Italo nella tempesta perfetta

Stefano Di Michele

"Ludibrio!”, urlò il capo. “Pubblico ludibrio!”. Poi scandì: “Bocchino!”. Bocchino Italo, onorevole maritato Buontempo – e se gli dite che è lui il marito di Gabriella Buontempo, piuttosto che lei sua moglie, sorride e acconsente – è pietra dello scandalo, a leggere le cronache inciampo berlusconiano e lampada finiana, all'incrocio dei venti di tempesta che squassano il partitone di Silvio. Bocchino? Possibile? E chi doveva dirglielo a Italo che nel parapiglia la sorte dello spretato politico e dell'ufficiale degradato a lui sarebbe toccata?

    "Ludibrio!”, urlò il capo. “Pubblico ludibrio!”. Poi scandì: “Bocchino!”. Bocchino Italo, onorevole maritato Buontempo – e se gli dite che è lui il marito di Gabriella Buontempo, piuttosto che lei sua moglie, sorride e acconsente – è pietra dello scandalo, a leggere le cronache inciampo berlusconiano e lampada finiana, all'incrocio dei venti di tempesta che squassano il partitone di Silvio. Bocchino? Possibile? E chi doveva dirglielo a Italo – mesto nome patriottico sparito ormai da ogni registro battesimale – che nel parapiglia la sorte dello spretato politico e dell'ufficiale degradato a lui sarebbe toccata? Nel gran botto a seguito della notoria riunione direzionale, così che un continente si mutò in confuso arcipelago, solitario atollo su un divano in un corridoio di Montecitorio Bocchino sta. Brevilineo, fanfanianamente parlando, strizza gli occhi, allarga le braccia e allunga le non illimitate gambe: “Eccomi, uno scricciolo…”. Un intrigante punto di vista – specchietto delle brame dove tutto il dramma del centrodestra quasi si riflette: a icona, a paradosso – per meglio intendere l'accaduto, la sorte bocchiniana. Che colonnello non fu, anzi un passo sempre dietro i colonnelli rimase, e adesso nel presidio finiano gli tocca la sorte eccessiva e gravosa di certi personaggi che Antonio Albanese porta con sé in scena: “Sparami in petto, che in testa non mi fai niente!”.

    Né di spavento fa mostra, né di pentimenti parla. Anzi, di una cosa si pente, una sola cosa: di quando in uno dei tanti salotti televisivi che volgono in osteria ha rissato con il berlusconiano Maurizio Lupi, ma oggi si scusa e si batte il petto per quel sommarsi di urli e di invettive – “ma sei fuso!”, si rinfacciava; “ti abbiamo toccato Comunione e liberazione e sei nervoso!”, si replicava – e Bocchino ammette, “uno scazzo, l'unica cosa che non rifarei, non ero quello che urlava di più, però non si dà certo un bello spettacolo”. Prima di finire al centro della perfetta tempesta pidielle, l'intera storia tra il Msi e An, più il proficuo accoppiamento con il Cavaliere, Italo Bocchino ha costeggiato. Ma colonnello mai. “Al più, attendente del vicecomandante generale, tenentino, capitano, maggiore…”. E ha un solo momento di amarezza, mentre con gli occhi cattura la poca luce del cortile di Montecitorio e rari sguardi di rari parlamentari. Ieri la sua amica Mara Carfagna – che a lungo Italo ha scortato per il Transatlantico nei primi approcci alle istituzioni, difendendola e difendendosi da voci e insinuazioni – ha misurato pubblicamente la distanza da lui, “ora siamo su due fronti contrapposti, lo dico chiaramente”. Bocchino sospira: “La Carfagna mostra tutta la debolezza del prodotto del berlusconismo su quello personale. Lei sa che doveva dare quella risposta, perché il concorso a cui ha partecipato prevedeva questo”.

    Della scomposizione umana prima che politica che lo spariglio tra i due sommi capi ha aperto, mille volte gli hanno chiesto, a Bocchino, e mille volte ha risposto. Di come Gasparri, in fondo, fosse già altrove. Di quanto, invece, lo sorprende la posizione di La Russa e di Alemanno, e pure Matteoli, a Fini così legato. “Ci sono venti, trent'anni di rapporti personali… Alcuni passaggi di Maurizio li ho compresi, quelli di Ignazio no, anche se i legami umani restano indissolubili… E soprattutto, ci sono tanti parlamentari che da Fini hanno avuto tutto, ma proprio tutto, e per primi hanno voltato le spalle”. Dice Bocchino che questo è il gioco, e che la ferita è sì umana, ma anche politica, “e qualcuno ha detto a Berlusconi che come vicario del gruppo parlamentare potevo creare sostegno intorno a Fini”. Il pidielle adesso ha di queste botole improvvise, di questi rapporti che passano, di sguardi che s'incurvano. Alza le spalle: “In questi passaggi ci vuole sempre uno che si assuma la responsabilità di metterci la faccia”. Dice che era sua, quella faccia (pure Berlusconi lo dice), e così per troppa faccia Italo ci ha rimesso la testa – nella tonnara mediatica e politica che mira a Fini e ai superstiti finiani. Ma è cronaca già scritta, già vista. Qui è il paradosso Bocchino che interessa, che se uno per il pidielle sembrava fatto era Italo – nel suo lento, meridionale bordeggiare – e infine Italo il meno adatto a Berlusconi è sembrato.

