patria e intanto dimmi quale occupazione ti ha intrattenuto dall'ultimo nostro incontro avvenuto sul Palatino, sotto gli auspici di Giove/Folgore.

    Lucio Giulio Glanico – Salve a te, mio Pomponio. Come la prima Aurora, lasciando il letto di Titone, cosparge di nuova luce il marmo dei Gemelli equestri torreggianti di fronte a noi – stirpe giovia fin dal nome: DiosKouroi – così la tua voce rischiara l'animo mio e m'induce a parlarti. Innumerevoli volte, nelle ultime lune, sono venuto qui come si fa quando il richiamo delle origini ci muove a un dolce ritorno. Lo stesso trasporto ho provato sul monte Ida cretese, lì dove la nostra gente, partita dai lidi tirreni, giunse per propiziare la nascita di Giove nell'antro di Cibele. Una forza giovanile sempre viva irradia da qui, sopra le latebre ove Saturno fu riaccolto dal Re Giano prima che il tempo prendesse a scorrere, e del Campidoglio fece la propria dimora. Come testimonia il tempio cronio che racchiude la prima ara eretta da semidei al nume dell'aureo Dio.

    Pomponio – Dici bene, Lucio. Saturno, il Dio dalla pienezza lucente e sposo dell'Opifera Dea, fu in Italia prima di tornarvi profugo da Creta risalendo le acque dell'Albula fino al colle capitolino. Egli qui venne nella Reggia dei Numi Maggiori riconoscendo il proprio Olimpo, fece del Lazio la Saturnia Tellus, la terra ove latebre sicure lo accolsero, riunì nuovamente le stirpi disperse e le iniziò al mistero dell'età aurea in cui uomini e iddii si mescolavano nei tre regni. L'età dell'oro sotto la quale Saturno pose il proprio regno di placida pace e non gravato dal lavoro: Saturnia Regna. L'età che noi ricordiamo nella seconda metà di dicembre nella ricorrenza delle nostre feste Saturnalia, quando per pochi giorni ogni romano rivive nella Città del Sole fondata dal nume prisco sul Mons Saturnius. E quando ai più degni è dato penetrare nell'arcana natura della divinità. Il nostro ierofante ne parla così: “Ogni frutto. Ne vien da sotterra: / E rende opimo il Duomo. Ma quel Divo / Che bea ne' numeri che son sotterra. / Senza lavoro alcuno è Ricco-Divo”. In un suo attributo arcano letto secondo il cammino dell'aratro, SVTHI, che nella lingua dei progenitori pelasgi vale anche salute e salvezza, puoi rintracciarne una prova: SVOI-IOVS. Aggiunge Dionigi di Alicarnasso che “tutta l'Italia era sacra a questo nume e dagli abitanti veniva chiamata Saturnia come si trova dichiarato nei carmi sibillini e anche in altri oracoli resi dagli Dèi”. Il maestro pitagorico Pietro Negri aggiunge che un'ara alle pendici del colle capitolino era stata dedicata a Saturno già prima della guerra troiana, lì dove l'antica popolazione di Ciclopi saturnii – i Giganti dalla vista circolare – ha occultamente trasmesso la tradizione primordiale dell'aratura e della navigazione apprese dal Dio. E lì dove oggi sono le vestigia del suo tempio sotto il quale Roma ha voluto fosse al sicuro il proprio erario. Quando immagini l'età saturnia, Lucio, non dimenticare l'insegnamento tràdito nel secolo scorso da Evelino Leonardi a Ruggero Musmeci-Ignis, da pitagorico a pitagorico, su “quella lontanissima e nostalgica Ruma, centro della primordiale sapienza occidentale”. Così prosegue Leonardi nella sua lettera: “Da Ruma – voce primitiva di mammella trassero il latte Rom e Rem, l'uomo e la donna: non il latte materiale, ma quello sapienziale, il primo nutrimento. Da Ruma venne Rupa, da questa Lupa e la leggenda relativa”. Che più?

    Lucio –
    Questo, Pomponio. Sempre Pietro Negri ricorda come Varrone definisse Saturno così: Sator, il coltivatore inaugurale, signore dell'ar-atro che dissoda le zolle per esporle alla fecondazione del raggio solare e le compone nella prima ara destinata ad accogliere il fuoco rituale: “Come la terra si apre grazie all'aratro per poter accogliere il seme gettato dal coltivatore e farlo fruttificare, così il corpo si apre per concepire l'anima, e la materia diviene in tal modo la mater dell'anima”.
    Pomponio – Non avrei saputo dire diversamente, Lucio. Ma continua.
    Lucio – Continuerò, Pomponio, provando a proiettarmi
    a Creta per trarre un primo frutto dalla riflessione nostra sulla sapienza saturnia. Nella terra di Minosse, ove la rinascita di Giove inaugurò una nuova età protetta dal corteggio dei Cureti scutati e danzanti, il figlio di Saturno è rappresentato in fattezze giovanili, esuberante di vita impetuosa, circondato da una corona arborea e accompagnato da un gallo. Il suo nome, memoria di origine antichissima, è Velchanos. Lo si direbbe perciò parente del Velchans etrusco e del Vulcanus Iovialis che accompagna gli Dei alle nozze di Mercurio e Filologia, secondo la narrazione del nostro Marziano Capella, quasi fosse un attributo inaugurale del Giove Ottimo Massimo.

