Per entrare nella storia la Roma doveva vincere il derby
Non succede, ma se succede
Lungo la strada che porta a Trigoria qualcuno ha scritto “viale degli eroi”. La gente si ferma e lascia quello che vuole: drappi, sciarpe, bandiere, foto. Roma si gode un momento che non è sport. E' il ritorno dell'epica. Perché qui non ci sono risultati, rigori, quattro-quattro-due, diagonali. Si supera tutto perché si è dentro un sistema più grande, qualcosa che ricorda il poema antico. Allora eroi, gladiatori, condottieri, generali, battaglie, nemici: il linguaggio si adatta a quello che c'è, usa paragoni che funzionano in un mondo che non vede l'ora di ritornare su se stesso: il passato, la gloria, l'impero.
Lungo la strada che porta a Trigoria qualcuno ha scritto “viale degli eroi”. La gente si ferma e lascia quello che vuole: drappi, sciarpe, bandiere, foto. Roma si gode un momento che non è sport. E' il ritorno dell'epica. Perché qui non ci sono risultati, rigori, quattro-quattro-due, diagonali. Si supera tutto perché si è dentro un sistema più grande, qualcosa che ricorda il poema antico. Allora eroi, gladiatori, condottieri, generali, battaglie, nemici: il linguaggio si adatta a quello che c'è, usa paragoni che funzionano in un mondo che non vede l'ora di ritornare su se stesso: il passato, la gloria, l'impero. Qui, ora, a Roma, c'è una sceneggiatura che riporta nella leggenda immutabile del mito. Il derby è la fine di un viaggio, come se qualcuno abbia adattato allo spettacolo moderno schemi e logiche antiche. Allora prendi il campionato della Roma e se ti metti a leggerlo senza la sovrastruttura della modernità globalizzata scopri che in fondo questa città non è mai cambiata: ha bisogno di furore, di sfide, di avversari, di petti gonfiati per mostrare l'orgoglio: quella trama da poema adattato ai tempi. Così la Roma era partita come la squadra di una città ferita: una grande addomesticata dalla malasorte, dalla sventura e dai debiti, come se l'impero di qualche tempo fa stesse cominciando un lento ridimensionamento successivo alla grandezza dello scudetto 2001. Era ultima la Roma a un certo punto, ed è da lì che parte il poema: dal generale che l'aveva tenuta su per molti anni che se ne va.
Primo settembre 2009: Spalletti annuncia le dimissioni, la resa di un uomo che sa di non avere più nulla da poter dare, la sconfitta di un signore amato dalla squadra, dalla gente, dalla società che a un certo punto non ce la fa più. Uno che lascia in lacrime senza rotture e senza tensioni: “Vado per il bene della Roma”. Perché la Roma era già in una fase difficile: lo strascico della morte di Sensi, che aveva già lasciato tutto in mano alla figlia Rosella. Sì, eccolo il flashback che porta ancora indietro. Perché sì Spalletti, però l'origine di questa storia è esattamente un anno prima: 18 agosto 2008, il giorno in cui muore Franco Sensi. E' qui che stanno le fondamenta, perché lui non era un uomo normale, non per la città, non per la squadra. Lui era il patriarca, l'uomo che aveva riportato la Roma al centro del mondo dopo vent'anni, il romano-romanista che ha alimentato la diversità di squadra e città, il padrone molto re e poco imprenditore, perché la Roma non era mai stata un affare di soldi, quanto d'amore. Sensi era uno che si commuoveva: “Io… io i tifosi me li abbraccerei tutti”. L'aveva cambiato l'età, in grado di trasformare la rabbia di un tempo, in bontà dell'ultima stagione. A un certo punto era scomparso quello del “vento del nord”, frase con cui intendeva il potere reale, ma anche occulto dei club settentrionali alleati contro la romanità terrona di Roma, Lazio e Napoli. Ora non c'è più: scontroso, irascibile, scurrile. E' passato. Alla fine della sua stagione, Sensi parlava da nonno: “Francesco Totti è il figlio maschio che non ho mai avuto”.
