Inchiesta dove tutto è ri-cominciato
Il peccato carnale irlandese
Alzi la mano chi non ha letto che violenza e pedofilia erano “endemici” nelle istituzioni religiose d'Irlanda tra gli anni Trenta e Novanta del Novecento. Chi non ha visto il film “Magdalene”, subito premiato, naturalmente, al Festival di Venezia, e non si è sentito civilissimo, bravissimo, illuminatissimo, nello stigmatizzare le malvagità di preti e suore. Chi non ha sentito spiegare che per forza, quelli là fanno professione di castità, vivono “contro natura”, e poi fanno sesso coi ragazzini, o li picchiano per sfogare le loro frustrazioni. Santa indignazione, unita alla consapevolezza di una superiorità morale!
Alzi la mano chi non ha letto che violenza e pedofilia erano “endemici” nelle istituzioni religiose d'Irlanda tra gli anni Trenta e Novanta del Novecento. Chi non ha visto il film “Magdalene”, subito premiato, naturalmente, al Festival di Venezia, e non si è sentito civilissimo, bravissimo, illuminatissimo, nello stigmatizzare le malvagità di preti e suore. Chi non ha sentito spiegare che per forza, quelli là fanno professione di castità, vivono “contro natura”, e poi fanno sesso coi ragazzini, o li picchiano per sfogare le loro frustrazioni. Santa indignazione, unita alla consapevolezza di una superiorità morale! Unita a una certa goduria in moltissimi Catoni odierni che fiondano giudizi definitivi, categorici, assoluti. Non tanto sui peccati, come sarebbe anche giusto, ma sui peccatori. Non sui peccatori, come singoli, come esempi della fallibilità umana e della nostra miseria, bisognosa sempre di perdono e di salvezza, ma come emblemi e simboli di una categoria, quella sì, tutta intera, condannabile e colpevole: quella dei sacerdoti, dei religiosi, dei seguaci di Cristo, in generale. Eppure, ancora una volta, la realtà sfugge alle semplificazioni ideologiche, alle strumentalizzazioni, alle generalizzazioni ed alle indignazioni a senso unico, in cui l'obiettivo è deciso a priori, per odio ideologico.
Anzitutto, per giudicare con un po' di conoscenza, non sull'onda dell'emotività scatenata da denunce, amplificazioni giornalistiche o da film come “Magdalene”, ma con un minimo di volontà di inquadrare i fatti nella storia, occorre ricordare, con Vittorio Messori, che le Industrial School, i riformatori e i Magdalen's Institutes irlandesi, “prima ancora che case religiose, erano riformatori giudiziari, case di correzione minorile, in diretto collegamento con il ministero della Giustizia e la magistratura della Repubblica d'Irlanda. La gestione, affidata a congregazioni religiose (avviene tuttora anche in Italia, dove le suore sono ancora presenti nelle carceri femminili e in molti altri, civilissimi paesi del mondo), era sottoposta al controllo degli ispettori dello stato, che esigeva dalle suore rigorosa sorveglianza e disciplina sulle ospiti e riteneva le monache responsabili in caso di fuga o rivolta” (Corriere della Sera, 14/9/2002). Case di correzione, soprattutto minorile: nei riformatori finivano i giovani condannati per reati penali; nelle Industrial School, le workhouse irlandesi, i figli rifiutati, abbandonati, orfani, non criminali ma potenzialmente tali; nelle Magdalene ragazze povere, respinte dalle stesse famiglie, magari con problemi di alcol, prostitute o a rischio di cadere nella prostituzione… persone assai problematiche. Come alternativa alla strada, alla delinquenza, alla disperazione, alla galera.
Come erano nate queste case con un fine simile tra loro, sebbene diverse? Le case di correzione, divenute presto case di lavoro (workhouse), nascono nell'Europa del XVI secolo, dopo la Riforma, nel mondo protestante e calvinista. Il medioevo aveva guardato alla povertà con profondo rispetto, insistendo sulla povertà di Cristo stesso. Tale elogio della povertà era anche degenerato, talora, in pauperismo. In seguito alla Riforma, alla diffusione della mentalità calvinista, che lega predestinazione e ricchezza, salvezza eterna e successo materiale, la povertà diviene invece sempre di più una maledizione, una colpa, un reato contro l'ordine pubblico. Che le città, gli stati puniscono duramente. Anche Lutero, ideologo dei principi tedeschi nella lotta contro i contadini, nella prefazione al “Liber vagatorum”, rappresenta i vagabondi come alleati del diavolo. Poveri, delinquenti, vagabondi, orfani divengono oggetto di repressione anche per l'affermarsi della mentalità borghese e capitalista. Da questo momento in poi, hanno scritto Ermanno Gallo e Vincenzo Ruggiero, in “Il carcere in Europa” (Bertani, 1983), “gli stracci del diseredato non simboleggiano più le piaghe di Cristo, ma il marchio dell'accidia”.