    Pomponio – Tu costeggi un secreto abissale, mio Lucio. Accompagnami dunque lungo il corridoio sotterraneo, vestigio di un'antica via, che dalla piazza conduce alla casa di Ve(d)iovis. Da qui, dove Romolo volle l'asilo per le sue genti in armi, la vista del Foro di Roma si aprirà vasta a noi e tutto sarà più chiaro.
    Lucio – Ti accompagno.
    Pomponio – Ecco: la statua marmorea che qui vedi, se pure sfregiata da mani empie e bestiali, ti restituisce la vista del Nume italico avito. Occupava la cella del tempio, copia di quella che in origine era stata appena sbozzata da un legno di cipresso. Ve(d)iovis prorompente di energia gioviale, dalle trecce lungochiomate, il torso lucente e l'incedere maschio, è pura forza saettante attinta dalla matrice celeste che diede origine alla stirpe Romulea. La Gens Iulia, come sai, gli è devota. Giacché, come il Padre Saturno diede luce a colui che sarebbe divenuto il Re degli Dei e degli uomini, così il padre Enea – figlio di Venere e del fuoco terrestre impersonato dal nobile Anchise – ha concepito dalla propria fiamma il principe Ascanio realizzatosi nell'apoteosi col nome di Iulo: signore di Albalonga e decoro del seme troiano. Ora, Lucio, seguimi con attenzione.
    Lucio – Ti seguo.

    Pomponio – Custode di Ve(d)iovis, da noi così spesso incontrato nei nostri conversari, è la Gente Giulia poiché Julius, nella forma primitiva di Juvilos, nella lingua degli Osci sta per capostipite della Gens Diuvilam, la Gente del Padre Dioves. Ora, quale nipote di Venere, dunque sangue giovio, il ragazzo Ascanio diventa a pieno diritto Iovilus-Iouvolus, cioè Iuppiter Iulius, o giovane Giove. Ma quando accade questo?
    Lucio – Accade quando – secondo una variante della mitistoria – Ascanio uccide in duello l'empio Mezenzio, usurpatore della regalità etrusca di Agylla, spregiatore degli Dei fattosi arruolare contro gli Eneadi a patto di vedersi consegnata la primizia delle vigne latine.
    Pomponio – Giusto, Lucio. E sia Enea sia Iulo, sangue identico in persone distinte, vincono il tenebroso Mezenzio poiché offrono la decima di Bacco al sommo Giove in cambio della vittoria. Qui, fa' attenzione, comincia già a svelarsi il mistero della Victoria di Roma. Attraverso l'offerta di vinum, gli Eneadi attraggono la venia di Venus, la forza necessitante che sola può evocare l'intervento risolutore di Iuppiter. Così Ascanio/Iulo può dunque risalir li rami della stirpe facendo voto a Giove attraverso l'essenza misterica venusiana del sangue terrestre condensato nei neri grappoli latini. Non a caso, Lucio, i nostri padri ci hanno insegnato che a Roma l'influenza estatica del Padre Libero – il Dioniso dei Graeculi – è sottoposto alla rigida tutela di Giove, o Iuppiter Libertas: segno palese che a nessun romano è consentito uscire dal senno proprio, né alle matrone questo è possibile senza per ciò stesso diventare adultere in quanto possedute da Bacco. Ma c'è di più, Lucio, e per conoscerlo devi rappresentare nel tuo cuore l'immagine di un cratere, sul tipo di quelli che nei nostri sacri convivi usiamo per mescere il dono di Bacco.
    Lucio – Così faccio. E ti ascolto.

    Pomponio – L'avo Iulo, proiezione storica
    del nostro Ve(d)iovis, secondo quanto narrano i Maggiori nostri in caratteri ellenici è anche Iobòlon, vale a dire sagittandi peritus, maestro nel saettare con l'arco proprio come il Nume del Dio Giulio che, ci dice Aulo Gellio, sagitta tenet. Così, del resto, è raffigurato in alcune monete che lo immortalano mentre scaglia la triplice freccia. Così, inoltre, come luce del firmamento che si rinnova quando la notte precipita, i nostri Padri Latini salutavano sgomenti l'eruzione fulminea del Vulcano albano, lì dove avrebbero consacrato il tempio di Iuppiter Latiaris. Ora, Lucio, converrai con me che la maggior parte del suolo romano e laziale da noi calpestato e utilizzato per le nostre costruzioni deriva dalle lave condensate del Vulcano albano.
    Lucio – Convengo.

