Le mosse di Fini

Alessandro Giuli

Asserragliarsi in una microcorrente di finiani arrabbiati con indosso la vecchia casacca di Alleanza nazionale sarebbe un errore strategico, e Gianfranco Fini è il primo a non voler cacciarsi in una guerriglia parlamentare sterile. Lo dice al Foglio il suo consigliere più rappresentativo, nonché direttore scientifico della fondazione FareFuturo, Alessandro Campi: “Sarebbe una scelta d'irrilevanza, la riserva di ex missini ed ex aennini organizzati per fare interdizione antiberlusconiana”. Il rischio c'è, a giudicare dalle propalazioni del sottobosco pidiellino, ma finché possibile Fini e la minoranza a lui riconducibile cercheranno di battere altre vie.

    Asserragliarsi in una microcorrente di finiani arrabbiati con indosso la vecchia casacca di Alleanza nazionale sarebbe un errore strategico, e Gianfranco Fini è il primo a non voler cacciarsi in una guerriglia parlamentare sterile. Lo dice al Foglio il suo consigliere più rappresentativo, nonché direttore scientifico della fondazione FareFuturo, Alessandro Campi: “Sarebbe una scelta d'irrilevanza, la riserva di ex missini ed ex aennini organizzati per fare interdizione antiberlusconiana”. Il rischio c'è, a giudicare dalle propalazioni del sottobosco pidiellino, ma finché possibile Fini e la minoranza a lui riconducibile cercheranno di battere altre vie. “Berlusconi non deve assecondare lo sbaglio di chiudere lo spazio politico a una minoranza vera dalla quale, in termini di numeri, non avrebbe nulla da temere. Non ha voluto accettare una configurazione realmente plurale nel Pdl, dove pure non mancano potentati su base ideologica e territoriale. In più, con l'ordine del giorno approvato in direzione nazionale, quello che costringe il Pdl a uniformarsi alla linea della maggioranza, si fa pure un passo indietro rispetto alla consolidata tolleranza di una quota minima di dissenso, per esempio sulle questioni eticamente sensibili”.

    Niente più voto di coscienza. “Così pare”. Si rimprovera a Fini d'aver cercato battaglia, sì, ma senza una visione di prospettiva e imbracciando la minaccia del sabotaggio parlamentare per salvaguardare il proprio dissenso. “La parola dissenso non mi piace – obietta Campi – e l'ho detto a Fini stesso. Come non mi convince l'espressione ‘corrente' alla quale preferisco il termine ‘componente'. Ma di là dalle sfumature lessicali, il punto è questo: ammesso che i berlusconiani non cedano alla tentazione della caccia al finiano, è evidente che Fini non farà interdizione, non ridurrà la sua manovra al conflitto. Sarebbe la fine di tutto”. C'è un disegno propositivo da spendere all'interno del Pdl. “Per trasformarlo, da ibrido com'è ora, in un altra cosa”.

    Il Foglio ha rimproverato a Fini di voler manovrare in un quadro bipolare con i mezzi partitico-correntizi della Prima Repubblica. “C'è un gioco dialettico da smontare – replica Campi – e cioè che il richiamo alle procedure classiche della politica significhi nostalgia di una politica deteriore. Qui si cerca di superare la forma ibrida del Pdl per costruire un vero partito a vocazione maggioritaria in un sistema bipolare”. Secondo Campi nel Pdl “una certa ipocrisia di fondo fa sì che molte ‘correnti informali' siano proliferate intorno a fondazioni e associazioni vocate alla proiezione esterna, ma impedite nei fatti a occupare uno spazio dialettico dentro un partito. Un partito che vive di accentramento nel vertice e di anarchia periferica”. Fini ha attaccato la parete dell'unanimismo. “La sua posizione è ormai un dato strutturale del Pdl. Non capisco perché nel partito repubblicano statunitense i cristiano-conservatori possono convivere con gli anarco-libertari e nel Pdl i berlusconiani faticano ad accettare la minoranza finiana per quello che è”.

    Campi azzarda una spiegazione: “Temono la possibilità che si coagulino altre aree di pensiero istituzionalizzate, il che sarebbe invece un arricchimento”. Ecco perché lo scontro personale con Fini viene letto dai suoi come “l'attacco a un falso bersaglio”.
    La scommessa di Fini, suggerisce Campi, sta nel “riuscire ad aprire spazi di dialogo con settori e figure non di provenienza aennina, e non soltanto tra il personale politico che soffre la leadership berlusconiana. Penso a un arcipelago che abbia nel presidente della Camera il proprio referente istituzionale e che si riverberi nell'Aula in forme di aggregazione su temi specifici”. Esempio. “Da oggi in poi, se pure il federalismo non è in discussione, visto che si tratta di una riforma tentata dal centrodestra nella legislatura 2001-2006, il Pdl dovrà far pesare le proprie condizioni, valutarne i costi effettivi, verificarne l'impatto sugli interessi nazionali e sulla coesione sociale”. Siamo ancora nel campo dell'interdizione, troppo poco per una minoranza propositiva. Campi conclude così: “Finora è stato facile differenziarsi sui temi etici o sulla cittadinanza. Ma questo non è un programma di governo. Fini adesso è chiamato a smentire l'accusa di saper fare solo il controcanto, il che lo espone al giudizio politico di chi sta aspettando che passi dalla distinzione di stile rispetto a Berlusconi alla distinzione progettuale rispetto al berlusconismo”.