E' l'Inghilterra anglicana e secolarizzata ad aprire le danze: i beni della chiesa vengono sequestrati, migliaia di poveri che vivevano grazie ad essi rimangono senza sussidi e aiuti, perché la Corona incamera tutto ciò che può e rivende a ricchi e mercanti. Così Enrico VIII emette l'editto contro il vagabondaggio, col quale vengono impiccati 75 mila vagabondi. Dopo Enrico VIII le cose, se possibile, peggiorano: per i mendicanti sono previsti la gogna, la fustigazione, il marchio di ferro rovente, il taglio degli orecchi; con Edoardo VI la riduzione in schiavitù, con Elisabetta la morte. E' proprio Elisabetta I, la feroce nemica dei cattolici, a istituire nel 1576 le “Houses of correction”, imitata a breve da altri paesi protestanti, in Germania, in Svizzera, in Olanda. Nelle case, che hanno una funzione di rieducazione attraverso il lavoro, sono previste sanzioni rigide, corporali, fustigazioni, bastonate sulla schiena. Del resto si tratta di luoghi che assomigliano un po' a case di recupero, un po' a prigioni: una sorta di via di mezzo, insomma, in cui è prevista la durezza della prigione, ma anche il tentativo di redimere in qualche modo gli internati.
Sono gli anni in cui in Inghilterra i reati contro la proprietà crescono ogni giorno, insieme alle pene. La classe dirigente borghese e nobiliare, lanciata sempre più verso la privatizzazione delle terre, con relativo sfratto dei piccoli contadini, e l'industrializzazione, piega il mondo alla sua visione. I bambini orfani, poveri, finiscono spesso sfruttati sin dai quattro anni di età: lavorano duramente, ore e ore al giorno. Solo nel 1834 il Parlamento inglese vieta il lavoro ai bambini sotto i nove anni, ma senza grossi risultati. Questa è l'atmosfera del tempo nel paese della rivoluzione industriale. Nelle workhouses la commistione tra poveri, delinquenti, vagabondi e bambini, espone quest'ultimi al rischio di abusi di ogni tipo, anche sessuali. Si annuncia l'Ottocento, il secolo nero delle donne e dei bambini, triturati nelle miniere, nelle fabbriche, nella workhouse. “Persino i vecchi e gli ammalati”, scrive George M. Trevelyan nella sua “Storia d'Inghilterra”, quando non avevano tetto, finivano nelle workhouses, “trattati con la stessa durezza che se vi fossero entrati per loro colpa”.
Di queste istituzioni parla con toni durissimi Karl Marx; vi fa riferimento Charles Dickens, nel suo “Oliver Twist”, storia di un bambino orfano maltrattato e sfruttato in una di queste strutture; anche John Ruskin nel suo “La lampada della memoria”, ci dà notizie non lusinghiere su questi luoghi. Non pochi storici parlano di una vera e propria mentalità schiavista, a danno delle classi meno abbienti, e dei diseredati, difesa e sostenuta dal potere e da molti intellettuali. Del resto tutto va calato nei tempi, e se l'Ottocento ha visto di tutto, in nome del progresso e dell'arricchimento, il Novecento vedrà altri luoghi di correzione “attraverso il lavoro”, ben peggiori: i lager, i gulag, i laogai.
Dall'Inghilterra anglicana e secolarizzata, si diceva, le workhouse si diffondono anche altrove. Soprattutto nei paesi protestanti e nordici: Germania, Svizzera, Scandinavia. In Olanda nel 1596 viene inaugurata ad Amsterdam la Rasphuis, casa di lavoro per la dilagante corruzione giovanile. Qui mendicanti, giovani malfattori, ladri e vagabondi vengono sottomessi al lavoro forzato: in condizioni dure, certamente, ma con la possibilità di sopravvivere, e come pena intermedia tra la semplice multa o la pena di morte. La rigidità del calvinismo, e della mentalità borghese olandese, non permette certo uno sguardo molto attento e positivo, sui poveri e gli emarginati.