    Pomponio – E di dove provengono codeste lave?

    Lucio – Dal cratere del Vulcano, così come il vino che mesciamo nei crateri durante i nostri sacri convivi. Ora comprendo, Pomponio, la sottile legge di analogia.
    Pomponio – Come nel mag-ma vulcanico è contenuto il Mag, voce arcana indicante la causa di ogni potenza e che in lingue dell'antico oriente significa la sapienza perfettissima di una volontà possente, così nel vino e più ancora nel miele (nutrimento saturnio) è presente un segreto del comando giovio. Non fu forse inebriando Pico e Fauno che il re Numa Pompilio riuscì a evocare la manifestazione di Giove Elicio o folgoratore, ottenendone in dono dal cielo (pegno d'imperio) lo scudo bilobato chiamato ancile? E, a risalire ancora, non fu forse inebriando Saturno di miele ribollente che fu possibile la trasmissione della potestà da questi a suo figlio Iuppiter?
    Lucio – E' così.

    Pomponio – Ma ora rifletti, Lucio, su queste parole che non ti suoneranno del tutto nuove. Nel lituo augurale di Romolo, sotto la forma di un bastone dal vertice ricurvo, è significato il mistero della cosmogonia nostra: un nucleo igneo centrale dipartitosi dal Sole, roteante in forma di fuso negli abissi sottratti al Caos, coagulatosi infine intorno a un asse del quale il lituo medesimo è il risultato sensibile. Questo è il moto primigenio governato dal fuoco celeste avviluppato alla terra nell'intelligenza divina del Dio Ve(d)iovis. Ma quale immagine evoca, in te, questo moto?
    Lucio – Se pure non sono certo, ti dico l'immagine di una spirale.
    Pomponio – Sii certo, Lucio, perché di questo si tratta. Ma ora dimmi, Lucio, che altra immagine evoca in te un movimento ripetuto che dalla medesima cellula ignea compone un'altra spirale nella direzione inversa a quella dalla quale si è formato il lituo romuleo?

    Lucio – L'immagine di una doppia spirale, simile in tutto a quelle che decorano i templi primigenii di Malta a forma di teschio, o a uno scudo bilobato, oppure al segno che i moderni utilizzano per raffigurare il numero otto.
    Pomponio – La tua immaginazione è degna del migliore elogio, Lucio. E bisogna ripagarla con la potenza del vero cui s'approssima con tanta sveltezza. Gli scudi bilobati, come l'ancile di Marte donato a Roma da Giove sotto il regno di Numa, sono la difesa del Sommo Dio affidata alle mani dei sacerdoti/guerrieri chiamati Cureti sull'Ida, Selii sul monte Saos di Samotracia (seconda patria del capostipite pelasgo Dardano) e Salii nell'Urbe nostra. Ma sono al contempo il segno della trasmissione celeste del principio sovrano. Disegnando la loro forma scutata roteano le magnanime api, anime virtuose, intorno a Giove nascente e intorno al Sole. Nella loro scutata forma incedono i mortali, combinando il movimento della gamba destra col braccio sinistro e della gamba sinistra col braccio destro. Allo stesso modo gli uomini contemporanei, creature di un giorno insuperbite dalla superstizione scientifica, ti dicono che si muovono i globuli rossi nelle arterie del corpo umano oppure, meraviglia per noi scontata, che così si moltiplica ogni cellula: facendo del circolo una ellisse, e dell'ellisse uno scudo ansato ai fianchi lungo l'asse dell'equatore, fino alla divisione della sua essenza. E che cos'è questa, Lucio, se non la rappresentazione del passaggio dal tempo immobile, circolare e saturnio custodito da Giano a quello ellittico nel quale la forza giovia comincia a scorrere lungo il doppio arco dello Zodiaco? Quando poi l'ellisse si contrae a forma di scudo, ecco che la sapienza e la potenza si polarizzano predisponendosi alla loro trasmissione cellulare. Questo è il moto d'irradiazione che dalle sedi tirrene ha civilizzato il Mediterraneo, questo il moto di ritorno delle nostre genti. Ecco donde proviene il simbolo cretese inciso su una lamina d'oro a forma di scudo nella quale lo swastika sinistrogiro apre la via al ciclo nuovo. Ora comprendi, Lucio, il significato dell'ancile di Numa?
    Lucio – Un ritorno.