L'ultimo Sensi avrebbe voluto scrivere delle memorie, roba da lasciare in eredità per testimoniare su carta il periodo del suo passaggio. Disse così quando raccontò di voler mettere giù un'autobiografia: “Ci starà dentro pure qualche parolaccia”. “Cojone” era la preferita in assoluto. Seguivano le derivazioni: “Rompicojoni”, “du cojoni”, “m'hai rotto li cojoni”. In tre lustri di pallone nessuno è mai riuscite a contarle: facevano volume e spesso ridere, però sono sempre rimaste dietro la frase più bella di tutte. Arrivò quando le cose con Gigi Agnolin s'erano messe male. La Roma l'aveva preso perché trattasse col Palazzo, invece si trovò con uno che alla prima battaglia voleva tenere un profilo sottotraccia: sì, vediamo, non so se è il caso. Sensi rimase fermo per un po', poi la disse tutta: “Agnolin lo licenzio co 'na scureggia”. Era un altro uomo, allora. Un imperatore potente, grintoso, orgoglioso, diverso dal grande vecchio degli ultimi tempi, mansueto e saggio, quando aveva lasciato tutto a Rosella e alle altre figlie Silvia e Cristina. Accanto c'era sempre la signora Maria. La moglie che lo accompagnava all'Olimpico, imbacuccata d'inverno così come il marito: sciarpa e colbacco. Insieme ogni volta: lei si sedeva vicino a lui anche quando la partita si guardava in casa, filtrava le telefonate, evitava le seccature, gestiva la quotidianità, evitava di farlo affaticare. A Trigoria, Sensi non ci andava più, alla fine: a quello ci pensano le figlie smistate nel cuore della società e degli affari di famiglia. Lui rimaneva il più possibile a Villa Pacelli, che era la casa di un Papa e poi è diventata la residenza di un Imperatore pallonaro prima sconosciuto, poi contestato, poi potente, poi in crisi, poi riamato, poi venerato.
Villa e anche un po' museo: chi ci entrava vedeva giallorosso ovunque. Sulle pareti, sulle fotografie, sui divani. Anche le colf, diceva la leggenda: guanti gialli su parannanza rosso scuro. I colori della vita per il cavaliere del lavoro Franco Sensi che al compimento degli ottant'anni diceva di guardare la sua Roma più bella: “Sono ragazzi, tutti giovani. E sono degni della mia stima”. Sembrava il comandante che guarda ai suoi soldati con la tenerezza di chi sa che sta per andarsene. Sembrava anche la malinconica consapevolezza di lasciare alle figlie un'eredità difficile. Quell'eredità fatta di un patrimonio sportivo e affettivo immenso, ma riempito dai debiti che proprio l'amore per il calcio aveva provocato. Eccolo allora il rientro dal flashback, perché dal 18 agosto 2008 ti ricolleghi al primo settembre 2009, quando Spalletti lascia una società sulla quale girano voci di vendite, affari intavolati e mai portati a termine, gruppi di affaristi e pasticcioni che millantano cordate pronte a rivitalizzare squadra e città. Rosella in mezzo, ereditiera in quel momento più di sfortune che di possibili glorie. Lei che fa quello che nell'antichità sarebbe toccato al primogenito maschio: prende decisioni difficili, si mette contro mezza tifoseria, lotta, combatte, carica i suoi uomini. Chiama un nuovo condottiero. E non può che essere quello che Roma non aveva da troppo tempo: un romano.