Diversa è la condizione in Italia, dove la mentalità cattolica fa sì che i luoghi di rieducazione siano meno improntati al lavoro forzato, alla produttività, e di più alla rieducazione vera e propria. Sorgono dovunque ordini religiosi dediti alla creazione di scuole e ospedali. Non sono neppure paragonabili le workhouses anglosassoni o olandesi, alle istituzioni italiane, di solito proprio perché dietro queste ultime vi è, prima del profitto o della necessità di tutelare l'ordine sociale, la carità cristiana, almeno tentativamente. Le vicende di don Pavoni, di don Bosco, di santa Maddalena di Canossa, della Contessa di Barolo, di santa Tersa Verzeri, tutti fondatori di scuole e di luoghi per l'assistenza di poveri, orfani, ragazze “pericolanti”, ci dicono proprio che di fronte alla emergenza povertà e delinquenza, propria dell'Ottocento, il cattolicesimo rende più miti le pene e non vede nel lavoro coatto il principale strumento di redenzione per i corrigendi, né, nella loro produttività, il rimedio alla loro inutilità.
Il desiderio di cercare il loro ravvedimento è superiore alla volontà di renderli produttivi. Lo si sa, e spesso gli accusatori del cattolicesimo elogiano il rigido calvinismo nordico, deprecando l'improduttivo “assistenzialismo cattolico”. Del resto non sarà l'inglese, ateo, darwiniano, vittoriano, Francis Galton, il cugino di Darwin, a proporre la sterilizzazione dei poveri, perché non vi siano più poveri, e quella dei delinquenti, degli alcolizzati, dei miseri, perché non vi siano più delinquenti? Avesse diretto una workhouse non sarebbe stato molto tenero. Ebbene, se torniamo all' Irlanda cattolica, le case di correzione ottocentesche vi nascono sul modello inglese e scozzese. Non dimentichiamo che l'Irlanda giace sotto la Corona inglese; che vive un periodo drammatico, di povertà spaventosa, di carestia e quindi, anche, di forte delinquenza e devianza, che durerà a lungo. “I quartieri poveri di Dublino – scrive Engels – sono dal canto loro quanto di più orrendo e ripugnante possa vedersi al mondo”. Povertà, prostituzione, sfruttamento minorile, sono normali, qui come in Inghilterra, o ancora di più. E' la povertà totale, in Irlanda, a essere endemica.
E' in questo contesto che occorre collocare i riformatori, le Industrial School e le Case di Maddalena irlandesi: in una società pericolosa, difficile, dura. In queste case, di solito dello stato, lavora personale religioso, cattolico o protestante: quello giudicato più adatto, anzitutto dal popolo e dallo stato stesso, a fare il possibile per rendere le case non vere e proprie prigioni, ma qualcosa di diverso. Ma proprio la natura di questi luoghi e quella degli ospiti, ci può far capire quanto possa essere stato difficile viverci, non solo per i reclusi, ma anche per le suore e i religiosi, chiamati a fare i secondini. Ve ne furono di indegni? Di impreparati? Ve ne furono di quelli/e che abusarono, che vennero meno alla carità cristiana, che si macchiarono di colpe orrende? Senza dubbio, purtroppo. Come in tutte le prigioni, come in tutti gli educandati laici, statali, come in tutti i riformatori del mondo e di ogni tempo. Anzi, credo di meno.
Il rapporto Ryan del 2009, che condensa il lavoro della Child Abuse Commission istituita nel 2000 dall'allora premier irlandese Bertie Ahern, molto duro nei confronti della chiesa, non dimentica di accennare, sebbene brevemente, anche alla “filantropia religiosa”, alle opere nate da “volontary contributions and, often, volontary labour”. Lo stesso rapporto denuncia, su 25 mila allievi di collegi, riformatori e orfanatrofi nel periodo che esamina, “253 accuse di abusi sessuali da parte di ragazzi e 128 da parte di ragazze, non tutte attribuite a sacerdoti, religiosi o religiose, di diversa natura e gravità, raramente riferite a bambini prepuberi” (Massimo Introvigne). Gli abusi sessuali, denuncia il rapporto, erano endemici “nelle istituzioni per ragazzi”, sebbene sia impossibile determinare l'estensione del fenomeno e distinguere tra “toccamenti” e violenze: si trattò cioè di rapporti omosessuali, tra impiegati, inservienti, talora laici talora sacerdoti, e ragazzi. Violenze orribili, dunque, su persone indifese.
