Il detenuto Khodorkovsky

Massimo Boffa

Anche per chi sia convinto, non senza buoni motivi, che il decennio di Putin rappresenti, nella storia russa, un'esperienza tutto sommato positiva, il caso Khodorkovsky appare oggi come un'autentica pietra dello scandalo. L'ex capo del Cremlino e il suo attuale successore possono indubbiamente vantare al proprio attivo un'energica politica di restaurazione dell'autorità dello stato, dopo l'anarchia degli anni eltsiniani.

    Anche per chi sia convinto, non senza buoni motivi, che il decennio di Putin rappresenti, nella storia russa, un'esperienza tutto sommato positiva, il caso Khodorkovsky appare oggi come un'autentica pietra dello scandalo. L'ex capo del Cremlino e il suo attuale successore possono indubbiamente vantare al proprio attivo un'energica politica di restaurazione dell'autorità dello stato, dopo l'anarchia degli anni eltsiniani; e la lotta contro lo strapotere degli oligarchi – con l'episodio chiave del processo all'ex padrone della Yukos – è stata parte fondamentale di questa impresa. Ma, per l'appunto, si tratta di una lotta ormai coronata dal successo. Così stando le cose, il secondo processo che vede sul banco degli imputati Mikhail Khodorkovsky e il suo vice Platon Lebedev (quando i due hanno ormai scontato gran parte degli otto anni di reclusione a cui sono stati condannati per frode fiscale), che si è aperto a Mosca un anno fa e che in queste settimane sta entrando nel vivo, si rivela, anche allo spettatore meno prevenuto, come un atto di accanimento e di persecuzione senza uguali.

    Si può capire il primo atto del dramma
    . Il caso Khodorkovsky, infatti, ha rappresentato uno spartiacque tra i caotici anni di Eltsin e l'era Putin. Nel decennio Novanta, gli oligarchi tenevano di fatto in ostaggio il governo. E questa situazione è radicalmente cambiata in una gelida giornata dell'ottobre 2003 quando, all'aeroporto di Novosibirsk, gli agenti del Fsb hanno circondato l'aereo privato dell'uomo più ricco di Russia, consegnandolo a una magistratura che aveva l'incarico di condannarlo al massimo della pena.

    La reale posta in gioco è stata chiara fin dall'inizio. Khodorkovsky aveva violato il tacito patto stabilito da Putin con i miliardari russi: il potere avrebbe chiuso un occhio sui modi in cui avevano accumulato la loro immensa ricchezza se in cambio si fossero tenuti lontani dalla politica. Il padrone della Yukos, la più grande impresa petrolifera del paese, aveva invece continuato a finanziare le forze di opposizione. E con il suo rifiuto aveva lanciato una sfida al potere. Esistono varie versioni della famosa riunione al Cremlino in cui Putin aveva chiesto la sottomissione degli oligarchi, e tutte concordano su un punto: Khodorkovsky aveva mostrato l'atteggiamento impavido e sprezzante di chi non accetta diktat dall'alto. “Quando apparve Khodorkovsky – ha poi raccontato Elena Bonner, vedova Sakharov – ho pensato che fosse troppo intelligente e troppo rilassato, coraggioso e incosciente, e che l'avrebbe pagata cara”.

    Così è stato. Il primo processo si è concluso, nel 2005, con una condanna a otto anni di lavori forzati in Siberia. Ma siccome intanto il tempo è passato e nel 2011 Khodorkovsky dovrebbe tornare in libertà, ecco allora una seconda, più grave, imputazione e un secondo processo. L'accusa, per la quale egli rischia altri ventidue anni di carcere, è di avere fatto parte, insieme al proprio vice Lebedev, di un “gruppo criminale” che ha fraudolentemente sottratto alla Yukos, la sua impresa, 350 milioni di tonnellate di petrolio tra il 1998 e il 2003. Prendendo la parola nei giorni scorsi dalla gabbia di vetro dell'aula del Tribunale di Mosca, con l'aria scanzonata che tanto irrita gli inquisitori e gli conquista le simpatie del pubblico, l'imputato ha respinto l'accusa come “illogica”, poiché la quantità rubata sarebbe addirittura superiore a quella effettivamente prodotta, e “politicamente orchestrata dai miei avversari per impedirmi di tornare libero”.

