Secondo di una serie di articoli
Noi siamo sexy, la riforma liberal
L'area liberal, o se si vuole progressista, sta ai margini della chiesa. Ha pochi colloqui con le gerarchie. Anche se, a onor del vero, cardinali o vescovi a cui rifarsi e riferirsi ne ha, ma questi faticano ad ammetterlo esplicitamente. E' oggi una frangia un po' borderline, la cui agenda di riforme nelle scorse ore è stata messa al centro del dibattito ecclesiale grazie alla manovra del porporato boemo a capo della chiesa di Vienna, Christoph Schönborn.
Leggi la prima puntata, L'agenda Schönborn - La terza puntata è sul Foglio oggi in edicola (che puoi leggere on line qui)
L'area liberal, o se si vuole progressista, sta ai margini della chiesa. Ha pochi colloqui con le gerarchie. Anche se, a onor del vero, cardinali o vescovi a cui rifarsi e riferirsi ne ha, ma questi faticano ad ammetterlo esplicitamente. E' oggi una frangia un po' borderline, la cui agenda di riforme nelle scorse ore è stata messa al centro del dibattito ecclesiale grazie alla manovra del porporato boemo a capo della chiesa di Vienna, Christoph Schönborn. Il cardinale ha elencato molti dei punti sui quali la chiesa, a suo dire, dovrebbe ripensarsi e rinnovarsi: l'organizzazione del potere al proprio interno ma anche quei problemi che hanno a che fare più direttamente con la quotidiana vita di fede. E cioè l'abolizione dell'obbligo del celibato per i preti e quindi l'ammissione al sacerdozio dei laici sposati, donne comprese. Una nuova visione sulle coppie omosessuali stabili. La piena accettazione dei divorziati risposati (con le rispettive nuove famiglie). Temi sui quali più volte Benedetto XVI ha espresso pareri contrari e forse definitivi. E con lui il Vaticano.
“Che sia stato Schönborn a riportare certe tematiche all'attenzione di tutti non è un caso” racconta Vittorio Bellavite, leader della sezione italiana del movimento Noi siamo chiesa. “Il nostro movimento, infatti, è nato dalle ceneri del caso di Hans Hermann Groër, il predecessore di Schönborn a Vienna. Fu a seguito delle accuse di pedofilia contro Groër che a Innsbruck e a Vienna alcuni cattolici vollero reagire e stilare il celebre ‘Appello dal popolo di Dio'. Appunto un'agenda per le gerarchie della chiesa fatta di punti precisi. Un'agenda che ritengo Schönborn condivida. Altrimenti non si spiegherebbe perché, pochi giorni fa, l'arcivescovo di Vienna abbia tenuto una celebrazione penitenziale in cattedrale e al suo fianco abbia voluto Hans Peter Hurka e Martha Heizer, i leader del nostro movimento in Austria. La celebrazione era in diretta televisiva. Il gesto di Schönborn è stato un segnale voluto”.
Dal 1995 a oggi l'Appello è stato firmato da oltre due milioni e mezzo di persone. Inizialmente ci fu l'appoggio anche di molti vescovi austriaci. Poi i presuli vennero richiamati all'ordine dal Vaticano, e ritirarono l'adesione. Da quel giorno, con le gerarchie, almeno in forma ufficiale, nessun contatto. Dice Bellavite: “Un'eccezione è stata l'incontro del 2007 con il cardinale Angelo Bagnasco. Il presidente della Cei ci ha ascoltato ma ci ha anche detto che la strada della chiesa resta un'altra rispetto alla nostra”.
L'Austria è sempre stata un terreno fecondo per un episcopato conciliare con le istanze del mondo. E per questo motivo è stato più volte ripreso da Benedetto XVI. Eppure, ancora oggi, è in Austria che un certo leitmotiv va avanti. Pochi giorni fa è stato Paul Iby, vescovo di Eisenstadt nel Burgenland, a dirsi pubblicamente non solo per l'abolizione del celibato ma anche per l'apertura del sacerdozio alle donne. Dice: “Per i preti sarebbe sicuramente un sollievo se l'obbligo del celibato venisse revocato”. E ancora: “Roma è troppo timorosa, così non si va avanti”.