    Pomponio – Il ritorno. Ma questo lungo discorrere non ci ha impedito, noto, di affacciarci dalla casa di Ve(d)iovis alle pendici del Campidoglio. Osserva dunque sotto di noi il Volcanal, la sede del Nume di Velchanos intorno alla quale gli avi nostri vollero erigere le statue di Pitagora (colui che conduce attraverso l'oracolo Pitico) e di Horatio Coclite, nel cui nome è implicito lo sguardo ciclopico (Kyklops) raggiunto da colui che ha potestà sul raggio solare (Hora) della potenza generativa (Maia, da Mag), fecondatrice e benefica di Vulcano. Non trovi forse qui, Lucio, il tratto tangibile che collega il Dio supremo dell'Ida con l'altura sacra del Campidoglio?
    Lucio – Il fuoco sacro di occidente, Velchanos, propagatosi fino a Troia, passando per Malta e Creta e la Tracia insulare e continentale, secondo il ritmo della spirale febea, e infine ritornato nella sua sede originaria con Enea e Iulo-Ve(d)iovis.
    Pomponio – Ecco perché il Nume cretese, Velchanos, è raffigurato con un gallo sulle ginocchia: l'emblema dei fratelli di Circe, i Figli del Sole. Ma ora non pensi, Lucio, che sia giunto il momento di conoscere Iuppiter nella sua forza matura e invitta collocata sul Campidoglio dai re Tarquini, prole di Tarconte, alleato di Enea? E che cosa sai al riguardo? Parlamene mentre c'incamminiamo verso il suo tempio ancora visibile lì dove un tempo sorgeva l'ara quadrata della Gens Iulia.
    Lucio – Lo penso, Pomponio. Al riguardo so che dal Diciassettesimo secolo prima dell'èra volgare, dove poi sarebbe sorto il tempio di Giove Ottimo Massimo, era già presente uno spazio a forma di ellisse nel quale gli avi dominavano il fuoco praticando la metallurgia. In età monarchica, da quattro regni essendo state ridestate le mura di Roma dalla sacra Tellus, il sovrano Tarquinio Prisco avviò la costruzione di un santuario monumentale che sarebbe stato infine inaugurato durante la Repubblica.

    Pomponio – Bene. Ricordi, Lucio, come principiò
    la costruzione?
    Lucio – Gli antichi narrano che l'area destinata all'edificio sacro risultava abitata da numerosi Numi le cui are erano state consacrate fin dai tempi di Romolo e Tito Tazio. Sicché gli auguri furono tenuti a interrogarli per sapere se acconsentivano a essere spostati di sede. Soltanto due di questi non accolsero l'invito: Terminus e Iuventas, i quali furono perciò inglobati all'interno del tempio. Il primo, non tollerando un tetto sopra di sé, obbligò gli architetti a praticare un buco sopra la volta; la seconda si accompagna a Minerva Tritonia nella sua cella alla destra del Padre Giove seduto sul trono, il volto rosso di minio e nella mano potente la triplice saetta (alla sua sinistra è la cella di Giunone Regina).
    Pomponio – Null'altro, Lucio?
    Lucio – Sì, Pomponio. Gli antichi narrano anche che lo scavo delle fondamenta templari venisse interrotto da un prodigio: il disvelamento di un “capo umano dall'aspetto integro” (caput humanum integra facie) sul quale erano incisi arcani caratteri etruschi. Alcuni vogliono che il Capitolium prendesse il proprio nome dal capo di quel tempo, caput olim. Altri aggiungono che quel capo apparteneva a un tirreno Vulcentanus chiamato Olus o Aulus: da cui Caput-Olii o Caput-Auli. In ogni caso quel prodigio obbligò gli auguri romani a consultarsi con il magister tirreno Olenus Calenus il quale, sia pure suo malgrado e dopo varie dissimulazioni, fu tenuto ad ammettere che quella scoperta lasciava presagire eventi fortunatissimi e perenni: il sito sul quale sarebbe sorto il tempio di Giove Ottimo Massimo poneva la stirpe romana al di sopra delle genti tutte. Vale a dire Caput Mundi. E non è tutto.

