Le strane circostanze che circondano il lavoro di Emergency
Qualche domanda a Gino Strada sul suo ruolo di testimone “scomodo”
E adesso, liberi i tre, liberi tutti. Liberi di porre le domande che era ingeneroso porre a Emergency e a noi stessi mentre i tre suoi uomini erano detenuti, e circondati da accuse pesanti. Liberi loro, e sollevati da sospetti che il semplice buonsenso, e il principio che la responsabilità penale è individuale, portavano a ritenere assurdi, liberi noi di rilevare senza maramaldeggiare alcune piccole circostanze scomode che circondano il lavoro di Emergency. L'organizzazione di Gino Strada è molto, molto italiana. Non esistono ong internazionali con la stessa vis polemica.
E adesso, liberi i tre, liberi tutti. Liberi di porre le domande che era ingeneroso porre a Emergency e a noi stessi mentre i tre suoi uomini erano detenuti, e circondati da accuse pesanti. Liberi loro, e sollevati da sospetti che il semplice buonsenso, e il principio che la responsabilità penale è individuale, portavano a ritenere assurdi, liberi noi di rilevare senza maramaldeggiare alcune piccole circostanze scomode che circondano il lavoro di Emergency. L'organizzazione di Gino Strada è molto, molto italiana. Non esistono ong internazionali con la stessa vis polemica, la stessa caratterizzazione politica e ideologica, e per trovare uno spirito di partito simile bisogna scandagliare la piccola armata di organizzazioni confessionali e settarie, chiese del dodicesimo o trentesimo giorno, missioni dove la tazza di latte e il piatto di broda arrivano solo con il pegno dell'adesione.
Gino Strada ha insistito spesso, in questi giorni sul ruolo di “testimone” e per di più scomodo, della sua organizzazione in Afghanistan. Il tema della “testimonianza” è quello attorno a cui si consumò, alla fine degli anni Settanta, la rottura tra Bernard Kouchner e l'organizzazione che aveva fondato, Médecins Sans Frontières. Occasione della rottura fu una missione, fortemente voluta da Kouchner, in soccorso dei boat people vietnamiti, che venne ritenuta da altri, nell'organizzazione, un'operazione troppo, se non esclusivamente, mediatica. Dalle polemiche venne la scissione, e nacque Médecins du Monde, che rimprovera a Msf, premio Nobel nel '99, di separare eccessivamente l'aiuto umanitario e la denuncia politica. Com'è noto, Msf, il cui responsabile italiano, Carlo Urbani, morì nel 2003 dopo essersi impegnato nell'emergenza Sars in Vietnam, va ovunque, stringe le mani a chiunque, e si prefigge un solo scopo: aiutare chi ha bisogno. Legittimamente, Gino Strada la pensa altrimenti: che senso ha curare i feriti se non fermo la catena di montaggio della violenza che riempie i miei ospedali di feriti?
Legittimamente, questo ruolo di testimonianza comporta una certa scomodità. Nella quale non incorrono altre ong, diciamo più silenti. Non vi incorrono ad esempio le italiane Intersos, Cesvi, Aispo, né Coopi, che ha numerosi progetti proprio a Kandahar, e dunque in un'area tutt'altro che tranquilla. C'è, però, il fatto che la “comodità” delle tante ong internazionali che operano in Afghanistan si rivela “scomodità” se guardata dall'altro lato della barricata: dal 1997 al 2003 in Afghanistan hanno perso la vita, violentemente, 36 operatori umanitari. E non per opera dei servizi segreti né degli organi di polizia del governo nato nel 2001 sulle ceneri del regime talebano. C'è poi qualcosa da dire sulla “testimonianza”. Che ha un suo valore morale indiscutibile quando non è strabica, quando cioè non guarda in faccia nessuno, se non le vittime. Giustamente Emergency rivendica non solo il diritto ma anche il dovere di curare chiunque, ci mancherebbe altro. Ma per quanto riguarda la vocazione forte a essere testimoni, c'è qualcosa che non va. C'è che Emergency era una delle poche, se non la sola, ong presenti a Kabul nel '99 e nel 2000, in pieno regime talebano. Era una città da cui erano scappati persino il direttore del museo e quello dello zoo, in cui si nascondevano persino i fabbricanti di aquiloni e i cantanti, ed Emergency apriva il suo ospedale. Giusto, perché ce n'era bisogno. Ma la testimonianza? Non succedeva nulla che meritasse di essere testimoniato?