Nelle scuole per donne, invece, gli abusi erano rari e per lo più a opera di “impiegati o visitatori o quando le ragazze erano in posti esterni” agli istituti. Aggiunge il rapporto che l'abuso sessuale sulle ragazze da parte di laici fu generalmente preso sul serio dalle suore e il personale laico fu dimissionato, quando venne scoperto colpevole. Non altrettanta severità fu usata verso i religiosi colpevoli. Inoltre “le ragazze che subirono abuso riportarono che ciò accadeva soprattutto quando venivano mandate da famiglie ospiti per il weekend, per lavoro o per ferie” (rapporto Ryan, “Conclusions”, 6.18, 6.19, 6.28). E sebbene aggiunga che spesso le suore non credevano alle storie raccontate dalle ragazze, si deduce quello che doveva essere intuibile: che nell'Irlanda ridotta alla fame e abbrutita dalla miseria di allora, le violenze fisiche sulle donne erano più facili fuori, che dentro le strutture protette gestite dalle suore.
Quello su cui si sofferma di più il rapporto Ryan, in verità, è il ricorso a punizioni corporali, a volte dure e violente. Valutiamo l'accusa, non per sminuirla, ma per comprenderla: che ex internati in case-carceri denuncino di non essersi trovati bene, lo possiamo immaginare. Una donna italiana, allevata in un educandato statale italiano, recentemente affermava di aver vissuto “come in prigione”, e di aver visto brutture e drammi terribili, come il suicidio di un'amica, che “aveva molti problemi in famiglia e non riusciva a parlarne” (La voce della Campania, ottobre 2002). Forse, di fronte a tali denunce dovremmo anzitutto chiederci: quanto esse sono “inevitabili”? Inoltre: sono tutte “vere”? Quanto considerano che la durezza del luogo in cui si trovavano non doveva essere poi tanto peggiore, anzi!, da quello che avrebbero vissuto fuori, sulla strada, tra prostituzione, miseria e criminalità? Quanto le accuse tengono conto della difficoltà del compito affidato agli educatori stessi, costretti a fare in qualche modo i secondini per tutta la vita? Tanto più se, come è successo in Irlanda, dietro la denuncia di abusi e violenze subite, vi era la possibilità offerta dal governo nel 2002 di ottenere dei risarcimenti in denaro. Tanto più se chiedere questi risarcimenti poteva giovare a chi non viveva certamente condizioni agiate.
Ricordava alcuni anni fa Andrea Galli: “Lo stato (irlandese), che deve ancora finire di pagare tutti, si calcola che alla fine avrà di gran lunga superato il miliardo di euro negli esborsi. Immancabili gli ‘inciuci' del sistema. Pochi giorni fa è nata una polemica quando si è saputo che il Redress Board ha versato 83,5 milioni di euro agli studi legali che avevano assistito i denuncianti, alcuni dei quali messisi dal 2002 in cerca di ex alunni delle Industrial Schools finiti anche in Nuova Zelanda, Canada o Stati Uniti, per far conoscere loro l'interessante proposta statale” (Avvenire, 12/8/2007). In secondo luogo, pur riconoscendo e stigmatizzando l'esistenza di abusi e violenze, odiosi e deprecabili, si può fingere che la cosa riguardi solo i luoghi gestiti da religiosi cattolici, come si sta facendo? E gli stessi istituti retti da protestanti? E la sorveglianza dello stato? Cosa avrebbe garantito, lo stato irlandese di allora, per orfani, diseredati, prostitute, minori condannati, senza l'aiuto di volontari religiosi? Si può, ancora, fingere che tutte le suore e tutti i religiosi siano stati approfittatori, sadici e delinquenti, come avviene per esempio nel film “Magdalene”?