    C'è una foto che tutto racconta. Metà anni Novanta, quando Italo sposa Gabriella – e fu gran matrimonio, impreziosito dal garbo estetico di Graziella Lonardi, zia della sposa, mondanità e arte, Capri e Roma, un suo ritratto di Andy Warhol sovrastava il bellissimo appartamento dentro palazzo Taverna, e una tela di Guttuso faceva da sfondo al ridente Bocchino – così un piccolo multiplo di Mario Schifano, un Vesuvio festoso che eruttava anelli nuziali, fu dato in dono agli invitati. E nella foto di gruppo di quello sposalizio c'era la rappresentazione di un mondo adesso squassato, superato, in parte avvelenato – più l'uomo che insieme lo teneva e che adesso non c'è più. Ci sono Fini e Gasparri, Urso e Matteoli, La Russa e Salvatore Sottile. In prima fila, Pinuccio Tatarella. Ecco, si deve tornare indietro di qualche anno, quando il Polo vinse le elezioni – al primo, scombinato e fervente governo Berlusconi. Bocchino fino a quel momento era stato l'attendente, dice così, di Tatarella, e giornalista del Secolo d'Italia. Un giornalista del Secolo fino a quel trionfale '94 era poco più di un'ombra dentro la sala stampa di Montecitorio: con il fascio collega poco si trattava e niente si praticava. Ma siccome sempre il successo crea simpatia, a vittoria elettorale segue opportuno apprezzamento.

    E oggi che i pezzi di quel festevole puzzle matrimoniale sono andati per aria, bene si combina con la spoliazione attuale – che il Cavaliere vorrebbe finale e definitiva, ma la sorte è buffa e la pazienza per rifare un mosaico necessaria – quello che una mattina capitò di vedere al bar Giolitti, vicino alla Camera. Il piccolo giornalista fascista era diventato il braccio destro del potente vicepresidente del Consiglio. Entra un famoso notista politico, di giusta misura e di adeguata autoconsiderazione. “Ora ti faccio vedere come si capisce che abbiamo vinto”, mormorò Bocchino a un collega dell'Unità. E a voce alta, stentorea, chiamò il famoso giornalista. Quello, un dì sdegnoso, si volta, faccia rapita tra gioia e meraviglia, allarga le braccia festoso: “Maestro!”. Ogni cosa andò poi come ognuno sa: si vinceva e perdeva, An su e giù, i soliti due noti litigavano e facevano pace, fino al botto finale. E Bocchino – che tra i primi introdusse la pratica del brunch (“ma bisogna andare mangiati?”), e risultava tenutario dell'ultima giacca da camera con mappette della penisola, ogni evolversi seguì cauto, serate e amici, confessione di canna da diciottenne, addebito all'eccesso di femminismo della eccessiva frequentazione di trans da parte dei mariti – il solito riposante andazzo di tanti che post fascisti furono. Poi, il gioco dei rimbalzi del più grande gioco puntò su di lui. Si scansarono i colonnelli, rimase il tenentino – ora maggiore, al più. E il fulmine berlusconiano su di lui – che pure molto fece per attirarselo – cadde e incenerì. Storia esemplare non meno che paradossale, dentro la poco esemplare e lo stesso paradossale faida pidiellina. Dove tutto si scontra, ma pure, e ancora paradosso è, tutto s'incontra.

    Così, Bocchino racconta che è “molto amico” di Tarak Ben Ammar (“il primo lavoro di produzione, negli anni Novanta, Gabriella lo fece con lui”), il quale Tarak è anche molto amico pure di Berlusconi, persino suo socio d'affari è stato: visto mai, i benefici di un tè nel deserto… Il bardo finiano non è certo solo vittima, ma di sicuro è stato il bersaglio più facile. Sorride: “Metodo bastonatura”. E se adesso mettono di mezzo l'attività di sua moglie, dice che “ancora stavo a Caserta quando lei già frequentava la scuola di cinema, alla New York University: solo dopo mi ha conosciuto”. E Tatarella, che spacciava armonia dentro ogni burrasca (ma mai così burrascosa), ecco, Pinuccio che avrebbe fatto? “Prima avrebbe dimostrato la sua forza, in maniera anche virulenta, poi avrebbe trattato. Ma solo dopo aver dimostrato che della sua forza non si poteva fare a meno…”. Nel sito Italo ha per slogan: “E' necessario inseguire un sogno” – è finito inseguito lui, alla biforcazione esistenziale tra furia berlusconiana e incaponimento finiano. In un film prodotto da Gabriella, per devozione maritale piuttosto che artistica, si capisce, Bocchino fece la comparsa: un cameriere in “La bruttina stagionata”. Sarebbe perfetta soluzione alla tempesta perfetta: non potrebbe tranquillamente replicare la stessa parte pure per “il bruttino stagionato”, e buonanotte? Sorriso incazzoso. “Questa battuta non l'ho detta io”.