L'esperimento in Norvegia

Tv, jogging e un lavoro per tutti: così il carcere diventa umano

Giulia Pompili

Può esistere un carcere “a misura d'uomo”? A quanto pare sì. Lo hanno inaugurato ad aprile in Norvegia, dopo dieci anni di lavoro e oltre duecentocinquantamila dollari. Oggi il Time analizza il sistema della prigione di Halden, trenta ettari nel sud est della Norvegia, dove lo spazio per i detenuti è costruito in modo da sembrare il più possibile vicino alla quotidianità di una persona libera.

Leggi anche Il lavoro come mezzo (di recupero) per decongestionare le carceri

    Può esistere un carcere “a misura d'uomo”? Capace di creare un percorso riabilitativo, e non solo punitivo? A quanto pare sì. Lo hanno inaugurato ad aprile in Norvegia, dopo dieci anni di lavoro e oltre duecentocinquantamila dollari. Oggi il Time analizza il sistema della prigione di Halden, trenta ettari nel sud est della Norvegia, dove lo spazio per i detenuti è costruito in modo da sembrare il più possibile vicino alla quotidianità di una persona libera. Servizi come uno studio di registrazione, dei percorsi di jogging e di una casa indipendente dove i prigionieri possono ospitare le loro famiglie per visite prolungate, il tutto a disposizione di 248 detenuti (Halden è la seconda prigione della Norvegia, dopo quella di Oslo). Un esperimento sensazionale, se visto alla luce dei dati italiani: nelle carceri della penisola, attualmente gli obbligati sono oltre 67 mila, con ovvi problemi di gestione degli istituti di pena, e dal 2010 si sono registrati già ventidue suicidi. Qualche mese fa il Premier, Silvio Berlusconi, aveva lanciato l'ipotesi dei domiciliari per le pene brevi, ma una riforma sistematica tarda ancora a venire.

    Il sito internet della “cittadella” norvegese, invece, è pieno di immagini e fotografie di detenuti sorridenti, offre materiale dettagliato sulle modalità di ingresso per le visite, proprio come all'aeroporto, un modulo on line di richieste, e anche un'area “lavora con noi”. Tutto sembra fatto per non far perdere la dimensione dell'"esterno" né al detenuto, né ai suoi familiari.

    Are Hoidal, il responsabile della prigione, minimizza
    : “Nel sistema carcerario norvegese, c'è molta attenzione ai diritti umani e al rispetto. Non c'è niente di inusuale in tutto questo”. Il sistema di recupero norvegese è basato sulla fiducia, secondo un modello per cui i metodi repressive non funzionano e i prigionieri trattati umanamente incrementerebbero le loro possibilità di reinserimento nella società. Tutta la struttura sembra riproporre questo sistema: “La cosa più importante è che il carcere appaia molto simile al mondo esterno”, afferma Hans Henrik Hoilund, uno degli architetti.

    E così, il muro di cinta esiste ma è coperto dagli alberi, e non esistono grate e ferro. Ogni cella, ha a disposizione tv e frigorifero, compresi soggiorno e cucina in condivisione, per incrementare l'autonomia. Le guardie carcerarie non portano con loro armi, simboli di aggressività che aumentano la distanza umana, sono per la maggior parte donne e mangiano insieme ai detenuti. All'interno della struttura, sono presenti corsi di formazione professionale che facilitano il reintegro in società, come la scuola di cucina e quella di falegnameria, oltre a un liceo, squadre agonistiche di vari sport e un coro. Qualcosa che assomiglia molto più a una comunità di recupero che a un carcere, e infatti, entro i due anni dalla loro liberazione, in Norvegia soltanto il venti per cento dei detenuti torna dentro (in Inghilterra e Stati Uniti, la cifra si aggira tra il 50 e il 60 per cento, anche se in confronto, hanno un livello di criminalità tra i più alti del mondo).

    Leggi anche Il lavoro come mezzo (di recupero) per decongestionare le carceri

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.