Com'è andato il quarto convegno internazionale sui cambiamenti climatici

Brutto clima per il catastrofismo climatico, dicono a Chicago

Carlo Stagnaro

Nella città del vento tira brutta aria per l'allarmismo 
climatico. Si è concluso martedì a Chicago il quarto convegno 
internazionale sui cambiamenti climatici, promosso dall'Heartland 
Institute in collaborazione con una settantina di think tank da una 
ventina di paesi diversi, tra cui l'italiano Istituto Bruno Leoni.

    Chicago. Nella città del vento tira brutta aria per l'allarmismo 
climatico. Si è concluso martedì a Chicago il quarto convegno 
internazionale sui cambiamenti climatici, promosso dall'Heartland 
Institute in collaborazione con una settantina di think tank da una 
ventina di paesi diversi, tra cui l'italiano Istituto Bruno Leoni. 
L'incontro è un mix di riflessioni approfondite e ironia irriverente: 
la parola più gettonata è “climategate”. Domenica sera, i lavori si 
sono aperti con una standing ovation per Steve McIntyre, lo studioso 
che, in tempi non sospetti, ha sbugiardato il grafico “a mazza da 
hockey” di Michael Mann, cioè la ricostruzione delle temperature medie 
degli ultimi mille anni che mostrava un improvviso e drammatico 
aumento durante il ventesimo secolo.

    

La mazza da hockey è stata a 
lungo il totem dell'Ipcc, il comitato delle Nazioni unite sui 
cambiamenti climatici, che solo recentemente si è arreso, rimuovendola 
dai suoi rapporti. Ma l'ultima parola sul grafico è, appunto, quella 
del climategate: le email dove Mann e gli altri sommi sacerdoti della 
climatologia discutevano su come truccare i dati (famosissima quella 
sul “trick”, il trucco, “to hide the decline”, per nascondere il 
declino delle temperature negli ultimi 15 anni) ed emarginare gli 
scettici. La vendetta, si dice, è un piatto da gustare freddo. A 
Chicago la vendetta assume la forma di una mazza da hockey distribuita 
a tutti i partecipanti, ornata dal gioco di parole “Mann-made global 
warming” (il riscaldamento globale creato da Mann, anziché man-made, 
cioè causato dall'uomo). La discussione si svolge attorno a tre 
filoni: la scienza, l'economia e la politica.

    L'aspetto forse più 
rilevante sta nel disaccordo,
    talvolta anche vivace, che ha visto i 
relatori confrontarsi tra loro e col pubblico. Non è – per gli 
organizzatori – un limite, ma il sale dello scetticismo. “La scienza è 
disaccordo, la scienza è questo”, tuona Joe Bast, presidente 
dell'Hearland Institute, introducendo il convegno. E per segnare la 
differenza rispetto agli altri, cita un passaggio, terrificante, dal 
libro “Why We Disagree About Climate Change” di Mike Hulme: “Non 
dobbiamo chiederci cosa possiamo fare noi per il riscaldamento 
globale, dobbiamo chiederci cosa può fare il riscaldamento globale per 
noi”. In queste parole, e nelle opere e nelle omissioni della lobby 
verde, gli scettici trovano conferma della tesi secondo cui, alla base 
di tutto, non c'è una sincera preoccupazione per l'ambiente: c'è 
soprattutto un'agenda politica. “Un importante politico – dice al 
Foglio Christopher Horner, del Competitive Enterprise Institute – 
diceva nel 1988 che dobbiamo cavalcare il riscaldamento globale, anche 
se non è vero”. Il nome? “Barack Obama: è la stessa retorica che ci ha 
inflitto col discorso sullo Stato dell'Unione a fine gennaio”. “Quando 
sento parlare di verità incontrovertibili – aggiunge Richard Lindzen, 
climatologo al Mit di Boston – penso che stiamo uscendo dal campo 
della scienza, ed entrando in quello della religione”.

    Pamela Gorman, 
affascinante senatrice dell'Arizona che corre per il Congresso ed è 
osannata perché è riuscita a impedire che il suo stato adottasse uno 
schema di “cap and trade”, la mette così: “Per risolvere i nostri 
problemi energetici, il governo deve fare una cosa: togliersi dai 
piedi. L'America è ricca di risorse energetiche ma non può sfruttarle 
adeguatamente, e sapete perchè?”. Coro dal pubblico: “perché il 
governo è tra i piedi”. Non riscuotono simpatia le fonti rinnovabili. 
“Niente di male, per carità – ragiona l'ex governatore della Virginia, 
George Allen – ma se l'obiettivo è avere energia abbondante, 
affidabile, ed economica, i dati ci dicono questo: gli stati dove 
l'energia costa meno sono quelli che sfruttano di più il carbone, più 
il gas naturale per coprire i picchi di domanda. Volete una fonte 
senza emissioni? La risposta è il nucleare”. Nei corridoi si mischiano 
scienziati austeri e attivisti sinceri, economisti blasonati e popolo 
dei tea parties.

    C'è chi parla di green jobs, parola d'ordine 
dell'America obamiana
    per promuovere le energie verdi in chiave 
anticrisi. Le esperienze spagnola, italiana, tedesca e danese 
aleggiano come fantasmi: l'aumento dei costi dell'energia uccide più 
posti di lavoro di quanti ne vengano creati dalle fonti pulite. C'è 
chi si infiamma sulle incertezze che ancora circondano il fenomeno del 
riscaldamento globale. C'è chi, come Indur Goklany del Cato Institute, 
enfatizza come “con tutto questo parlare di clima abbiamo smesso di 
parlare della povertà, che è il problema sociale e ambientale numero 
uno, e che verrebbe aggravata dalle politiche climatiche”. C'è Lord 
Monckton, già consigliere di Margaret Thatcher, che ha sfidato a un 
confronto pubblico Al Gore (senza risposta).

    C'è l'ex astronauta 
Harrison Schmitt che galvanizza i conservatori dichiarando 
incostituzionali le manovre della Casa Bianca sul clima. Che però, 
giura Marita Noon, direttrice della Citizens' Alliance for Responsible 
Energy, non passeranno mai: “Washington sta facendo di tutto per 
limitare la nostra libertà, prima con l'Obamacare e ora col cap and 
trade. Ma questo non ha nulla a che fare col riscaldamento globale: 
l'obiettivo è il controllo sociale. Ci hanno provato un anno fa ma la 
gente si è sollevata. I tea parties e i town hall meetings hanno 
fermato la riforma climatica per un anno. Continueranno a farlo per 
altri sei mesi”. Sottinteso: le elezioni di mezzo termine faranno il 
resto, rovesciando gli equilibri al Congresso. E' difficile, 
impossibile, citare tutti. Ci sono un centinaio di speaker, e un 
pubblico di più di 800 persone – molti dei quali economisti, 
scienziati, decisori politici – che pure avrebbe tanta voglia di 
parlare. Una cosa è certa: qui non si respira l'aria stantia delle 
catacombe. Si respira l'aria di un movimento che vuole battere i pugni 
sul tavolo per difendere le libertà individuali, il mercato, la 
crescita economica e il metodo scientifico. Il clima (intellettuale) è 
cambiato.