Nel 1949 la tragedia aerea
Non c'è una via per capire il Grande Torino, bisogna venire qui a Superga un 4 maggio
Qualunque tifoso granata c’era, il 4 maggio 1949. Anche se non c’era ancora, c’era. Ogni volta che si è lì, davanti alla lapide coi nomi, si sente il rumore dell’aereoplano che arriva alle spalle, da quelle colline le cui nebbie scrissero la parola fine
La squadra più forte del mondo decise di fermare la sua storia e di cominciare la sua eternità un pomeriggio di inizio maggio del 1949, sotto la pioggia, schiantandosi su una collina della città che li amava. Con il quinto scudetto consecutivo in cassaforte, tornavano da un’amichevole in Portogallo dove, per un’ironia della sorte tutta granata, avevano perso. Loro, che non perdevano mai. Loro, che l’anno prima avevano finito il campionato con 16 punti di vantaggio sulla seconda, segnando 125 reti e subendone 33. Loro, che la Nazionale italiana una volta ne schierò dieci titolari. Loro, che una domenica vinsero 10-0 e Grezar fece un gol stoppando di petto il pallone rinviato dal portiere e tirando al volo, da centrocampo. Loro, il Grande Torino. Un lampo secco, frastornante e muto contro il muro posteriore della basilica di Superga. Loro, che Bacigalupo - Ballarin - Maroso - Grezar - Rigamonti - Castigliano - Menti - Loik - Gabetto - Mazzola - Ossola lo sapevano e lo sanno tutti a memoria. In un niente se ne andarono, ma in realtà rimasero per sempre, più che se fossero invecchiati come tutti.
Gianpaolo Ormezzano, che di Toro ha scritto e vissuto una vita intera, li racconta come un insieme di giocatori bravi, non bravissimi. Tutti universali, nessun extraterrestre. Il presidente Ferruccio Novo aveva costruito questa meraviglia con l’aiuto nascosto, così piemontese, di Vittorio Pozzo, commissario tecnico della Nazionale, un’eminenza granata che consigliava i pezzi più pregiati. Senza fenomeni, poche virtù tecniche. Nessuno come il Grande Torino, però, aveva il senso costante dell’utilità, il senso della squadra; e della rappresentanza: Coppi e Bartali erano l’Italia che vinceva il Tour, loro erano l’Italia. Oggi, l’unica maglia di club presente al museo del calcio di Coverciano, tra le decine di casacche azzurre, è quella granata con il 10 di Valentino Mazzola, il capitano. Che non era un sublime impasto ante litteram di Cruiff e Di Stefano, ma aveva un carisma, una potenza e un’eccezionalità unici. Mazzola, che quando decideva che non ce n’era più per nessuno, non ce n’era più per nessuno. Quando il Toro era sotto, la tromba di Bolmida dagli spalti suonava la carica. Era il segnale convenuto: Mazzola si rimboccava le maniche, guardava i suoi, e in un quarto d’ora ribaltava il risultato. Con la Lazio: il 30 maggio del ’48 il Torino perdeva 0-3. In pochi minuti fu 4-3. Il quarto d’ora granata. Perfino Umberto Agnelli, studente a Roma, dopo un 7-1 contro la squadra che sarà di Totti, si vantava del Torino coi compagni di corso. Nessun granata potrebbe mai fare lo stesso per una vittoria dei cugini. Per via del complesso di superiorità.
Come gli eroi greci che morivano giovani, hanno scritto in tanti. Ma più degli eroi greci. Hanno insegnato a un popolo che il calcio è una cosa seria, perché c’entra con la vita, perché anche lì c’è la morte. E ogni 4 maggio quel popolo sale su, si inerpica per andarli a trovare. Alla messa di don Aldo Rabino siedono accanto il capo ultrà e il vecchio signore che ha visto tutte le partite in casa, un bambino col papà e Claudio Sala, l’ala destra dell’ultimo scudetto, una ragazzina e Zaccarelli, ex capitano sempre commosso. Poi si esce e si va alla lapide, in silenzio. Poco per volta ci sono tutti. Quando arriva Paolo Pulici è come rivedere un vecchio amico, lo si saluta con un applauso piano, un po’ sabaudo. Nel luogo dell’impatto il capitano del Torino di turno legge i nomi degli Invincibili. Nessun presente sarà mai all’altezza di quella squadra. Forse questa coscienza è la maledizione del Torino, ma è anche la sua fortuna: in quel momento non viene nemmeno il sospetto che sia così. In quel momento è tutto una cosa sola.
Non c’è una tecnica per capire cosa sia il Grande Torino, bisogna venire a respirarne l’aria: una volta si faceva nell’antistadio del Filadelfia (quattro anni senza perdere una partita, su quel prato), dove i vecchi che sembrava fossero lì da sempre raccontavano il Toro. Ora che del Filadelfia son rimasti pochi mattoni quell’aria è in quella gente che vien su ogni 4 maggio, e che spiega ai propri figli che il Toro era imbattibile, che Bacigalupo in porta era un gatto, che Ossola era imprendibile, e che poi va allo stadio a tifare per i più o meno brocchi attuali. Che raccontano di quando Mazzola salvò un gol a porta vuota fermando col tacco il pallone calciato da un avversario che dovette abbassare le braccia già alte in segno di esultanza e tornare a capo chino verso metà campo. Non fece in tempo ad arrivarci, però: quando, appena fuori area, alzò gli occhi verso la propria porta, vide Mazzola che segnava un gol. Quell’avversario era Giampiero Boniperti, la squadra la Juventus.
Superga non è un ricordo funebre, è come un punto certo che dice che quella gente ha ragione anche se il calcio è una cosa sempre più fredda e meno poetica. Pur mugugnando davanti a chi oggi indossa quei colori, ogni tifoso sa che il destino tifa Toro. Soltanto, a volte prende strade strane. Arrivando dalla salita che porta di fronte alla basilica di Superga viene spontaneo fare il giro. Prima di guardare il panorama sulla città, è naturale andare a vedere dove è nato il mito. Qualunque tifoso granata c’era, il 4 maggio 1949. Anche se non c’era ancora, c’era. Ogni volta che si è lì, davanti alla lapide coi nomi, si sente – improvviso – il rumore dell’aereoplano che arriva alle spalle, da quelle colline le cui nebbie scrissero la parola fine. E di colpo è rombo, nebbia, pioggia, schianto, fiamme, metallo, silenzio. Troppo silenzio. Dove sono i campioni? Non sono più qui. Già sono andati a vincere di nuovo tutto da un’altra parte. Per sempre.
Il Foglio sportivo - in corpore sano