    Pomponio – Ma per adesso fermiamoci, Lucio, e riflettiamo su quanto hai correttamente riportato. Terminus, come sai, è il Nume di pietra che presiede alla stabilità dei confini. A lui, Dio principiale, all'alba del ventitreesimo giorno di febbraio si offrono frutta, vino, favi di miele e focacce. In più lo s'inghirlanda affinché il tempo circolare trovi un asse intorno al quale scorrere. Ma il Terminus capitolino, mio Lucio, è di più: come asse cosmico, Terminus mette in collegamento il regno terrestre a quello celeste alimentandosi delle energie vitali provenienti dal regno chtonio. Come centro numinoso intoccabile egli è Iuppiter Lapis, il Giove di pietra che consacra i giuramenti. Come centro d'irradiazione, Terminus precede e avvia la divisione dell'anno in mesi lungo l'ellisse capitolina sulla quale il tempio giovio ha trovato fondamenta. Ma sopra tutto Terminus è l'Immobile Saxum che dà forma e forza al nome del colle sacro, il centro gravitazionale di presenze abissali che lì si condensano come Caput Velchitanum (cioè sacro a Vulcano) e trovano un Mundus ove fissarsi nella loro inamovibilità come pegno della Aeternitas Romae. Si tramanda che qui, in effetti, le nostre stirpi primigenie trovassero scampo sulla vetta lasciata intatta dal cataclisma italo: in un tempo senza date, bocche di fuoco vulcanico albano tuonarono sconvolgendo la terra, Nettuno si alzò terrifico e sommerse con le sue acque la grande Italia atlantidea dalla forma d'una foglia di quercia. Tranne il Capitolium, che nella sua fissità regale divenne asilo dei padri aborigeni, mentre i fratelli aberrigeni si dispersero tempestosamente nel Mediterraneo come le membra di Dioniso-Orfeo-Osiride. Tutto ciò prima del ritorno. Seguimi bene Lucio, ora puoi comprendere il significato del capo scoperto nelle fondamenta templari. Teschio fisico di ossa non calcinate e sangue vivo, ma anche santuario di roccia a forma di cranio, secondo l'architettura dei nostri progenitori ciclopici devoti al culto del fuoco cabirico e suoi araldi civilizzatori. Tesqua sono detti tali santuari presenti in gran numero a Malta e in luoghi indicibili dell'Italia e nella Tracia: all'esterno disegnano un caput, all'interno si sviluppano in forme bilobate e secondo il ritmo ternario: Fanum-Templum-Arx. Terminus è dunque il loro segnacolo. Ma forse, Lucio, ora devi dirmi qualcosa della Dea Iuventas.
    Lucio – Fra i prischi Numi ai quali è affidata la tutela del nome sacro di Roma, Iuventas presiede alla educazione e alla formazione fisica, morale e spirituale della gioventù italico-romana. La sua ara propizia la “primavera della vita” capitolina, la sua bellezza, la fioritura del suo vigore marziale, la fratellanza in armi simboleggiata dai divini Gemelli figli di Giove e di Leda: i Dioscuri. Iuventas è una promessa di Vittoria.
    Pomponio – Dici il giusto, Lucio, e lo dici in modo appropriato. Sei perciò pronto a raccontarmi di un altro prodigio riguardante il tempio di Giove Ottimo Massimo.

    Lucio – Lo farò Pomponio. Si narra che l'ultimo dei Tarquini avesse ordinato ad alcune maestranze di Veio, riconducibili al grande artista Vulca, la fattura di una quadriga fittile con la quale ornare la sommità del timpano templare giovio. Al momento di completare la terracotta, tuttavia, la quadriga crebbe a dismisura fino a sventrare la fornace e le mura della bottega. Gli aruspici tirreni giudicarono il fatto presago di felicità e potenza incommensurabili per il popolo che possedesse la quadriga. Ciò che bastò affinché i Veienti s'illudessero di poterla trattenere, finché un ulteriore prodigio non li consigliò a cedere: dopo una corsa equestre, a Veio, i cavalli imbizzarriti della quadriga vincitrice d'improvviso assumono il comando e dirigono verso Roma dove, sbalzato a morte l'auriga all'altezza delle mura, entrano e salgono fino al Campidoglio. Qui compiono una triplice corsa lustrale intorno al tempio di Giove Ottimo Massimo. Tanto bastò perché Roma riavesse la sua prodigiosa quadriga di terracotta.
    Pomponio – Bravo, Lucio, il tuo racconto è esatto. Ma non pensi forse che nella quadriga prodigiosa sia racchiuso un augurio splendido e fortunato connesso proprio con la gioventù romana?
    Lucio – Lo penso.

