Torinesità, pallida sindone
Drastico è stato Nerio Nesi, torinese di adozione (anni di Olivetti) e banchiere di lungo corso (nel periodo Ottanta-Novanta presidente della Bnl, allora prima banca italiana). Commentando il pasticciaccio della Compagnia di San Paolo che si è divisa sulla scelta del candidato alla poltrona di presidente del Consiglio di gestione di Intesa San Paolo, provocando il gran rifiuto di Domenico Siniscalco, ha usato parole dure su Torino e la torinesità: “La vicenda – ha detto – è lo specchio della città che ha perso i suoi tradizionali punti di riferimento".
Drastico è stato Nerio Nesi, torinese di adozione (anni di Olivetti) e banchiere di lungo corso (nel periodo Ottanta-Novanta presidente della Bnl, allora prima banca italiana). Commentando il pasticciaccio della Compagnia di San Paolo che si è divisa sulla scelta del candidato alla poltrona di presidente del Consiglio di gestione di Intesa San Paolo, provocando il gran rifiuto di Domenico Siniscalco, ha usato parole dure su Torino e la torinesità: “La vicenda – ha detto – è lo specchio della città che ha perso i suoi tradizionali punti di riferimento: la Fiat, la Stampa, il San Paolo, la classe operaia, l'ispirazione intellettuale della scuola di Norberto Bobbio, la borghesia erede della resistenza”. Qualcuno, scendendo prosaicamente di livello, ma toccando un tasto dolente e molto sentito, ha rincarato la dose: un altro punto di riferimento che se ne è andato è la Juventus, la squadra ai trionfi avvezza che, dopo essere sopravvissuta all'ignominiosa retrocessione in serie B, quest'anno ha giocato un campionato penoso che la escluderà nella prossima stagione dalla Champions League, l'Europa che conta calcisticamente.
I coristi della fine della torinesità, a conferma del fatto che ormai la capitale sabauda, da un punto di vista del potere economico-finanziario, è in piena decadenza ed è diventata la città dei “non c'è più”, invitano a guardare il palco delle autorità che hanno preso posto domenica scorsa in piazza San Carlo attorno a Benedetto XVI che celebrava la Messa: “Se osservate quelle istantanee vedrete che non c'è un solo personaggio di spicco a livello nazionale o, meno che mai, internazionale. Non ci sono delle star, quelle che garantirebbero titoli da prima pagina”. Ed è vero. John Elkann, erede del casato Agnelli che concentra nelle sue mani tutto quanto resta del potere della famiglia Agnelli, essendo presidente dell'accomandita-cassaforte, della finanziaria-holding Exor e, da pochi giorni, della stessa Fiat, era assente per ragioni di lavoro. Ed era l'unico che avrebbe potuto dar lustro a quel parterre, per il resto popolato non certo da numeri uno, da volti immediatamente riconoscibili almeno a livello nazionale.
“La ragione è molto semplice: le star a Torino non ci sono, la città non le produce”, ha detto al Foglio Evelina Christillin, appartenente per nascita (poi anche per merito) alla Torino che conta, organizzatrice delle Olimpiadi invernali del 2006, ora presidente del Teatro Stabile e, secondo molti, seria candidata alla carica di sindaco per il centrosinistra alle prossime elezioni comunali del 2011: “Una volta c'era l'Avvocato. Lui aveva una tale personalità, un tale carisma che costituiva un passaggio obbligato per chiunque, a qualsiasi livello, avesse rapporti o contatti con l'Italia. I Gorbaciov o i Kissinger, tanto per citare due nomi, passavano da lui. E la città viveva di questa luce riflessa che la proiettava, ingigantita, sulla scena nazionale e internazionale. Forse c'era troppa enfasi. Probabilmente neppure la Torino di allora aveva quel peso che, mediaticamente, le veniva assegnato. Comunque ora l'Avvocato non c'è più. Così come non ci sono più i maître à penser come Bobbio, Galante Garrone, Passerin d'Entrèves. La città deve abituarsi a far senza”. E ci riesce, secondo molti torinesi, anche senza grandi difficoltà, dato che le viene naturale. Anche se sul palco, a fianco del Pontefice, ci fosse stato John Elkann, non avrebbe svolto la parte di una star, perché non lo è: è schivo, riservato, non cerca la prima fila, i riflettori. Lui e suo cugino Andrea, figlio di Umberto, l'altro ramo della famiglia con la quale si è da poco rappacificato affidandogli la presidenza della Juventus, sono degli anti divi: “Sono entrambi giovani e belli e hanno mogli giovani e belle: eppure non compaiono nei gossip, nelle cronache mondane – dice ancora Christillin – Proprio perché non sono e non vivono da personaggi del jet set, da star. Le star non rientrano nella gamma di produzione sabauda”.
