Così Sanguineti cambiò il clima della poesia

Alfonso Berardinelli

Bisogna ammettere che il suo arrivo sulla scena letteraria italiana ha cambiato il clima, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Sembrava che sapesse tutto, che avesse letto tutto, che fosse in grado di avere l'idea giusta – la sua – su tutto. Ideologo e poeta marxista, come del resto Pier Paolo Pasolini. Ma più marxista di Pasolini, e in più sembrava ‘senza cuore', un distruttore della continuità letteraria e della tradizione. Le sue poesie erano come schegge aliene, meteoritiche. (testo raccolto dalla redazione)

    Bisogna ammettere che il suo arrivo sulla scena letteraria italiana ha cambiato il clima, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Sembrava che sapesse tutto, che avesse letto tutto, che fosse in grado di avere l'idea giusta – la sua – su tutto. Ideologo e poeta marxista, come del resto Pier Paolo Pasolini. Ma più marxista di Pasolini, e in più sembrava ‘senza cuore', un distruttore della continuità letteraria e della tradizione. Le sue poesie erano come schegge aliene, meteoritiche. Sembravano scritte per non essere capite o per essere studiate. Spaventava la sua capacità di mescolare e combinare le parole in una forma mai vista. Era l'avanguardia in laboratorio. Ma in lui c'era anche l'accademico, il lettore interprete di Dante, l'erudito e soprattutto il dialettico, capace di dimostrare che era vera anche una cosa, se non falsa, comunque quasi insostenibile.

    E sembrava anche che Sanguineti avesse in mano la formula per risolvere una volta per tutte il problema del rapporto giusto fra marxismo rivoluzionario e avanguardie irrazionaliste, fra materialismo dialettico e psicanalisi. Il suo momento sono stati gli anni Sessanta, quando i suoi competitori e avversari, dotati degli stessi strumenti ma con animo diverso, erano gli altri due poeti ideologi: Pasolini, appunto, e Franco Fortini, a loro volta in polemica ma con un maggiore rispetto reciproco. Sanguineti invece ha sempre voluto essere e restare solo con la sua idea dell'avanguardia come unico tipo di letteratura novecentesca che avesse prodotto qualcosa di buono.

    Come critico ai suoi esordi sembrò un grande, imbattibile critico. Una delle punte della neoavanguardia italiana, con caratteristiche analoghe, come tipo di intellettuale, ad Arbasino e a Eco, straordinari divoratori di cultura. I loro articoli, i loro libri, rispetto a quelli dei letterati precedenti, sembravano usciti direttamente da un seminario universitario, da esplorazioni sconfinate di tutto il sapere e dell'attualità contemporanea. Critico apprezzatissimo, dunque. Ma anche, cosa che lo ha danneggiato, prigioniero delle sue formule dialettiche alle quali è rimasto sempre molto affezionato. E se in lui una revisione dei presupposti marxisti e avanguardisti avrebbe potuto esserci, con il passare degli anni, quella è un'operazione che non ha voluto fare. Ha mantenuto una quasi incredibile, avara coerenza, che in un certo senso lo ha fatto rimanere (come forse lui voleva, perché si sentiva uomo d'avanguardia) per sempre giovane.

    Non è mai cambiato. In ogni dibattito, anche fino a poco tempo fa, era difficile sentirgli dire qualcosa di diverso da quello che aveva detto nel corso dei decenni precedenti. Questo da un lato ha ipnotizzato certe ondate generazionali di seguaci assoluti, dall'altro lo ha molto isolato, perché nel frattempo sono cambiati tutti i fondamenti del ragionamento sulla letteratura. Credo che negli ultimi anni si sentisse piuttosto fuori. Con soddisfazione, probabilmente, perché era bravissimo a giustificare con le sue categorie di letterato rivoluzionario qualsiasi cosa gli capitasse o capitasse nel mondo”. (testo raccolto dalla redazione)