Dopo lo schiaffo di Vienna
Qual è l'agenda Schönborn? Che cattolicità vogliono?
Una drastica riforma dell'organizzazione del potere della curia romana in chiave collegiale. Rivedere l'obbligo del celibato per il clero. Più considerazione per le coppie omosessuali stabili. Rivisitare la dottrina sui divorziati risposati. Non si tratta dell'agenda che il teologo ribelle Hans Küng vorrebbe imporre alla chiesa di Ratzinger, quanto di alcune delle richieste di riforma avanzate in queste settimane dal cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn. Richieste molto simili a quelle che il cardinale Carlo Maria Martini espose nel 1999.
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Una drastica riforma dell'organizzazione del potere della curia romana in chiave collegiale. Rivedere l'obbligo del celibato per il clero. Più considerazione per le coppie omosessuali stabili. Rivisitare la dottrina sui divorziati risposati. Non si tratta dell'agenda che il teologo ribelle Hans Küng vorrebbe imporre alla chiesa di Ratzinger, quanto di alcune delle richieste di riforma avanzate in queste settimane dal cardinale arcivescovo di Vienna Christoph Schönborn. Richieste molto simili a quelle che il cardinale Carlo Maria Martini espose nel 1999 in un suo celebre discorso intitolato “Verso l'indizione di un Concilio Vaticano III”. Martini fu più dettagliato di Schönborn. La sua agenda prevedeva anche gli ordini sacri per le donne, la partecipazione dei laici ai ministeri, una nuova morale sessuale, la rivisitazione del sacramento della penitenza e del concetto di ecumenismo. Ma anche per lui, alla base di tutto, prima d'ogni altra azione di rinnovamento, c'era la madre di tutte le riforme, quella dell'organizzazione del potere della chiesa: più collegialità meno monarchia, più orizzontalità meno assolutismo.
Che chiesa vuole Schönborn? Sta superando “a sinistra” il maestro Joseph Ratzinger spingendosi su una visione di fatto conciliante con le istanze del mondo? Oppure sta interpretando in profondità il pontificato di Benedetto XVI aprendo il dibattito su temi solitamente ad esclusivo appannaggio della sola ala progressista della chiesa? Il vaticanista Giancarlo Zizola non ha dubbi: “Schönborn è tra i cardinali più vicini a Ratzinger. La solidarietà teologica tra i due è evidente. E si è palesata in queste ore. Schönborn ha attaccato chi nella curia romana ha insabbiato i peccati carnali dei preti cattolici. E Ratzinger sull'aereo per Fatima ha elevato il tono dell'accusa, dicendo che oggi ‘in modo terrificante' la persecuzione della chiesa viene ‘dall'interno', ‘dai peccati che ci sono dentro la chiesa stessa e non dai nemici fuori'”. Anche se, poche ore dopo, nell'omelia nella piazza del Palazzo di Lisbona, ha detto che non è coi programmi e l'organizzazione che si risolvono le cose: “Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?”. E' la Weltanschauung di Ratzinger: “Governare non è semplicemente un fare, ma è soprattutto pensare e pregare” ha detto il 10 marzo scorso prendendo in prestito parole di san Bonaventura. Parole che in parte risuonano in quanto dice Schönborn. Ma in parte no: quello di Ratzinger è un ritorno alle origini, alle radici della tradizione cattolica, più che un salto nelle braccia della modernità.
L'agenda progressista per il papato ha diversi estensori. Prima di Schönborn e dopo Martini, c'è stato il padre cappuccino Raniero Cantalamessa. Ma il “lodo Cantalamessa”, come lo definisce Alberto Melloni nel saggio del 2006 “L'inizio di Papa Ratzinger”, non ha avuto fortuna. Redatto per una meditazione pronunciata appena prima del Conclave del 2005, espone sette tesi sulle quali il Papa “chiamato da Dio” avrebbe dovuto lavorare. Il cuore del “lodo” sono il ritorno della chiesa a una minoranza esemplare, una chiesa che non imponga, soprattutto nel campo etico, i propri dettami ma che si limiti all'esempio, alla testimonianza. Perché questa chiesa possa predominare occorrono alcune riforme. La prima, la più importante, il riordino in chiave collegiale del governo. Scrive Cantalamessa: “Pietro esercita il suo ruolo in modo collegiale. La formula canonica attuale del rapporto tra il Papa e i vescovi è ‘cum Petro e sub Petro'. Finora, non si può negare, è stato accentuato soprattutto il ‘sub Petro'. I tempi forse sono maturi per ridare tutto il significato al ‘cum Petro'. Si tratta di creare organismi opportuni per attuare questo. Non possiamo più ragionare in termini di antichi patriarcati”. “Cosa chiedono in sintesi Schönborn, Martini, Cantalamessa?”, si chiede ancora Zizola. “La fine della solitudine del Papa in favore di un esercizio del potere più equilibrato”.
Cosa significa tutto ciò? Come si concretizza la proposta d'una maggiore collegialità? Per molti occorre tornare al 1978, al primo libro in cui un programma di riforma della chiesa in chiave progressista venne sintetizzato. S'intitola “L'officina bolognese, 1953-2003” ed è curato da Giuseppe Alberigo. Descrive i cinquant'anni di vita del “Centro di Documentazione” fondato a Bologna da Giuseppe Dossetti, l'uomo che ha messo in campo quell'“ermeneutica della riforma” del Vaticano II che ancora oggi gode di una fortuna universale. Tra i documenti spicca un lungo promemoria, datato agosto 1978, e “inviato ai partecipanti all'imminente Conclave”, quello da cui uscì eletto Giovanni Paolo I, seguito poco dopo dall'altro Conclave in cui fu eletto Giovanni Paolo II. Il promemoria s'intitola “Per un rinnovamento del servizio papale nella chiesa alla fine del XX secolo”. Dossetti chiede tante cose. Tra queste che il Papa incida sulla macchina di governo della chiesa fin dai primi “cento giorni” del suo pontificato, passando da una gestione monarchica a una più collegiale.