Sarà. Ma in una società mediatica, questa assenza contribuisce a dare l'impressione che Torino sia diventata un peso piuma. E non solo per il pasticcio della fondazione San Paolo. La Fiat, per esempio, non è più la multinazionale di un tempo che impensieriva concorrenti come la Volkswagen. E questa non è solo una questione di immagine, di testimonial che ne affermano il marchio in giro per il mondo. La Fiat ha perso terreno, trascinando nella sua retromarcia, nel suo ridimensionamento, tutta la città. “Su questo punto non sono d'accordo – ha detto al Foglio Giuseppe Culicchia, scrittore che sa tutto di questa non metropoli (“lo diventerà solo quando si troverà almeno un ristorante aperto anche di notte”) alla quale ha dedicato il libro “Torino è casa mia” – Solo tre o quattro anni fa tutti davano la Fiat per fallita, poco prima si diceva che sarebbe finita nelle mani degli americani della General Motors. Invece abbiamo assistito a uno straordinario recupero, a un'inversione di rotta. E questo è un bene, la città lo ha capito. Nei periodi trionfali della Fiat, molti torinesi pensavano che la grande fabbrica fosse davvero troppo grande, che asfissiasse la città. E hanno accolto con favore i suoi primi ripiegamenti perché hanno lasciato spazio ad altre attività, come per esempio la cultura. Poi però si sono accorti che Torino non sarà mai Venezia o Firenze. E che è positivo che la Fiat si sia rimessa in sesto, che continui a essere una realtà torinese”.
Una realtà che, tuttavia, non è più sufficiente a far figurare dignitosamente in quell'eterno duello Mole-Duomo di cui tanto si sono occupati recentemente i giornali proprio per via della vicenda delle nomine in Intesa San Paolo dove i torinesi guidati da Angelo Benessia hanno rimediato una figuraccia. O, per dirla davvero tutta, hanno preso una tale sberla che adesso viene messo in dubbio il ruolo dello stesso Benessia alla guida della Compagnia San Paolo (circa metà dei 21 consiglieri ne chiedono di fatto le dimissioni). Questa vicenda del derby continuo con Milano è diventata stucchevole per la maggior parte dei torinesi, che ormai sono rassegnati al fatto di non poter competere in molti campi (a partire dalla finanza) con gli storici rivali della Madonnina, ma non per questo si sentono figli di un Dio minore. Franco Bernabè, nato a Vipiteno, ma che ha vissuto a Torino moltissimi anni, qui ha fatto gli studi e ha iniziato la sua carriera prima all'Università con Franco Reviglio, poi alla Fiat come capo Ufficio studi e pianificazione, su questo argomento ha un'idea precisa: “Torino non è per nulla in declino – ha detto al Foglio – E' una città vivace, piena di idee, specie in campo culturale. Non appare, non ha la visibilità di Milano, ma è sicuramente più gradevole di Milano: la qualità della vita, nel complesso, è migliore. Il merito è soprattutto dell'amministrazione, di Sergio Chiamparino, che ha saputo gestire bene la città. Ma non è soltanto suo: anche in campo industriale ci sono alcune nuove imprese molto dinamiche, con delle prospettive interessanti”.
Allora la vera mutilazione Torino l'ha subìta in campo finanziario. Qui la perdita è secca, secondo gli umori della città. E ha una data di origine: il 2007. E nome e cognome del suo artefice, se si segue la stessa impostazione: Enrico Salza, 73 anni, uno dei pochi veri big rimasti in città. Negli anni Salza è diventato così importante da farsi nominare prima presidente della Camera di Commercio, poi della banca San Paolo-Imi. Negli anni della Fiat trionfante e dominante (e un po' ingombrante) in città, lui ha sempre e tenacemente svolto il ruolo dell'anti Agnelli. E' diventato un'icona del contropotere e questo gli ha dato potere, fino a portarlo alle poltrone suddette. La più importante però, quella della banca, nel 2006 ha incominciato a vacillare sotto la spinta degli spagnoli del Santander che volevano acquisirne il controllo. Lui allora ha favorito con tutte le sue forze la fusione con Intesa, che è stata celebrata nel 2007 portando alla nascita di Intesa Sanpaolo, prima banca italiana. La sua poltrona è stata salva, infatti nella governance duale gli è stato riservato il suolo di presidente del Consiglio di gestione (Giovanni Bazoli presiede quello di sorveglianza).
Ora che le cariche devono essere rinnovate, la Compagnia San Paolo (cui spetta anche se non formalmente, in quanto azionista, la designazione del presidente del Consiglio di gestione) ha deciso di sostituire Salza. Benessia ci ha provato candidando appunto Siniscalco, ma ha dovuto accettare anche un secondo nome, quello del professor Andrea Beltratti. Molti davano per scontato che sarebbe riuscito a far passare l'ex ministro del Tesoro: Benessia è molto stimato per le sue capacità diplomatiche, per le sue doti di navigatore fra gli scogli della politica e della finanza. Era considerato uno dei pilastri del nuovo potere di Torino. Evidentemente non è così abile come si pensava, e si è rivelato più travicello che pilastro visto come sono andate le cose. E non gli è servito, anzi al limite gli ha nuociuto, il pieno appoggio che ha ricevuto dal sindaco Chiamparino: molti ne hanno approfittato per gridare allo scandalo, al ritorno della politica nelle vicende delle banche private, come avveniva nei tempi bui, quando i partiti si dividevano le poltrone dell'intero sistema creditizio nazionale.
“Questa disavventura costerà molto cara all'immagine di Benessia”, dice uno dei più vecchi operatori di Borsa torinesi che preferisce però star fuori dalla mischia e non essere citato. “Il fatto paradossale è che, a gridare contro l'interferenza della politica, sia Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, l'altro azionista di peso di Intesa San Paolo, che è stato per tutta la sua vita sostenuto dalla Democrazia cristiana. Ma pazienza, ci siamo abituati a tutto. Il problema è che questa volta si è creata una frattura profonda all'interno della banca e non sarà facile ricomporla”. Così il derby ripartirà. Ed è probabile che assisteremo a parecchi falli.


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