Dai giorni esagerati ai freddi addii

Fini e i suoi colonnelli, brontolii di Caffettiera e mai tragedia scespiriana

Stefano Di Michele

Quei giorni, allora, erano così: esagerati nei sentimenti, e quei sentimenti parevano eterni. Estate del '94, quella del primo – sorprendente e sfacciato – governo del Cavaliere. Il cronista dell'Unità andava a trovare Gianfranco Fini, nell'ufficio di via della Scrofa, brutta carta da salotto piccolo borghese alle pareti, l'opera omnia di Mussolini che prendeva polvere dietro la scrivania. Il segretario dell'ancora Msi aspirava fumo dalla sua Marlboro e soffiava sull'epica e sui patimenti che avevano condotto lui e i suoi fin nelle stanze del potere: “Ci sentivamo come i negri in Sudafrica con l'apartheid”. Al cronista succedeva di transitare per la stanza di Francesco Storace, allora di Gianfranco portavoce.

    Quei giorni, allora, erano così: esagerati nei sentimenti, e quei sentimenti parevano eterni. Estate del '94, quella del primo – sorprendente e sfacciato – governo del Cavaliere. Il cronista dell'Unità andava a trovare Gianfranco Fini, nell'ufficio di via della Scrofa, brutta carta da salotto piccolo borghese alle pareti, l'opera omnia di Mussolini che prendeva polvere dietro la scrivania. Il segretario dell'ancora Msi aspirava fumo dalla sua Marlboro e soffiava sull'epica e sui patimenti che avevano condotto lui e i suoi fin nelle stanze del potere: “Ci sentivamo come i negri in Sudafrica con l'apartheid”. Al cronista succedeva di transitare per la stanza di Francesco Storace, allora di Gianfranco portavoce.

    Altro sbuffo di epica: “Eravamo io, mammeta e tu.
    Cinque, sei persone al massimo: il sottoscritto, Fini, Gasparri, La Russa… C'era il deserto, l'ufficio stampa era un disastro. Al telefono del Gr2 rispondeva una frutteria: “‘Ancora co' 'sto gierredue? Qui vennemo la verdura!'”. Magari gli capitava di andare al Viminale, al cronista del giornale gramsciano, a trovare il sottosegretario Maurizio Gasparri. Che meno lodava il gruppo, ma molto la sua stretta intesa con il capo: “Io sono davvero un finiano, lo dico con orgoglio”. E così uno dietro l'altro, un colonnello (che non sapeva ancora di essere colonnello) e un altro e un altro: eterni giuramenti, felici apprezzamenti, vita e destino tutt'uno con la sorte di Gianfranco. Era l'inizio dell'avventura, non la fine.

    Tutto sembrava possibile, ora più niente – e ogni ricordo del passato, e ogni ipotesi di futuro affonda nel risentimento. Non ci si separa, semplicemente: si traccia una trincea definitiva di rancore e disistima – e la pena di quelle parole (a dirle allora? a riascoltarle oggi?) e di quelle foto, dove generale e colonnelli giocavano a pallone insieme, ridotte all'estremo di un rapporto malvissuto prima e mutato in insopportabile poi. Diligentemente, a qualche anno da quella pazza estate quando il Cavaliere sorse, per parere definitivamente defunto in autunno, ancora sfilavano sotto Palazzo Venezia inneggiando a “Fini, Fini / il nuovo Mussolini!”, adesso Gasparri tira il totale della somma e ferocemente annota: “Io, La Russa, Matteoli e gli altri abbiamo fatto un percorso politico. Non è che dobbiamo tutto a Fini”.

    E c'è da dire che proprio quei tre – Maurizio e Ignazio
    e Altero, rinomati colonnelli di stato maggiore – avventatamente finirono intercettati in Caffettiera, e ci fu sfiga e ci fu avventatezza, mentre del loro generale malignavano, e ne vedevano le mani tremanti e lo sguardo indeciso, e fu il primo traboccare d'ira, una pubblica decapitazione politica, la degradazione a caporali da corte berlusconiana nonostante una fervente lettera di scuse, le teste dei congiurati sulle picche di via della Scrofa. Per poi tornare a essere colonnelli, per poi tornare a prendere sculacciate, per poi nuovamente riavere i gradi. “Non dobbiamo tutto a Fini”, dunque. Ma le degradazioni sul campo, quelle di sicuro. Le decapitazioni politiche pure.

    E ogni volta Gianfranco, levato alto sullo scranno di democratico di accresciuta solidità, faceva l'effetto della regina Elisabetta dopo che aveva consegnato al boia l'amato e irruento conte di Essex: “I miei cani portano il mio guinzaglio, signori!”, e non sembri eccessivo questo parlare di ascia e pena capitale, se appunto giusto ieri Alessandra Mussolini ha invocato per il finiano Italo Bocchino (che colonnello non fu allora, avendo a padrino Pinuccio Tatarella e vantando un'età che non lo elevava oltre la leva obbligatoria) la drastica risoluzione: “Se fossi al posto di Berlusconi, farei fare a Italo Bocchino la stessa fine di Anna Bolena: decapitata” – e fu la Bolena la mamma di Elisabetta, che a sua volta decapitazione decretò, ma è dubbio che questa faccenda di alti gradi e di alte grida tra ex fascisti, poi post fascisti e poi nel vasto universo berlusconiano sparpagliati, possa mutarsi in tragedia shakespeariana.

