Stato della musica

Bill Callahan torna con un album che sarà tra i più belli del 2010

Stefano Pistolini

Bill Callahan è monumentale come la sua voce. Contiene una dose di mito americano nella sua musica, anche in tempi in cui i miti americani non si vendono più con la stessa facilità e successo di fine Novecento. E, con sorpresa, s'intuisce ora che Callahan si stia costruendo, senza eccessivi sforzi, un culto anche in Europa e in Italia in particolare, seguendo le stesse direttrici di quanto a suo tempo, una trentina d'anni orsono, accadde con Tom Waits.

    Bill Callahan è monumentale come la sua voce. Contiene una dose di mito americano nella sua musica, anche in tempi in cui i miti americani non si vendono più con la stessa facilità e successo di fine Novecento. E, con sorpresa, s'intuisce ora che Callahan si stia costruendo, senza eccessivi sforzi, un culto anche in Europa e in Italia in particolare, seguendo le stesse direttrici di quanto a suo tempo, una trentina d'anni orsono, accadde con Tom Waits. In sostanza, attraverso il meccanismo dell'identificazione: ami l'America, sei affascinato e attratto dai suoi luoghi, quelli metropolitani in testa, e cadi in adorazione per chi li rappresenta con un simile charme, intriso di letterarietà e della relativa Weltanschauung. Perciò, in presenza di una nuova uscita discografica di Callahan, un album che già sembra avere le gambe per diventare uno dei dischi-passaparola dell'anno, ne torniamo a parlarne, magari per segnalarlo a chi ancora non se ne sia accorto. Il disco in questione si chiama “Rough Travel for a Rare Thing”, registrazione live di un suo concerto australiano del 2007, con una singolare formazione di stampo country fatta di tre archi e un batterista. Dopo l'exploit del magnifico "Sometimes I Wish We Were An Eagle", uno dei migliori dischi del 2009, non era facile ripetersi così bene.

    Ma “Rough Travel” è puro fascino e carisma, spogliato ai minimi termini in forma di canzone eppure potentissimo. Metteteci il fatto che adesso Bill sta diventando anche un frequentatore delle cronache sentimentali della scena hip americana, grazie ai suoi fidanzamenti prima con Cat Power, poi con Joanna Newsom (l'arpista-cantante un filo troppo seriosa e intinta nella melassa) ed è inevitabile che le azioni di Callahan crescano a dismisura (peccato che le ultimissime ci informino che nel frattempo Joanna l'avrebbe piantato in asso, optando piuttosto per un comedian newyorkese dal grosso naso, Andy Sandberg). E comunque l'ascesa di Callahan continua ed è matura la consacrazione a nuovo poeta laureato della “old, weird America”, indipendente, individualista, scontrosa e sentimentale. Sono lontani gli esordi lo-fi sotto lo pseudonimo di Smog, con la chitarra volutamente scordata e il dispettoso culto dell'antiprofessionalità, la voce assonnata, grave e pastosa appoggiata su accompagnamenti approssimativi. Adesso Callahan padroneggia il suo timbro baritonale con la consumata maestria del vero intrattenitore e la band che l'accompagna contribuisce a dare al disco perfino un certo swing. La scaletta lo presenta tirato a lucido, ma il momento clou dell'album è certamente la nuova versione di “Bowery”, capolavoro del suo repertorio, capace di contenere tutto lo spleen di una domenica mattina di ventosa solitudine tra le immondizie e i residui della strada più consunta di Manhattan.

    Se non avete particolari capacità di orientamento nell'attuale panorama della musica indipendente americana, allora fidatevi delle etichette. In questo momento sono attive negli Stati Uniti una mezza dozzina di label in grado di garantire standard qualitativi medio-alti e un orizzonte completo su quanto di meglio ci sia in circolazione. Non diciamo di comprare a scatola chiusa, ma partire di lì, dai listini novità di Sub Pop, Jagjaguwar, Drag City e Saddle Creek è un buon congegno esplorativo di questo mondo. E appunto su Saddle Creek esordisce Mynabirds, che è essenzialmente lo pseudonimo artistico di Laura Burhenn, cantautrice dai capelli platino che si era già sentita alla guida di una band di Washington Dc, chiamata Georgie James. In seguito alla dissoluzione del gruppo, Laura si è trasferita sull'altra costa d'America, a Portland, Oregon e ha ricominciato da capo con un notevole album d'esordio intitolato “What We Lose in the Fire We Gain in the Flood”, quel che perdiamo nell'alluvione lo guadagnamo nell'incendio.

    Niente di innovativo, ma tutto assai ben fatto: dagli irrequieti arrangiamenti dotati di intensità e forza propulsiva con profusione di fiati e cori, alla voce calda e potente della Burhenn che si muove con disinvoltura tra i territori del gospel e quelli del garage rock, col sostegno musicale di membri dei Bright Eyes e dei These United States e con la supervisione produttiva di un personaggio che fece parlare di sè come di un nuovo stregone del suono, Richard Swift, poi perdutosi un po' per strada. La notazione conclusiva va al nome scelto da Laura per la nuova avventura: “Mynah Birds” è una citazione e una bizzarria, dal momento che già è esistita un'effimera band che prese il nome da questa famiglia di merli. Pensate che ne facevano contemporaneamente parte Rick James, il bassista sessuomane che sarebbe diventato sacerdote del funk più rovente, e niente meno che sua maestà Neil Young, in fase d'apprendistato. Questa improbabile ma divertente combinazione deve aver incuriosito e ispirato Laura, alla ricerca di una forma definitiva per il proprio suono.