    La difesa di Khodorkovsky, consapevole del fatto che oggi, in un tribunale russo e soprattutto in un processo come questo, i buoni argomenti possono avere un'efficacia molto limitata, ha deciso di giocare anche una carta politica. Il nuovo presidente Dmitri Medvedev ha fatto della battaglia contro il “nichilismo giuridico” uno dei propri cavalli di battaglia. Quale migliore occasione per dimostrare che non si tratta solo di belle parole e che il nuovo inquilino del Cremlino ha la forza, oltre che le buone intenzioni, per battersi a favore di un maggiore rispetto della legge? In fin dei conti, la perestroika di Gorbaciov ha cominciato a essere presa sul serio dopo che il capo del Pcus ha ordinato la liberazione di Andrej Sakharov dall'esilio di Gorkij. Prendendo alla sprovvista una parte dei suoi sostenitori liberal, Khodorkovsky, che non ha mai lesinato critiche a Putin, nell'ottobre scorso ha pubblicato sul quotidiano Vedomosti un articolo che è suonato come un'apertura di credito verso Medvedev e verso il suo manifesto riformatore “Avanti, Russia!”. In particolare Khodorkovsky dichiara di condividere i giudizi critici del presidente sullo stato dell'economia russa e gli allarmi sull'endemica corruzione dei funzionari pubblici.

    Non è chiaro però quale effetto potrà avere, in definitiva, questa ulteriore politicizzazione di un caso che è stato politico fin dall'inizio. Qualunque cuneo insinuato tra Putin e Medvedev va infatti a toccare il più intimo tabù di questa presidenza, l'equilibrio dei poteri tra i due e tra i rispettivi clan. Quel che è certo è che, col passare del tempo, il caso Khodorkovsky ha cambiato natura. Cinque anni fa, la condanna del magnate che si era arricchito approfittando delle caotiche condizioni in cui versava la Russia post sovietica era stata accolta dal consenso popolare e Putin aveva potuto presentarsi come un giustiziere. Ma se vai in Siberia e non ti pieghi, agli occhi dell'opinione pubblica appari purificato. L'evidente persecuzione e la condotta coraggiosa dimostrata dall'ex petroliere gli hanno creato una statura morale e politica che oggi, a Mosca, fa risuonare la classica domanda: chi ha paura di Khodorkovsky in libertà?

    Tanto più che ora anche la sua biografia pre-arresto, servita cinque anni fa a coagulare il risentimento popolare verso l'élite degli arricchiti, appare piuttosto quella di un uomo molto capace, intraprendente, certo spregiudicato, che ha saputo cogliere l'occasione storica per costruire qualcosa di molto importante. In fin dei conti – viene da dire – se dopo anni e anni di inquisizione non si è trovato, in quella fulminante carriera, nessun episodio davvero compromettente, nessun preciso delitto (Putin ha parlato di “fatti di sangue” nel passato della Yukos, ma nessuna incriminazione ne è venuta fuori), allora resta solo un curriculum di strepitosi successi.