L'ala progressista chiede cose precise: il superamento della separazione strutturale tra chierici e laici per una corresponsabilità nella chiesa; un aperto confronto sulla sacra scrittura per raggiungere la piena partecipazione delle donne ai ministeri ecclesiali; la possibilità per le singole comunità di celebrare l'eucaristia e animare la propria fede in una pluralità non delimitata da regole e canoni storicamente condizionati; i preti devono essere lasciati liberi di aderire al celibato o meno; i divorziati devono poter accedere all'eucaristia; nel campo della regolazione delle nascite ci deve essere libertà di coscienza; ogni discriminazione nei confronti delle persone omosessuali deve essere superata. Dice il teologo Vito Mancuso: “In generale la partita è chiara. Si tratta di tornare alla leggerezza di fondo che caratterizzava Gesù e le prime comunità cristiane. Si tratta di tornare all'unico principio veramente non negoziabile per la chiesa: l'amore di Dio e per il mondo. Non c'è da avere paura, non c'è da temere nulla. C'è solo da ritrovarsi e dialogare. A mio avviso, l'indizione di un Concilio Vaticano III è quanto mai indispensabile. Il Vaticano II non basta più”.
Il celibato dei preti è un nodo sul quale ciclicamente i progressisti tornano a dire la loro. E quest'anno, in concomitanza con l'anno sacerdotale, l'attacco è stranamente più veemente. Sostengono che il celibato non abbia un fondamento teologico e sussista semplicemente in virtù di una legge canonica entrata in vigore col Concilio di Trento. Mentre il Papa e la maggioranza dei vescovi dicono altro, che abbia radici nel Vangelo, sostanzialmente nella scelta di Cristo dei dodici. Don Paolo Farinella, prete ligure che non ha mai nascosto un acerrimo antagonismo nei confronti delle gerarchie e di Roma, cita il cardinale Martini il quale “ha sempre detto che il celibato non è un obbligo”. Perché? “E' semplice: i preti si scelgono tra coloro che preventivamente dichiarano di essere portati al celibato. Quindi il celibato è una condizione previa al sacerdozio ma non è collegata teologicamente con esso. Tant'è che nelle chiese orientali esistono i preti sposati. E adesso ne arrivano nella chiesa cattolica anche dalle comunità anglicane”. Secondo don Farinella tutto si gioca nella lettura che si fa del Vaticano II: “C'è poco da fare. Ratzinger con l'ermeneutica del rinnovamento nella continuità ha svuotato di ogni contenuto il Concilio. Mentre invece il Vaticano II, al contrario di quanto sostiene il Papa, è del tutto incompatibile con i pontificati precedenti. Tutti i pontificati, da Gregorio XVI a Pio X, sono incompatibili col Concilio. Del resto Pio XII sosteneva che la chiesa deve tenere aperte le sue porte e il mondo deve entrarvi dentro. Che piaccia o no il Concilio ha detto l'opposto: la chiesa sta nel mondo. La visione del passato è morta”.
Tantissimi fedeli vivono situazioni familiari non facili. I divorziati risposati sono sempre più numerosi. Lo disse anche Ratzinger dialogando con Peter Seewald: “Non v'è dubbio che questo sia un grave problema per la nostra società in cui aumenta sempre più il numero dei matrimoni che si rompono”. Ma disse anche: “Occorre riconoscere che la sofferenza e la rinuncia all'eucaristia possono essere un qualcosa di positivo, con cui dobbiamo trovare un nuovo rapporto. Si può partecipare alla messa, all'eucaristia in modo significativo e fruttuoso senza che ogni volta si vada a fare la comunione”. Mentre l'ala liberal incalza portando altri contenuti: il Vaticano II ha sostenuto che il fine del matrimonio è l'amore dei due coniugi. Il Concilio di Trento ha invece detto che il fine del matrimonio è la procreazione. Occorre scegliere da che parte stare: con Trento o con il Vaticano II? Dice ancora don Farinella: “Se si sta col Vaticano II si supera una concezione preindustriale e contadina del matrimonio e si ammette che il matrimonio è altro. E' amore. E l'amore può non essere sempre perfetto e può rinascere in altri luoghi. Del resto non capisco: ai divorziati risposati non si concede l'eucaristia, mentre invece i preti in stato di peccato mortale possono celebrarla. Mi sembra un enorme controsenso”.