Qualcosa, negli accordi che avevano permesso l'apertura dell'ospedale non funzionò, tanto che nel maggio 2001 ci fu un'irruzione armata dei talebani nell'ospedale, che fu abbandonato e chiuso. Venne riaperto nel novembre successivo, a seguito dell'“invasione americana”. Come ad allontanare ogni sospetto di aver in qualche modo “usato” quella circostanza, Emergency lanciò in Italia la campagna “uno straccio di pace”, invitando ad appendere fazzoletti bianchi a zainetti e polsini, per ribellarsi alla guerra, dove per “guerra” doveva intendersi l'intervento internazionale. Non si può rimproverare a Emergency un'assenza di coerenza: per sottolineare questa sua estraneità, rinunciò a quel punto al rilevante contributo pubblico di cui aveva goduto sino allora in Afghanistan, vuoi attraverso finanziamenti diretti del governo italiano, vuoi attraverso il tramite dell'Undp.
Del ruolo successivo di Emergency si sa di più, e sono significativi i numeri riferiti alle persone curate e spesso salvate dal loro intervento. Ma, ancora una volta, è il ruolo di “testimone” che è incerto. Lo è sulle circostanze del sequestro di Torsello.
E' vero o no che fu Rahmatullah Hanefi a organizzare il viaggio in autobus verso Kabul del fotografo italiano, a comprargli addirittura il biglietto per la corriera su cui sarebbero saliti, a colpo sicuro, i talebani per sequestrarlo? E' certo, perché lo afferma lo stesso Gino Strada, che fu Hanefi a consegnare i soldi del riscatto. E Hanefi torna in pista con il sequestro di Daniele Mastrogiacomo. Ora, è ovvio che in occasione di un sequestro il mediatore debba essere qualcuno in grado di fare la spola tra le parti in causa, e dunque non si possa essere schizzinosi sulla sua natura immacolata, ma desta qualche perplessità che il mediatore sia il responsabile della logistica dell'ospedale, e continui a esserlo dopo il primo sequestro: la perplessità suggerisce che nella scelta del direttore, al momento di aprire l'ospedale, si sia in qualche modo cercato qualcuno che poteva garantire uno scudo, una cattura di benevolenza dall'altro lato della barricata, quelli verso cui è meglio non essere “scomodi”.
Daniele Mastrogiacomo non è mai stato chiarissimo sulle circostanze che lo hanno “avviato” ai contatti con il capo talebano da intervistare: chi glieli aveva passati? Né Hanefi è mai stato chiaro, ed Emergency non si è mai sentita in dovere di testimoniare sulle circostanze che sono costate la vita a Adjmal Nasgkbandì, l'interprete prima liberato, poi risequestrato e infine decapitato. Tutto ciò avvenne solo per mettere in difficoltà il governo di Kabul, pronto a trattare per liberare l'italiano ma non per salvare l'afghano, o Adjmal aveva visto qualcosa di troppo? Si dice che ora Hanefi sia in Germania, e può essere che sia l'unico a conservare le risposte a queste domande. Ma incuriosisce pensare che l'ospedale di Lashkargah sia intitolato a Tiziano Terzani. Padre nobile del giornalismo italiano, ma assolutamente sconosciuto agli afghani. E' tradizione di Emergency intestare le proprie strutture a figure italiane (l'ospedale in Cambogia è dedicato a Ilaria Alpi), ciò che conferma il carattere molto italiano dell'organizzazione, ma a nessuno è mai passato per la testa che sarebbe stato altrettanto nobile – e forse un po' più scomodo – intitolare l'ospedale nell'Helmand al povero Adjmal, un giornalista limpido morto per una testata italiana, La Repubblica?
Né ricordo una gran testimonianza a favore del povero Perwiz Kambakhsh, lo studente di giornalismo condannato a morte per blasfemia per aver stampato un articolo riguardante i diritti delle donne e il Corano. La pena di morte, trasformata poi in una detenzione di vent'anni, era stata comminata da un tribunale di quella stessa giustizia sulla quale in questi giorni molti hanno alzato il sopracciglio e qualcosa di più. Ma era un atto condiscendente verso gli ambienti fondamentalisti, e dunque non meritava una mobilitazione, un fazzoletto, un po' di quell'impegno politico da cui l'intervento umanitario non può prescindere? Certo, avveniva a Mazar i Sharif, lontano. Ma il vetriolo lanciato in faccia a un gruppo di ragazzine che andavano a scuola, quello è avvenuto due anni fa, nella provincia di Helmand. E come testimonia PeaceReporter, la testata diretta dal genero di Gino, Maso Notarianni, che spesso funge da portavoce di Emergency? Racconta l'episodio, con una chiosa finale che suona come una excusatio non petita: “Le violenze contro le donne fanno però parte della cultura degli afghani, e non sono una prerogativa talebana”. Chiosa scomodissima.
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