Quanto alle punizioni corporali, anche qui sarebbe opportuno distinguere, cercare di capire. Immaginare ad esempio quale logorio rappresenti fare ogni giorno il guardiano, il secondino, magari con tutto l'amore possibile, ma anche con tutta la miseria che ci portiamo addosso. Non sarebbe difficile capirlo, se solo si volesse. Se non vi fosse nella nostra cultura quell'odioso pregiudizio illuminista che ci porta a guardare sempre tutto con aria di sopracciò, e di superiorità.
Ricordo quando insegnavo in una scuola professionale e avevamo di questi ragazzi, figli della prostituzione, talora senza genitori o con altri drammi alle spalle: vivevano in case laiche, gestite da laici, con soldi e impiegati statali. Un giorno una di queste ragazze estrasse una lametta e tagliò tutto il braccio di una professoressa. Non era una ragazza facile: chi la accudiva tutti i giorni, talora avrà perso la pazienza, ne sono certo. Talora avrà urlato, o alzato le mani. Senza essere un mostro. Non era un mostro neppure Vincenzo Muccioli, che ha dato la sua vita per salvare migliaia di drogati dal degrado più nero. Eppure quanti hanno voluto dipingere San Patrignano, per motivi ideologici, come un lager, come una prigione, perché, in una simile realtà, successero violenze e soprusi.
Ma, soprattutto, inquadriamo questi fatti, l'uso cioè di pene dure, corporali, di punizioni severe, nel loro contesto storico. Lo stesso Peter Mullan, regista del film “Magdalene”, ha esplicitamente affermato che i metodi utilizzati in Irlanda erano gli stessi della Gran Bretagna. Non solo nelle workhouses, ma anche nei collegi “bene” delle élite inglesi. Non era così anche da noi, sino a 40-50 anni fa? Le pene corporali, le punizioni severe, le bacchettate sulle mani, erano considerate normali non dico nei riformatori, ma nelle scuole di ogni ordine. E se allarghiamo lo sguardo possiamo pensare a quello che succedeva nei nostri manicomi statali, non al Cottolengo gestito dalle suore, prima che la legge Basaglia privatizzasse i drammi: violenze, botte, abusi, reclusioni. Anche qui, però: non di tutti, anzi, forse di una minoranza. Perché dimenticare, come si fa di solito, quanti servirono con amore i malati di mente, e lo fecero nonostante la durezza del loro impegno quotidiano?
Possiamo, ancora, pensare ai lager per bambini orfani dell'est europeo, gestiti dallo stato laico e anche ateo: imparagonabili, per brutalità, con qualsiasi altra struttura per bambini della storia. Oppure, per fare un altro esempio, ai “figli dello stato”, come li chiama Michael D'Antonio nel suo “La rivolta dei figli dello stato” (Fandango), in cui si racconta come in un centinaio di istituti americani nel Novecento (sino al 1974) migliaia e migliaia di bambini (150 mila circa), spesso normali, abbiano subito violenze, abusi sessuali, “lavori forzati”, elettrochoc, sterilizzazioni chirurgiche, sperimentazione di farmaci, promosse dall'ateissimo movimento eugenetico e dallo scientismo galtoniano che consideravano i piccoli alla stregua di oggetti di ricerca.
Possiamo rammentare, ancora, un caso attuale, di cui chissà perché non si parla: le laicissime e “liberissime” scuole Odenwald, il liceo delle élite tedesche sessantottine, in cui, come ha dichiarato l'attuale preside, si sono consumati, in anni recentissimi, “violenze dei professori sugli allievi e degli allievi più grandi sui più piccoli. Stupri di gruppo consumati con la complicità dei supervisori. Maestri che provvedono a distribuire alcol e droga. Studenti costretti a prostituirsi nel fine settimana per soddisfare qualche visitatore amico degli insegnanti…” (Tempi, 5 maggio 2010).
Quando si insiste sull'Irlanda cattolica, sulle sue suore e i suoi sacerdoti, per screditarne in toto la storia, dunque, non è la sacrosanta condanna dei colpevoli, che disturba. Si dicesse che preti e suore che hanno abusato meritano pene terribili, non ci sarebbe certo da obiettare. Lo ha detto chiaramente Benedetto XVI, collegando queste miserie e atrocità ad una innegabile crisi della chiesa. Quello che disturba è l'ipocrisia, il tentativo di generalizzare, il voler fingere che esista un'umanità senza peccato che può additare come reproba un'altra parte dell'umanità, colpevole, per colpa originaria ed indelebile, di seguire Cristo, talora con grandezza, talora tradendone e smarrendone l'insegnamento.
