"Caro Tremonti, giù le tasse"

Viva il gradualismo

Francesco Forte

E'  bello che Carlo De Benedetti abbia scritto un impegnativo articolo per il Foglio seguendo (in parte) l'esempio di suo fratello filo-fogliante dichiarato. Concordo con la tesi che le riforme istituzionali di cui si discute – presidenzialismo, semipresidenzialismo e monocameralismo parziale – non siano la priorità. Altre riforme istituzionali “minori” sono più importanti: giustizia, appalti e liberalizzazioni. Il merito dell'articolo sta nell'avere sottolineato che la politica di gestione della congiuntura non basta. Sarebbe stato meglio riconoscere che essa ha avuto successo. Ma questa bella vittoria non neo keynesiana (quanto è vecchio questo “neo”) è mutilata.

Leggi Caro Tremonti, giù le tasse per favore di Carlo De Benedetti - Leggi Chi guida il partito antitasse?

    E'  bello che Carlo De Benedetti abbia scritto un impegnativo articolo per il Foglio seguendo (in parte) l'esempio di suo fratello filo-fogliante dichiarato. Concordo con la tesi che le riforme istituzionali di cui si discute – presidenzialismo, semipresidenzialismo e monocameralismo parziale – non siano la priorità. Altre riforme istituzionali “minori” sono più importanti: giustizia, appalti e liberalizzazioni. Il merito dell'articolo sta nell'avere sottolineato che la politica di gestione della congiuntura non basta. Sarebbe stato meglio riconoscere che essa ha avuto successo. Ma questa bella vittoria non neo keynesiana (quanto è vecchio questo “neo”) è mutilata. E ciò non perché la nostra economia sia in cattivo stato, ma per la ragione opposta.

    Infatti se fosse vero che “andiamo molto male” (giaculatoria che sento dal 1955 quando, da poco laureato, facevo con Giannino Parravicini l'ufficio studi di Roberto Tremelloni ministro psdi delle Finanze e aiutavo Ezio Vanoni, come suo supplente all'Università di Milano e un po' al ministero del Bilancio), non reggerebbe una strategia ambiziosa come quella debenedettiana. Concordo con la priorità della riforma tributaria e con la riduzione della spesa. E ciò specie per le pensioni. Però in questo settore il governo ha varato lo scorso anno una efficace legge di riforma, con effetti scaglionati. Essa ha solo bisogno di partire subito anziché in seguito. Dissento invece dal metodo debenedettiano. La sua analisi, salvo per pochi dati macro, non è assistita da numeri e numeretti. Quindi non mi pare che soddisfi il motto di Luigi Einaudi (che è anche di Griziotti e Vanoni, miei maestri con Einaudi) di conoscere per deliberare. E per me (come per la triade sopra citata) riforme e piani debbono essere gradualisti, anche se in un tracciato di ampie vedute.

    La tesi che in Italia, fra il 1995 e il 2007, ci sia stata una miserrima crescita di produttività per ora lavorata si collega alla bassa crescita del pil. La tesi non regge per due ragioni. Di mezzo c'è il cambio dalla lira all'euro, con la lira sopravvalutata di un 15-20 per cento rispetto all'equilibrio di bilancia dei pagamenti. Così non solo si è avuto un periodo di compressione della nostra competitività e di ristrutturazione, ma si è generata anche un'illusione monetaria sul pil in termini reali dell'Italia in euro. La nostra inflazione media annua dal 1995 al 2007 ha superato quella tedesca di un punto, che automaticamente riduce la crescita reale del nostro pil di circa il 13 per cento. Inoltre la struttura della produzione industriale e dell'intera economia italiana è cambiata rispetto a quella dei panieri Istat. E tutto ciò sottostima la crescita, non la base di partenza. Questi confronti servono a poco. In ogni caso il nostro export oscilla ancora attorno al 25 per cento del pil stando poco sotto l'import. Una economia che esporta questa percentuale, nonostante l'euro inizialmente sopra valutato rispetto alla lira, che si è poi rivalutato rispetto alla iniziale parità col dollaro, non pare sia “un gatto morto”, come secondo De Benedetti.

    La radicale riforma Visentini del '72, incentrata sull'imposta personale progressiva sul reddito, smantellando i tributi e le autonomie fiscali locali, mi parve già allora errata (feci con Sergio Steve, la relazione di minoranza). Ma la riduzione fiscale per aumentare la domanda di consumi, che ora De Benedetti propone, contrasta con la tesi della bassa produttività. Solo nel miracoloso mondo neo keynesiano, è possibile aumentare la produttività nel lungo termine espandendo la domanda di consumi anziché gli investimenti e l'export. E se la riforma consiste nel ridurre la fiscalità del lavoro riducendo pensioni e altre spese correnti e aumentando l'Iva, con saldo invariato, non c'è un aumento di domanda di consumi.

    La tassazione dei patrimoni proposta da De Benedetti – tassazione di cui non si conosce base imponibile e presunto gettito – non è come lui afferma uno spostamento della tassazione dalle persone alle cose, ma dai redditi ai cespiti che li producono e quindi dal reddito di lavoro a quello di capitale. Non mi pare che riducendo l'accumulazione si possa aumentare la produttività. Lo spostamento dell'imposizione verso l'Iva invece va benissimo. Ma essa è evasa per il 40 per cento del gettito teorico. Dunque non si tratta di fare riforme cartacee come quelle di Bruno Visentini, ma di ricominciare a far funzionare gli strumenti inventati da Franco Reviglio e da me per il controllo dell'Iva: con un rapporto leale tra fisco e contribuente, non con le azioni alla Vincenzo Visco. Inoltre le imposte sul lavoro per stimolare la produttività non vanno ridotte in quanto tali ma solo per le aliquote marginali in collegamento con la maggior produttività. E vanno detratte quale fattore di costo delle imprese. Il che, scaglionato nel tempo, costa pochi soldi e non è formalmente rivoluzionario.        

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