Filippo Di Giacomo, canonista ed editorialista, esce dai casi singoli per guardare il problema in modo più ampio. Ha assistito da spettatore allo “schiaffo” di Schönborn alla curia romana. Dice: “E' il segno che oggi c'è una chiesa di base che non ne può più di cardinali e vescovi ottantenni che decidono tutto e pensano soltanto alla carriera. Eppure i nodi toccati da Schönborn sono già stati oggetto di studio e di stesura di documenti in Vaticano. Da tempo dentro le mura leonine c'è chi ne parla. Magari il dibattito è a fari spenti, ma comunque c'è. Basterebbe riprendere le ipotesi di riforme già vagliate. Tra queste la riforma del processo matrimoniale. Il cardinale Mario Francesco Pompedda, oggi scomparso, aveva proposto una riforma che permetteva di abbreviare i tempi dei processi di annullamento ma poi non se ne fece nulla”.
I temi sono sempre gli stessi, da anni: il celibato dei preti, la dottrina circa i divorziati risposati, e poi l'ipotesi dell'ordinazione femminile. Il Vaticano su questo punto monitora ogni movimento e punisce. Per la Santa Sede non si tratta di chiusura preconcetta, ma di corretta interpretazione del dettato evangelico. Due sono le contromisure che il Vaticano ha preso negli ultimi anni. La prima è un decreto emesso dalla Congregazione per la dottrina della fede “circa il delitto di tentata ordinazione sacra di una donna”. La seconda è l'interdetto spiccato da Raymond Leo Burke, quando ancora era arcivescovo di Saint Louis, contro una suora della sua diocesi, Louise Lears, colpevole di aver assistito e dato sostegno all'ordinazione al sacerdozio di due donne.
Nella chiesa cattolica, una spinta all'ordinazione femminile venne soprattutto dopo la pubblicazione della Lettera apostolica di Giovanni Paolo II “Ordinatio Sacerdotalis” del 1994. Quaranta vescovi degli Stati Uniti scrissero su Origins, la rivista della Conferenza episcopale, un articolo dove lamentavano che il testo di Wojtyla era stato emanato “senza alcuna previa discussione e consultazione”, quando invece riguardava una materia “che molti cattolici ritengono bisognosa di studi più approfonditi”. I quaranta chiedevano che le conferenze episcopali rispondessero colpo su colpo “ai testi di varia natura che vengono da Roma”, a cominciare da quello sull'ammissione delle donne al sacerdozio. Il principale promotore del documento era l'allora arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, già presidente dei benedettini confederati di tutto il mondo e star dei liberal americani, ora protagonista del caso Murphy-New York Times con le accuse di omesso controllo a Ratzinger e Bertone (al tempo del Sant'Uffizio).
Forse è soltanto una coincidenza. Ma molti osservatori qualche anno dopo annotarono stupiti come la chiamata alla rivolta di Weakland fosse stata messa in campo per la prima volta in Austria: ancora la terra di Groër e poi di Schönborn, la terra dove Noi siamo chiesa agisce con maggiore presa. Il primo vero atto di rottura, infatti, avvenne nel 2002 sul fiume Danubio, non lontano da Passau, al confine tra Austria e Germania. Lì, su un battello, un vescovo scismatico argentino, Romulo Braschi, ordinò al sacerdozio sette donne, le prime del movimento denominato Roman Catholic Womenpriests, che conta oggi diverse decine di ordinate prevalentemente degli Stati Uniti e del Canada, tra le quali quattro donne vescovo. Il 10 luglio 2002 il Vaticano reagì alle ordinazioni del Danubio con un decreto di scomunica.
Da Roma si teme che il numero delle donne ordinate cresca. E che vi sia qualche infedele: Patricia Fresen, l'ex suora che è una dei quattro vescovi del Roman Catholic Womenpriests, afferma d'essere stata ordinata all'episcopato nel 2005 da tre vescovi di cui tiene segreti i nomi.
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