Claudio Ranieri è l'altro protagonista di questo poema epico. Perché è nato dove è nata la Roma, perché è come un vecchio combattente che è stato all'estero a sublimare il desiderio di ritorno e alla fine rientra da generale. Serviva uno da chiamata epocale, da riorganizzazione della truppa usando l'arma dell'orgoglio d'appartenenza più di ogni altra cosa. Perché Roma ha bisogno di questo. Ce l'aveva otto mesi fa, quando sembrava finita; ce l'ha oggi che ha ribaltato situazioni e possibilità, ma sa di essere meno attrezzata degli altri. L'Inter ha più uomini, più mezzi, più armi. La Roma, però, ha l'ideale della gloria che una vittoria porterebbe a ogni singolo protagonista. E' questo che ha dato Ranieri. Claudio che del comandante di legione non ha il fisico, ma ha il carisma. Al ritorno in Italia, a Parma, disse una frase da gladiatore: “Io non faccio feriti, faccio solo morti”. Finì in un casino pazzesco perché era troppo politicamente scorretta per il momento: era appena morto l'ispettore Raciti. Ecco, prendete quella frase, usatela oggi e guardate che succede: fa comandante Claudio, guida morale, umana e guerrigliera di un gruppo di potenziali eroi. Ranieri è entrato in questa vicenda mitologica come uno che non fa rumore. Non ha mai sofferto il complesso di romanità: tifa Roma perché è nato a Testaccio, perché là il padre Mario c'aveva una delle macellerie storiche del quartiere, perché lui aveva giocato all'oratorio di San Saba e poi finì a Dodicesimo Giallorosso, prima che Helenio Herrera lo andasse a pescare in un provino per portarselo nelle giovanili della Roma e trasformarlo in un terzino.
Tifa Roma perché certe cose uno se le porta dentro e perché tanto non si possono controllare. Tifa Roma ed era ovvio che un giorno gli sarebbe piaciuta allenarla. E comunque tiferebbe Roma, perché l'Olimpico e tutto il resto. Però mai una volta ne ha fatto una malattia, mai in un'intervista s'è autocandidato davvero: non volendo, invece, è finito sempre dove la Roma è avversaria da una vita: prima di Torino, Firenze e prima di Firenze, Napoli. E' il caso e anche la professione: per Ranieri non esiste l'idea che uno debba rinunciare a un incarico perché è nato in una città rivale di quella dove lo vogliono. Non deve sopportare molto neanche i calciatori che si rifiutano di esultare contro le ex squadre e che si dispiacciono perché fanno il loro mestiere. Figuriamoci gli allenatori, che devono essere ancora più professionisti: in panchina ci si va per un'idea, non solo per lo spirito di corpo. Ci si siede per lavoro. Si fanno scelte per vincere, non perché così dice il cuore. La Roma era di altri, punto. Ora che è sua, però, è tutto diverso: è venuto fuori un altro Claudio, differente da quello iper compassato. E' sempre sobrio, ma si vede che qualcosa è cambiato: sembra avere dentro una luce nuova, una grinta maggiore, un desiderio infinito. Lo senti anche da come parla, lui che a un certo punto sembrava britannico, adesso sbiascica volentieri sul romanesco. E' la bellezza di prendersi la propria identità, la soddisfazione di poter essere professionista e tifoso contemporaneamente. Si può essere o l'una o l'altra cosa, però quando le metti insieme diventa qualcosa di inimmaginabile. Allora oggi quanti romanisti si chiedono se con Spalletti sarebbe finita così: non è questione di bravura, né di stimoli, è piuttosto una miscela di emozioni che vengono quando meno te l'aspetti. Ranieri non ha promesso: ha garantito l'impegno massimo.
Come un generale, appunto: sa chi c'è nel suo esercito, sa che cosa può dare, sa come motivare, ma non può dire di vincere la guerra. Combattere è la cauzione che si paga a chi ti ha scelto per provare a vincere. Lui è partito senza il condottiero più affidabile. Perché il poema romano non sarebbe stato leggendario se Francesco Totti fosse stato tutto intero. Nel 2001 non ci fu nulla di epico: ci fu il dominio, la potenza, la grandezza mostrata al paese e ai rivali. Adesso, invece, la sceneggiatura mitologica è completa. Perché Totti s'è rotto entrando nella struttura di questa storia come l'altro uomo da omaggiare. Sensi e lui, figlioccio pallonaro del presidente, Capitano in una fase calante della sua stagione da campione, acciaccato dal tempo, dalle botte, dalle battaglie, fedele alla sua città e al suo mondo al punto da rifiutare soldi, gloria e notorietà altrove. Aveva detto: “Prima di smettere voglio vincere qualcos'altro con la Roma”. Rotto, però. Il calvario di un fenomeno che i compagni hanno alleviato scalando la classifica, vincendo ovunque e con chiunque, lasciando a Totti il tempo di recuperare senza fretta.