E cosa Dossetti intende per “gestione collegiale” è esplicitato in sette punti. Anzitutto il Papa deve fare il vescovo di Roma, “diffidando dalle formule vicariali che hanno ormai un significato di sgravio di responsabilità e di disimpegno”. Deve, in analogia con il concistoro medievale e con il sinodo permanente orientale, creare “un organo collegiale che, sotto la sua presidenza personale ed effettiva, tratti almeno bisettimanalmente i problemi che si pongono alla chiesa nel suo insieme, prendendo le decisioni relative”. Deve “riconoscere al sinodo dei vescovi una capacità legislativa vera e propria, sempre sotto la sua presidenza e direzione”. Deve snellire la curia romana “dislocandola in altre aree cristiane”. Deve valorizzare maggiormente le chiese locali interpretando fino in fondo il principio di sussidiarietà. Deve lasciare che i vescovi siano eletti in loco e non a Roma. Deve abolire le nunziature apostoliche: in questo modo, dice Dossetti, “si supererebbe una delle sopravvivenze più sconcertanti della concezione della chiesa come potenza tra le potenze e del papato come monarchia”. Infine deve abbandonare “il convincimento di dovere decidere da solo, di non potere rinunciare ai simboli monarchici del potere e dell'autorità”.
Dossetti parla della necessità di un sinodo permanente. Marco Politi, saggista, vaticanista e commentatore per il Fatto, ricorda che in questi anni né è stato rafforzato il ruolo del sinodo né è stata realmente valorizzata la funzione consultiva del collegio cardinalizio. Dice: “Il collegio cardinalizio, dove sono presenti i vescovi residenziali di tanta parte del mondo, è un luogo dove si potrebbero prendere insieme decisioni importanti. Cosa che non è avvenuta. Al contrario, quando Benedetto XVI qualche anno fa convocò a Roma i cardinali per esaminare i rapporti con il movimento lefebvriano, la maggioranza dei porporati chiese che prima gli scismatici dovevano accettare i documenti del Concilio. Poi, però, il Papa ha preso un'altra decisione, revocando senza condizioni la scomunica ai quattro vescovi. E adesso la trattativa si trascina senza un reale chiarimento da parte dei seguaci di Lefebvre. Certamente dopo la stagione di non-decisione di questo pontificato molti vescovi si aspettano in futuro un cantiere di vere riforme”.
Che si eserciti per mezzo del sinodo, tramite i cardinali, o attraverso un collegio di saggi come ha chiesto recentemente Küng, l'agenda progressista per la chiesa dell'oggi ha un nemico principale. Quello che gli stessi progressisti chiamano “l'assolutismo monarchico romano”. Ne ha parlato recentemente il sociologo cattolico Franco Garelli. Per lui la soluzione è la collegialità la quale, ricorda, “ha un valore teologico e sociale”. Dice: “Il cardinale Martini l'ha richiamata spesso come punto qualificante. E' necessario creare le condizioni affinché nella chiesa vi sia circolarità di idee”.
La “riflessione assieme”, appunto la circolarità delle idee, è indicata come una terapia adeguata per risolvere i mali interni alla chiesa. Più parole, maggiore confronto, avrebbero permesso una migliore prevenzione dei peccati dei ministri di Dio. Massimo Faggioli, discepolo della dossettiana scuola bolognese e oggi docente di Storia del cristianesimo moderno all'Università San Tommaso nel Minnesota, afferma: “Se cambiasse il sistema con il quale la chiesa esercita il potere ci sarebbero meno guai. In fondo è quello che sta chiedendo la ‘mosca bianca' Schönborn: che Roma ascolti quanto hanno da dire le chiese locali. Perché è dal basso che molti problemi possono emergere in modo più chiaro e essere risolti”. Certo, dice, “la stessa divisione del potere a Roma non aiuta. Con la riforma della curia voluta da Paolo VI nemmeno i cardinali capi congregazione vedono il Papa e parlano con lui. Tutto è accentrato nelle mani del segretario di stato. E' lui il terminale di un cono di bottiglia sempre più stretto. Al contrario servirebbe più orizzontalità, più respiro, più dialogo. E' questo che certi vescovi e molte conferenze episcopali chiedono: le chiese si svuotano, i fedeli lasciano e i presuli non sanno più che fare”.
Non c'è ovviamente soltanto Schönborn. Ci sono anche altri vescovi e cardinali a chiedere le medesime cose: più collegialità in scia a quella sinodalità già pienamente accettata dalle chiese ortodosse. In Germania ne ha parlato spesso il cardinale Karl Lehmann. Anche in Italia c'è chi insiste su questo punto. E finisce anche sull'Osservatore Romano. L'ultimo in ordine di tempo è il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, allievo del cardinal Lercaro a Bologna. Il 25 aprile scorso scrive sull'Osservatore che la Costituzione sulla chiesa del Vaticano II parla prima del “popolo di Dio” e poi “della gerarchia della chiesa”. Perché la gerarchia è al servizio del popolo, non il contrario. La gerarchia deve cogliere “sempre più l'invito conciliare alla collegialità che, se si esprime compiutamente nella collaborazione dei vescovi col Papa e dei vescovi tra di loro, si ritrova a ogni livello della chiesa nello spirito e nella prassi della comunione. La ‘Lumen gentium' ci invita peraltro a considerare quanti ‘semi del Verbo' ci sono nel mondo, quanta diffusione di grazia ci sia nel creato anche al di fuori delle strutture ecclesiali”.
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