    Pomponio – Gli Dei nostri, a cominciare da Iuppiter, sovente vengono rappresentati nell'atto di trionfare sopra una quadriga lanciata al galoppo da cavalli posseduti dal Nume. Così sopra tutto Victoria, con la destra protesa nel porgere la corona di gloria. E che cos'è, dunque, Iuventas, se non la riserva vitale mediante la quale ciò che Terminus fissa a Roma Iuppiter Triumphator può propagare a ogni latitudine del vasto mondo? Nella qualità di Immobile Saxum Propagator, Giove Ottimo Massimo è la suprema e inestirpabile potestà di fuoco (è Vulca-nus a ignificare la quadriga nostra) consegnata dai Fati alla stirpe Romulea affinché questa possa irradiarla fin dove giungerà il volo di un'aquila romana. Ecco, Lucio, una eccellente ragione per la quale né Terminus né Iuventas possono abitare lontani da Iuppiter. La stessa ragione per la quale l'aureo Mons Capitolinus è inespugnabile se non mediante un tradimento in cambio di oro. Ma oro non godibile: come quello che costò la vita a Tarpeia e che, da premio di un'empietà, si trasformò nello strumento della lapidazione inflitta sulla rupe capitolina a lei dedicata. Lì noi puniamo i traditori e, memori del duce Camillo, riscattiamo non con l'oro ma col ferro funesto la libertà romana che venga insidiata da chiunque voglia imitare il barbaro Brenno.
    Lucio – Ora sì, ora mi è chiaro.
    Pomponio – Ma adesso volgi il tuo sguardo verso l'Altare della Patria che i nostri ultimi re vollero inaugurare a Roma, nell'anno 1911 dell'èra volgare, come simbolo dell'Italia redenta e novello Caput Mundi. Che cosa vedi alle sue sommità?
    Lucio – Quadrighe di bronzo.

    Pomponio – Arrivarono non molti anni dopo la conclusione dell'Altare. Furono il presagio di un Impero che stava tornando sui Colli fatali di Roma. Un nostro sodale così ne scrisse nel marzo 1925 dell'èra volgare: “Da quanti secoli Roma non aveva più visto quadrighe trionfali sui fastigi delle sue moli monumentali? Una quadriga di bronzo dorato rifulgente nel sole sopra un arco, un tempio, una reggia, fu il sogno di ogni architetto dell'antichità. L'Urbe imperiale ne doveva contare parecchie. Il nome di aurea dato a Roma nacque molto probabilmente da questi gruppi scultorei, che rilucevano sopra il mare di case e prime apparivano a chi mirasse la città dall'alto del Gianicolo e dal clivo di Cinna o Monte Mario, come diciamo ora. Tramontato l'Impero, la quadriga tramontò anch'essa, perché diventò un emblema troppo costoso per i laici e troppo profano per i religiosi. Ma appena Roma riebbe il suo governo civile, ritornò in auge spontaneamente il principale dei motivi ornamentali. […] Dall'una e dall'altra ripa tiberina i destrieri dei carri trionfali scalpiteranno annitrendo per il cielo di Roma. Ritorna sull'Arce Capitolina il segno massimo della Vittoria divina”. Dopodiché, rammentato il doppio prodigio accaduto a Veio, il sodale conclude: “Certo, per evitare una simile facezia, i triumviri del Vittoriano hanno voluto i forni a Porta Maggiore. […] Prima del 1911, pareva che ci vergognassimo di quel simbolo trionfale, come di cosa di gran lunga superiore ai nostri meriti. Trionfo? E di che? Sì, della patria liberata e riunita; ma pareva che, più che la nostra virtù, ci avesse favorito un destino generosamente propizio in compenso di averci fatto soffrire tre secoli di servitù straniera. Quindi l'allegria dell'Evoè o del Nume, che ricordava ai Quiriti una clamorosa vittoria contro i loro nemici, era giudicata come immeritata, o peggio, come il prodotto d'una cattiva rettorica. Oggi lo scrupolo d'una soverchia modestia non ha più ragione. La Libia, le Nuove Provincie e le grandi prove della guerra mondiale giustificano ampiamente le tre quadrighe. Avanti, o Roma novella! Sume superbiam quaesitam meritis, come diceva il tuo vecchio Orazio. Innalza le quadrighe d'oro, ritorna l'Aurea Roma”. Ecco, mio Lucio, non diremo forse che la rinascenza dell'Urbe nostra sia strettamente legata alla capacità di evocare, rendere presente e fissare la Vittoria sul sacro Colle capitolino?
    Lucio – Lo diremo.

