Quella petulanza antimafia che è il risvolto dell'omertà
Eccoci in balia di nuove dicerie palermitane. Domani si ricomincia a ballare in Parlamento. Il genere è noto, e si pratica senza alcun pudore. E' un lavoro, un'industria. Peggio: è una fede, una creduloneria. Sono propalazioni generiche e teoremi sulla contiguità di mafia e stato. Un fatto accertato da oltre un secolo, la contiguità, che in mano agli storici si fa incontrovertibile fin dai tempi della “inchiesta privata” di due giovani dandy toscani, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, ma sulla piazza mediatico-giudiziaria diventa la solita grottesca caccia al mostro. Letteralmente, il mostro.
Eccoci in balia di nuove dicerie palermitane. Domani si ricomincia a ballare in Parlamento. Il genere è noto, e si pratica senza alcun pudore. E' un lavoro, un'industria. Peggio: è una fede, una creduloneria. Sono propalazioni generiche e teoremi sulla contiguità di mafia e stato. Un fatto accertato da oltre un secolo, la contiguità, che in mano agli storici si fa incontrovertibile fin dai tempi della “inchiesta privata” di due giovani dandy toscani, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, ma sulla piazza mediatico-giudiziaria diventa la solita grottesca caccia al mostro. Letteralmente, il mostro.
Vent'anni dopo il fallito attentato dell'Addaura, quando fu ritrovato molto esplosivo davanti alla villa al mare di Giovanni Falcone, eroe della lotta alla mafia, un articolo di Repubblica (Attilio Bolzoni) e la solita intervista allusiva del capo della procura antimafia, Piero Grasso, ci fanno ripiombare nel clima indimenticato del “tutto è possibile” e del “terzo livello”. Pronta la reazione delle istituzioni, con Walter Veltroni che subito registra e rilancia la versione a fumetti giapponesi della nuova morte di Falcone, per un pronto approdo inquirente in Parlamento. Figuriamoci. Ma quante volte lo fanno uccidere, quel giudice generalmente così poco amato in vita, e tanto celebrato in morte?
Caccia al mostro, letteralmente. Pare che stavolta la chiave di volta per capire la morte di Falcone – come se non se ne sapesse tutto fino nei dettagli, come se la morte di un semidio del coraggio e della sapienza non fosse inscritta nella sua nascita, come se non si fosse contato il numero delle sigarette fumate smozzicate e acciaccate nell'attesa da chi manovrò il detonatore di Capaci quel maledetto sabato – pare che stavolta la chiave di volta sia un poliziotto colluso “con la faccia da mostro”. Forse spaventapasseri vivo a passeggio per Palermo, scrive Bolzoni, forse morto da anni. Forse c'entrano sommozzatori del Sisde, ci dicono, poi morti ammazzati. Dipende dagli identikit di ventuno anni fa (l'attentato è dell'estate 1989). Forse c'entrano dei “piccoli malacarne” della borgata dell'Acquasanta, poi uccisi in modo fatalmente sospetto, “non a caso” (ma non succede spesso, ai malacarne grandi e piccoli, di rimanere stesi sul selciato?).
“Stragi… desidera?”, rispondeva un tempo il centralino della Commissione stragi insediata nel palazzo delle Bicamerali a San Macuto. Le stragi mafiose come servizio pubblico, come informazione sempre disponibile a singhiozzo, come ipotesi poliedrica, a tripla o quadrupla mandata, in mano a magistrati fantasiosi e accorti, a politici industriosi e ciarlieri, per gettare fumo nuovo su ogni pista possibile. A occhio e croce, tutto quello che Falcone detestava, temeva, scongiurava. Come dimostrano il suo libro con Marcelle Padovani, “Cose di cosa nostra”, e l'arresto del “calunniatore” Pellegriti che addossava a Salvo Lima l'omicidio Mattarella, indizio di quanto il giudice istruttore tenesse alla pulizia dell'indagine, alla sua forza documentale e testimoniale, contro le genericità e le facinorose allusività del giornalismo e del politicismo antimafioso più andante.
La contiguità è certa, storicamente, è fatta di ampie collusioni a ogni livello: partiti, istituzioni, apparati di sicurezza e servizi di informazione. Basta uno sguardo sociologico calato su Palermo e Trapani e altri triangoli fatali, non servono prove, non servono dettagli, e appare senza filtri la natura politico criminale della mafia, il fatto che la mafia abbia esercitato uno spietato servizio alla Repubblica dei partiti, alla democrazia costituitasi nelle forme possibili dopo il fascismo. Solo quando questa contiguità diventa materia per funambolismi lessicali, per rievocazioni azzardate, per accuse temerarie, ecco, allora una certezza storica si disfa e falliscono i processi, si accumulano le accuse solo per insabbiarsi nella confusione, e la confusione la più mafiosa possibile si impadronisce dello stato di diritto e dell'intelligenza che sono i soli veri strumenti, a parte il coraggio civile, con i quali si è riusciti ad arginare la mafia negli anni. Vogliamo piantarla di opporre al non detto dell'omertà mafiosa quella petulanza antimafiosa che ne è il simmetrico risvolto?
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