    Certo, i sospetti di tradimenti si sprecano – “badogliano” è accusa che ancora brucia e morde, da quelle parti – e se ci sono colonnelli vaganti fuori caserma, il rischio che possano attrupparsi dietro un nuovo generale, di armamenti e acquartieramenti meglio fornito, è nelle cose – ma sono riduttive, di sicuro inadeguate. Questa è storia politica, è storia di potere, ma è anche storia di caratteri. E i colonnelli – così marchiati, e così inevitabilmente destinati a sopravvivere e a riprodursi, solo con l'aggiunta di un insipido “ex” davanti, a benemeranza berlusconiana da un lato, a disdoro finiano dall'altro – che al loro antico generale si sono ammutinati, mostreranno in pubblico ragioni politiche, e sicuramente rifletteranno in private ragioni umane.

    Non che il Cavaliere scherzi, pure lui, su chi deve portare
    (e come portare) il suo guinzaglio. Ma tanto Fini fa mostra di freddezza, tanto lui di calore; tanto Gianfranco appare algido, tanto Silvio appassionato. Il primo è da immersioni negli abissi, il secondo si mette a poppa della nave e saluta festante i bagnanti. Il Cavaliere ti manda le rose, ti loda la cravatta, ti chiede notizie del pupo. Trova sempre la parola, anche quando parole non ne ha (così raccontò un giorno che quando faceva l'imprenditore scommise che avrebbe salutato cento persone, una per una, e che per ognuna avrebbe trovato un complimento adatto: vinse); il presidente di Montecitorio magari risparmia pure quelle che dovrebbe dire. I colonnelli in politica – ogni colonnello, quelli finiani in particolare – necessitano di coccole e soddisfazioni e attenzione. Per anni, dal loro generale hanno ricevuto occhiate fredde, pubblici rimproveri, ostentata indifferenza. C'è chi ricorda la scena, a Montecitorio, nei giorni di un'altra sfuriata.

    Ecco Fini che attraversa il Transatlantico, colonnelli e caporali allineati sui lati, mostrano il sorriso, fanno il gesto di tendere speranzosi la mano. Il generale né li rimprovera né li ascolta: ostentatamente li ignora. Si avvicina a dei giornalisti nel cortile, “avete una sigaretta?”, fuma e scherza, oltre le vetrate sguardi persi e straniti: i suoi lo guardano, e forse non lo riconoscono. Di un simile tragitto, in una giornata buona, il Cavaliere ne avrebbe fatto una specie di marcia dell'Aida, abbracci e battute, cori e saluti. “Ci vuole un sacco di pazienza”, diceva Fini quando tutto cominciò. Lui l'ha finita, i suoi l'hanno finita. Era una comunità, da anni gli faceva forse l'effetto di una ciurma, disordinata e vociante. Petulante, più che minacciosa. Berlusconianamente già votata alla causa – né lui, neanche per un attimo, ha provato a trattenerla. Volevano cose che non poteva dare – e cose che non voleva più dare. Più consolante rimirare la sua foto vicino a uno squalo sul display del telefonino: minaccioso, però silente.

    C'è della noia finiana, uno stremo da eterna messa in scena, oltre la politica, nella consegna in massa al Cavaliere dei suoi colonnelli, malamente sbarcandoli, e a sua volta malamente abbandonato, dal gommone sul quale per anni avevano circumnavigato l'approdo berlusconiano. Di mille ricomposizioni e altrettante rotture – come quella consumata nei tre giorni del Plaza, siamo alla fine degli anni Novanta, e allora i suoi ancora lodavano o almeno abbozzavano, e lui scantonava e li gelava. “Non sono un totem…”, diceva chirurgico e freddo. E Ignazio, con calore: “Quando si abbattono i totem poi s'innalzano le vacche sacre…”, così che un parlamentare di seconda fila poteva a ragione precisare, “e quelle cagano pure” – adesso si è giunti al capolinea. Fini è (più) solo, e solo forse lo è sempre stato. I suoi ex saranno rifocillati e assistiti – come per il gatto Maramao, pane e vin non mancheranno, e a Silvio come post fascisti bastano e avanzano, senza velleità di farne addirittura degli anti –  ma forse proveranno più stupore e stordimento loro, apparentemente vincitori, di Gianfranco, silenzioso e politicamente quasi appiedato. Perché poi un colonnello sempre colonnello resta, e l'abbandono del proprio generale ha mille valide ragioni e, chissà, un incancellabile rimorso.