    Pomponio – Ora ascolta bene, Lucio, ti racconterò una storia che conosci soltanto in parte. Il Campidoglio, specchio romuleo del monte Albano sacro a Giove Laziare, e l'Altare della Patria sono il polo magnetico delle forze che propiziarono l'Unità d'Italia e il suo compimento ultimo attraverso la Quarta guerra d'Indipendenza, la Grande Guerra. Non molti anni dopo il trionfo del Piave e di Vittorio Veneto, nel 1925 dell'èra volgare, il nostro sodale assistette all'inaugurazione more etrusco della statua di Roma, l'Alma Dea, che sovrasta e protegge l'Arca del Milite Ignoto. Parole sue: “Ludite, Cives: allegri, cittadini, Roma ha trovato casa. Così speriamo sia di tutti i romani”. Saprai anche, Lucio, che quel rito inaugurale era stato predetto nello scritto di una misteriosa figura nota con lo ieronimo Ekatlos, l'eroe saturnio armato di aratro. Nelle sue parole – “Oggi si lavora al Vittoriale, nella cui nicchia centrale sarà collocata la statua di Roma arcaica. Possa questo simbolo rivivere in tutta la sua potenza! La sua luce, splender di nuovo!” – si adombrava il compimento di un'azione nell'immanifestato risalente al 1913 dell'èra volgare: “La guerra immane, che divampò nel 1914, inaspettata per ogni altro, noi la conoscevamo. L'esito, lo conoscevamo. L'una e l'altro, furono visti là dove le cose sono, prima di essere reali. E vedemmo l'azione di potenza che una occulta forza volle dal mistero di un sepolcro romano; e possedemmo e possediamo il breve simbolo regale che le aprì ermeticamente le vie del mondo degli uomini”. Quattro anni dopo, il mondo della manifestazione ne avrebbe mostrato i frutti: “1917. Vicende varie. E poi il crollo. Caporetto. Un'alba. Sul cielo tesissimo di Roma, sopra il sacro colle capitolino, la visione di un'Aquila; e poi, portati dal suo volo trionfale, due figure corruscanti di guerrieri: i Dioscuri.
    Un senso di grandezza, di resurrezione, di luce.
    In pieno sgomento per le luttuose notizie della grande guerra, questa apparizione ci parlò la parola attesa: un trionfale annuncio era già segnato negli italici fasti”.
    Lo ricordi, Lucio?
    Lucio – Lo ricordo, Pomponio. Fu l'ultima ierofania visibile dei Gemelli vittoriosi che avevano accompagnato le legioni nostre alla vittoria del lago Regillo, a Pidna e forse altrove.
    Pomponio – Anche altrove, ovunque “il breve simbolo regale” s'accendesse. Ammetterai dunque con me, Lucio, come Ekatlos ci confermi il legame tra Roma, Victoria e il Capitolium: stabilito per decreto da Giove Ottimo Massimo e alimentato dal Nume dei Gemelli suoi figli.
    Lucio – Lo ammetto senz'altro.