Francesco è il protagonista meno visibile del poema eppure il più importante. Perché senza l'idea di avere Totti, anche se non a servizio completo, forse non ci sarebbe stata la rincorsa: l'assenza è servita a rafforzare l'ideale che ha spinto verso l'obiettivo finale. C'era l'Inter da prendere: guardacaso il Capitano romanista è rientrato in gioco esattamente il giorno dello scontro diretto, come se gli altri avessero tirato la volata per dargli la possibilità di guidare l'ultima parte della stagione. Totti c'era senza esserci. Totti c'è ora che è presente. Lo spirito o le gambe non sono la stessa cosa, ma il primo ha contribuito al rientro delle seconde. Così adesso lo vedi, con la fascia al braccio. Di nuovo da solo contro il mondo, perché la sua forza è sempre stata anche quella: sentirsi un diverso, un gladiatore, un Massimo Decimo Meridio con ottantamila legionari e con il resto d'Italia a fare da spettatore accanito in un Colosseo immaginario. Nell'attesa del suo rientro Roma ha scoperto di avere già un altro capitano. Lo sapeva, ma non sapeva che ha raggiunto il grado di maturità che gli permette di guidare una squadra che trascina due terzi della Capitale. Senza Totti, Roma s'è innamorata di De Rossi, con la consapevolezza che quando Francesco lascerà, il club non sarà orfano, non si sentirà senza guida. C'è uno che sa che cosa vuol dire tenere unita una squadra, c'è uno che sa che cosa significa essere il condottiero di Roma: un altro che vive con la sindrome dell'accerchiamento, di una romanità vissuta come orgoglio. Anche De Rossi avrebbe potuto andar via: è rimasto per se stesso e per gli altri, soprattutto perché in un altro posto non sarebbe stato lo stesso. Se Totti è la Roma oggi, De Rossi è il domani. Per un po' non ci sono cambi generazionali, non c'è rischio di un vuoto che genera confusione. De Rossi nel poema è il giovane che sa già tutto. E' quello che sa adesso che il sorpasso c'è stato e che la Roma è prima e dipende solo da se stessa. E' lì pronto all'ultimo giro, perché questa stagione epica ha caselle riempite da appuntamenti che non hanno alternative: il rientro di Totti con l'Inter, per esempio. E il derby con la Lazio. Perché Roma e il suo mondo non possono prescindere dall'angoscia di una tragedia che alimenta ancora di più il mito di questo campionato da leggenda.
La giornata dopo il sorpasso c'è l'unica cosa in grado di sfuggire alla logica della forza romanista. Il derby, che in un poema sarebbe quella battaglia che non c'entra col resto, che non prevede necessariamente la vittoria del più forte. E' un rischio, è anche l'ultimo capitolo. Novanta minuti per la trasformazione dell'antichità letteraria in reality contemporaneo. I gladiatori, l'onore, la fierezza, la vittoria. Di nuovo quel paragone: l'Olimpico colosseo, i fratelli che lottano in una guerra civile che può portare l'impero di nuovo in alto, oppure farlo sprofondare. Si gioca col sole perché il buio fa paura all'esterno dello stadio più che all'interno. Meglio, perché l'epica ha sempre giocato con la luce del sole. Per entrare nella mitologia del pallone la Roma non ha bisogno di altro. Per entrare nella storia può solo vincere, e ha vinto.
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