    Nato a Mosca nel 1963 da una famiglia ebraica di piccoli ingegneri, Khodorkovsky a ventitré anni si è laureato in una delle prestigiose facoltà di chimica dell'Urss, l'Istituto Mendeleev. Come ogni ragazzo ambizioso, era iscritto al Komsomol, l'organizzazione giovanile comunista, nella quale aveva fatto una discreta carriera. “Sono cresciuto da bravo giovane comunista”, scriverà nel suo epistolario dal carcere con la scrittrice Ljudmila Ulitzkaja, “fin dall'infanzia volevo diventare direttore di fabbrica”, con una predilezione verso il settore militare, per difendere la patria dai “nemici esterni”. Poi arrivò la perestroika, con la legge che permetteva di ottenere finanziamenti pubblici per aprire piccole attività commerciali: così, nel 1987, Khodorkovsky creò una “cooperativa” che disegnava software e importava computer, mettendo insieme rapidamente una rispettabile fortuna (dopo il primo anno fatturava già 10 milioni di dollari). Nel 1989 fondò la Menatep, una delle prime banche private in Russia: i soldi dei depositi servivano ad allargare il giro d'affari della cooperativa. Una delle qualità riconosciute di Khodorkovsky è sempre stato il suo talento nel costruire relazioni personali, abilità che gli permise, in quel periodo, di ottenere molte commesse dal governo sovietico.

    Nel 1995 Khodorkovsky, a trentadue anni, aveva ammassato sufficienti ricchezze e stretto le relazioni giuste per fare il grande salto: acquistare la Yukos, una mastodontica compagnia petrolifera di proprietà dello stato. La pagò poco più di 300 milioni di dollari (per sua stessa ammissione, una parte del denaro gli fu anticipata, grazie ai buoni rapporti, dai suoi amici del ministero della Difesa); due anni dopo valeva 9 miliardi. Naturalmente, per fare tanti soldi, erano necessari pochi scrupoli e molto pelo sullo stomaco (“Niente di illecito, ma ho approfittato di qualsiasi falla nella legislazione”). L'americana Amoco, che aveva un accordo con la Yukos per lo sviluppo di un terreno petrolifero nella Siberia occidentale, fu estromessa da Khodorkovsky senza alcun indennizzo e si rese conto a proprie spese di quanto fosse avventuroso fare affari nella Russia post sovietica. Khodorkovsky volle però fare della propria azienda un'impresa modello: per primo introdusse criteri di trasparenza nella gestione, secondo gli standard occidentali, e assunse manager dall'estero. Durante la grande crisi economica del 1998 anche la Yukos attraversò un brutto momento (crollo del prezzo del petrolio e casse vuote per pagare gli stipendi), ma ne venne fuori.

    L'ultimo ambizioso progetto, nell'aprile 2003, fu quello di fondersi con Sibneft: ne sarebbe dovuta venir fuori una delle più grandi compagnie petrolifere del mondo. Ma l'arresto, il processo, lo smembramento e la vendita della Yukos bloccarono tutto. In quel momento Khodorkovsky era l'uomo più ricco di Russia, viveva, con la moglie e quattro figli, in una fortezza tra gli alberi nei dintorni di Mosca circondato da guardie del corpo.
    Nel frattempo aveva dischiuso un nuovo fronte, quello che probabilmente gli è stato fatale, creando la fondazione “Russia aperta”. Scopo dell'istituzione, quello di far attecchire nel paese i valori della democrazia liberale nell'accezione più “occidentale” del termine: non per nulla nel board erano state invitate figure come Henry Kissinger e Lord Rothschild. Tra le attività, il finanziamento delle forze di opposizione. Del resto, la politica per Khodorkovsky non era una totale novità. “Mi sono sempre considerato un uomo della squadra di Eltsin”, ha scritto dal carcere. “Proprio per questo andai a difendere la Casa Bianca nel 1991 e il municipio nel 1993. E proprio per questo entrai nello stato maggiore informale della campagna elettorale del 1995-'96”. Probabilmente il Cremlino avrebbe preferito che Khodorkovsky lasciasse il paese, come già avevano fatto gli oligarchi caduti in disgrazia Vladimir Gusinskij e Boris Berezovsky, e l'arresto del suo vice Platon Lebedev, in una stanza d'ospedale, doveva valere da monito. Ma il capo della Yukos (per ambizione? per orgoglio? per amore del proprio paese?) ha scelto invece la testimonianza e la lotta.