Pensiamo al film di Mullan. Perché lo scozzese e marxista Mullan ha fatto un film sulle Magdalene irlandesi e cattoliche e non, per esempio, su una workhouse scozzese e protestante? O su un orfanotrofio dell'est di oggi? Perché lo ha fatto così parziale, manicheo, di parte? Basta leggere alcune sue dichiarazioni per capirlo, per comprendere che all'origine di quello che vuole essere un documentario storico oggettivo, vi è invece un fortissimo pregiudizio di fondo: la “chiesa… non differisce troppo dai talebani, istiga alla crudeltà anziché alla compassione, trascinando la società in una spirale di follia collettiva” (Corriere della Sera 31/8/2002)! Mullan, il suo film, i suoi numerosi e ardenti discepoli, in verità servono a nutrire odi e pregiudizi, più duri da spezzare delle pietre. Ad alimentare la falsificazione e l'inganno.
Penso al libro di Kathy O'Brien che narra di terribili violenze che lei avrebbe subito nelle Magdalen Laundries: un best seller da 350 mila mila copie, spacciato come vero ma smentito prima dalle suore (“La O'Brien non è mai stata da noi”), poi, con sdegno, dalla stessa famiglia dell'autrice, ed infine anche da un giornalista, Hermann Kelly del Mail on Sunday, che ha dedicato un intero libro, “La vera storia di Kathy”, per smontare l'operazione mediatica ed economica della scrittrice. Penso a sacerdoti innocenti, come padre Kinsella o padre Brendan Lawless, vittima di una donna che era pronta ad accusarlo pubblicamente di violenza, se egli non le avesse dato del denaro (vedi: Indipendent.ie, 22/7/2007); penso ai numerosi casi di religiosi ingiustamente accusati al fine di estorcere denaro, cui Joe Duffy, conduttore di Rte Radio 1, ha dedicato una trasmissione di oltre un'ora alcuni anni fa; penso a Paul Anderson, “condannato a quattro anni di carcere per avere accusato Padre X, un sacerdote dell'arcidiocesi di Dublino rimasto anonimo, di aver abusato sessualmente di lui 25 anni fa, durante la preparazione alla prima comunione. Il giudice Patricia Ryan ha spiegato nella lettura della sentenza come Anderson, segnato da tossicodipendenza, tendenze suicide e debiti personali, avesse costruito racconti infamanti contro Padre X per un fine molto semplice: estorcere quattrini alla chiesa” (Avvenire, 2/8/2007).
Penso ancora, al clamoroso caso di suor Nora Wall. Quest'ultima è un'anziana ex suora della congregazione delle Sisters of Mercy, condannata all'ergastolo per lo stupro di una minorenne, nel 1997: la sua colpevolezza era stata affermata in seguito a ricordi emersi confusamente nel corso di una psicoterapia della presunta vittima! Nora è stata poi assolta due anni dopo, una volta constatata la sua assoluta innocenza. Per due anni ella fu per gli irlandesi la suora pedofila, la religiosa che procurava bambini ai sacerdoti pedofili, il mostro dell'Irlanda, il “diavolo Wall”, sbattuta in tv e sui giornali con assidua frequenza (vedi: Irish Independent, 23 novembre 1999 e l'articolo “Final conversion from monster to martyr”, di Ann Marie Hourihan, comparso sul Sunday Tribune, 1° febbraio 2004).
Alla sua assoluzione i giornali parlarono di “the state's most extraordinary miscarriages of justice”. Penso, infine, agli otto vescovi irlandesi, su ventisei, accusati ingiustamente di pedofilia, come dimostra Rory Connor (www.irishsalem.com) e alla battaglia di Florence Horsman Hogan, una infermiera protestante, cresciuta in una specie di Magdalene Laundry delle Sisters of Mercy, che ha creato una associazione, “Let our voice emerge”, con cui vuole ricordare anche il bene fatto da tante suore a ragazze molto problematiche, come era lei: anche perché, ha dichiarato, le vere vittime, le cui terribili ferite non possono che generare profonda compassione, non siano confuse con gli approfittatori, i furbi, con coloro che cercano solo fama o risarcimenti economici, o che sono pronti a cavalcare gli scandali per motivi di pura avversione ideologica.
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