    Pomponio – Dunque ascolta ancora, anzi muoviti: ti sto conducendo nell'anno 101 avanti l'èra volgare. Ti sto portando in una grande pianura dove sarebbe nata la città della Vittoria: Pollentia, tra il monte della Vittoria e il monte Capriolo, dove sono i Campi Raudii. Qui i barbari progenitori dei soldati asburgici furono arrestati e travolti dalle legioni di Caio Mario e Sesto Giulio Cesare, noto come Quinto Lutatio Catulo. Il primo fu il grande duce latino e zio acquisito di Caio Giulio Cesare; il secondo fu cugino al padre del Divo Giulio. Osservali con me, nella notte prima della battaglia così lucidamente indagata da uno studioso moderno (Pietro Barale). E' appena rinata la luna nel ventisettesimo giorno del mese quintile, gli auguri al seguito di Mario hanno tracciato le linee del mundus, una porzione di cielo è stata delimitata, divisa in quadranti e trasferita in terra. Gli iddii superi e quelli inferi occupano il posto assegnato. S'approssima l'alba, sull'orizzonte di Borea si alza la luce di Marte nella costellazione dei Dioscuri; poco più verso levante s'è levata la scintilla di Venere, madre degli Eneadi. Nulla è lasciato al caso: i barbari non lo sanno, ma vedranno ardere il cielo di fronte a loro, combatteranno con le saette di Febo Apollo confitte negli occhi. I consoli, stretti ai fianchi dal cinto gabino, il capo velato, le mani ferme sulle are, compiono il rito sacrificale di guerra e pronunciano il verbo fatale. Il nemico è votato agli inferi nell'ecatombe di sangue offerta ad Apollo Hekato(mbeio)s, il Dio Iobòlon: sagittandi peritus, maestro nel saettare con l'arco. Le viscere della vittima danno conferma certa di quanto appena scritto nei fasti romani. Hostia macta est. Quod bonum, faustum, felix fortunatumque sit. Rimbomba ritmato il fragore del cozzo di aste e scudi. Mars vigila! Mario grida rivolto ai suoi legionari: “La Vittoria è mia!”. La Vittoria fu nostra. Le legioni di Roma combatterono protette a destra dal monte chiamato Albano (come quello latino) la cui vetta, come dimostrano le selci levigate ivi scoperte, era dedicata a Giove Tonante; a sinistra fu d'aiuto il Nume del fiume Tanaro. La cavalleria dei barbari Cimbri fu sbaragliata in campo aperto dai nostri Dioscuri, la fanteria venne inseguita e massacrata sotto il monte Capriolo, dove la tradizione locale piemontese ricorda a perpetua memoria “un enorme tumulo di cadaveri d'Alemanni”. Nei due luoghi decisivi della battaglia ancora oggi sono i resti dei monumenti eretti dai consoli con i trofei delle armi sottratte ai nemici: due turrigli cilindrici a base quadrata, consacrati more etrusco e quadripartiti secondo un'arcana mappa stellare. Il primo turriglio è detto “della Vittoria” e appartiene a Mario: dal punto d'osservazione posto ad Austro incontra Terminus, il cardine dell'axis mundi visibile nella Stella Polare, a mezzanotte punta verso il transito dell'Orsa Maggiore, i Septem Triones che descrivono il percorso dell'aratro; da Borea si coglie il Sole al suo meridiano durante il ciclo dei Ludi Romani di settembre, tra la festa di Giove Statore e quella di Giove Ottimo Massimo; lungo l'asse che congiunge il Volturno al Favonio il Sole tramonta tra il giorno dei sacrifici a Hekate, alla fine del mese di ecatombeone, e l'equinozio di autunno. Il secondo turriglio è detto “di Pollenzo” e appartiene a Lutatio Catulo, che correttamente Plutarco appella in greco così: Katlos. E' dedicato alla Dea Fortuna Huiusque Dei, come il tempio che il medesimo console avrebbe poi consacrato nell'Urbe. Circa due miglia e mezza separano i turrigli, lungo “una linea sacra e invalicabile tracciata con l'aratro”.  E' questo il segno tremendo inciso nell'etere dal Sator nelle cui mani “il vomere attrito nel suolo balenò come un'arme” a presidio dei patrii confini, come dice il nostro Vate adriatico. E' il frutto di una potestà rituale saturnia che gli Egizi, fratelli minori civilizzati dal Mercurio/Thot generato dall'italico Pico, chiamano Heka e rappresentano in caratteri geroglifici con “il breve simbolo regale” del lituo nilotico: acuto come il vomere etrusco.  Il nostro studioso moderno aggiunge che, nella città fatta erigere dai consoli dove le aquile avevano vinto i barbari, erano un santuario di Victoria, un Capitolium e un Asylum: “Quindi Pollentia, che rimase fisicamente congiunta al propugnacolo primigenio, attraverso la sua estensione andava così a scavalcare l'ancestrale limite che, pari ai cippi e alle vicende di Romolo e Remo, ne separava la vita dalla morte”. Nello stesso luogo altre mani, meno degne, per spargere ancora sangue germanico si sarebbero poi servite delle spaventose energie di guerra “catturate” dai turrigli di Caio Mario e Lutatio Katlos. La famiglia di quest'ultimo – giova ricordarlo – ebbe sul Palatino una dimora gentilizia poi divenuta la casa di Ottaviano figlio di Cesare. Domus Iulia. Di più non è dato qui riferire. Ma ora torniamo al presente, Lucio, affinché non si dica di noi che il ricordo delle glorie trascorse ci impedisce di scorgere le nostre consegne future. Avrai compreso finalmente come Marte sia nella destra di ogni uomo che mediante Venere sappia risalire al Padre degli Dei e dei mortali venerato sul Campidoglio. Qui dove le insegne di Roma hanno sede d'inamovibile sapienza dalla quale s'irradia potenza implacabile (non scordare l'ancile di Numa). Qui dove i duci nostri celebrarono trionfi scolpiti nel libro del Fato. Qui dove il sommo Publio Cornelio Scipione (Scipio significa scettro), tra una battaglia e la successiva, s'intratteneva in casto silenzio con l'immagine crisoelefantina di Giove Ottimo Massimo (mai era più operoso di quando era in ozio e mai si sentiva meno in solitudine di quando era solo al cospetto del Nume). Qui, uso a non fare cosa pubblica o privata prima di aver preso consiglio in Campidoglio, Scipione divinò l'Imperium di Roma, ricevette la consegna di avvivarlo e, rossovestito, dal Campo di Marte tornò vincitore di Annibale per depositare la corona trionfale sulle ginocchia del Re Capitolino.

    Lucio – “Iovis con Marte ogni potenza avviva…”.
    Pomponio – E' così. Eppure ricorda che lungo la Via Romulea ti si faranno incontro non soltanto barbari e atei vagabondi incalzati dalla sferza di un sole divoratore, ma anche distrazioni e scorciatoie figlie dell'impazienza: ti offriranno non senza chiederti in cambio, lo faranno alle spalle dei tuoi legionari. Chiediti a quel punto se sia più degno e preferibile l'utile senza onore o l'onore prima e sopra tutto.
    Lucio – L'onore prima e sopra tutto.
    Pomponio – Bene, ragazzo mio. I Fati troveranno la via. Ma vedo che ruota frattanto il cielo e dall'Oceano si leva la notte avvolgendo nella sua vasta ombra la terra e la volta celeste. E' ora di congedarci. Che Marte ti sia propizio, Lucio. Vale!
    Lucio – Che Marte ci sia propizio, Pomponio. Vale!