    La reclusione è stata totale. Fino al marzo dello scorso anno, quando è stato trasferito a Mosca per il secondo processo, Khodorkovsky ha scontato la pena nella prigione di Krasnokamensk, nella regione siberiana di Chita, ai confini con la Cina. Per raggiungerla da Mosca, ci vogliono sette ore di aereo più altre quindici di treno. L'impiego del tempo: otto ore al giorno a cucire guanti. Per ogni trasgressione del regolamento, la cella di rigore. “Il carcere – ha scritto – non è la migliore delle esperienze: è il luogo dell'anticultura, dell'anticiviltà. Qui il bene è male, la menzogna verità. E' orribile vedere come ogni giorno pochi si salvano, mentre decine di destini umani affogano. Qui una condizione importantissima è l'autodisciplina. O lavori su te stesso o ti degradi”. Il detenuto non può incontrare i giornalisti, però comunica col mondo esterno tramite i propri avvocati: è così che, ogni tanto, sulla stampa arriva qualche suo articolo (per l'ultimo, pubblicato dalla Nezavisimaja Gazeta all'inizio di aprile, la procura ha aperto un fascicolo per violazione della “legge contro l'estremismo”).

    Sempre attraverso i suoi avvocati, Khodorkovsky ha intessuto un epistolario con alcuni esponenti di spicco lella letteratura russa: Ljudmila Ulitzkaja, Boris Akunin, Boris Strugatsky. Il materiale, che il Foglio ha potuto consultare, è in gran parte inedito e dovrebbe diventare un libro. Khodorkovsky vi parla di sé, della propria esperienza, delle proprie idee. Racconta anche quale è stata la molla che lo ha spinto a “passare il Rubicone” e a entrare in politica. Nel 2001, il canale televisivo indipendente Ntv, inviso al Cremlino, venne strangolato a causa dei debiti che aveva con Gazprom. Khodorkovsky cercò, invano, di salvare l'emittente finanziandola con 200 milioni di dollari. “Se avessimo salvato Ntv, probabilmente sarei stato meno attento agli altri avvenimenti, e avrei lasciato la politica a colleghi più attivi. Ma avevo ormai la sensazione di un cappio al collo”. Quanto all'ideologia, “pur sapendo che molti liberali, miei amici, non sono d'accordo con me”, l'illustre detenuto professa una sorta di socialdemocrazia: “Il ruolo dello stato, la sua partecipazione nella vita economica e sociale, in questa fase deve accrescersi”. Le sue idee, però, non sono mai convenzionali: a proposito degli agenti del Kgb con cui, in epoca sovietica, si trovò a lavorare nell'industria militare, scrive che “erano specialisti molto seri, molto qualificati, molto onesti”. Intende gli uomini che si occupavano del controspionaggio, non della repressione: quelli “non erano rispettati, li evitavamo sia noi sia gli specialisti di cui ho parlato”.

    Uno di quegli “specialisti”, arrivato al vertice del potere, è ora diventato il suo più temibile persecutore. Non sarà certo dalla sua benevolenza che Khodorkovsky potrà sperare in un esito fausto dell'attuale processo ma dall'idea che egli si farà delle proprie convenienze. Per questo gli avvocati della difesa accolgono con estremo favore tutte le manifestazioni di solidarietà e le pressioni provenienti dai partner occidentali della Russia. Difficile immaginare che nella loro recente conversazione privata il presidente del Consiglio italiano abbia sollevato la questione con “l'amico Putin”. Ma nel 2005 l'allora senatore Barack Obama, insieme ai suoi colleghi John McCain e Joseph Biden, aveva fatto votare al Senato degli Stati Uniti una risoluzione in cui si diceva che la giustizia russa “non aveva accordato” a Khodorkovsky e Lebedev “un trattamento equo, trasparente e imparziale”. E durante la sua visita a Mosca, nel luglio scorso, il presidente americano ha dichiarato alla Novaja Gazeta: “Mi sembra strano che queste nuove imputazioni, che sembrano riconfezionare le vecchie accuse, emergano ora, dopo anni che queste due persone sono state in prigione e quando avrebbero i requisiti per la scarcerazione”.