CoMounque vada
Stasera è la sera. Madrid è la città che dice chi sei nel calcio. Succede sempre e oggi di più. Succede perché non ci poteva essere altro che Madrid nel destino di questa stagione che deciderà se sarà cronaca o storia. E' un simbolo, un incrocio, un bivio, una deviazione, un punto d'arrivo. Stop. Da qui è difficile partire e quasi impossibile arrivare. Uno sa all'inizio di ogni anno dove si gioca la finale di Champions.
Stasera è la sera. Madrid è la città che dice chi sei nel calcio. Succede sempre e oggi di più. Succede perché non ci poteva essere altro che Madrid nel destino di questa stagione che deciderà se sarà cronaca o storia. E' un simbolo, un incrocio, un bivio, una deviazione, un punto d'arrivo. Stop. Da qui è difficile partire e quasi impossibile arrivare. Uno sa all'inizio di ogni anno dove si gioca la finale di Champions. Puoi trovarti di fronte ogni possibilità, ma nessuna sarà come il Santiago Bernabeu. Neanche Barcellona. Neanche Manchester. Neanche Roma. Ci sono luoghi dell'anima del pallone e Madrid è quello. Stasera è la sera per questo oltre che per altro. Inter-Bayern, una vince, l'altra perde: la semplicità di un risultato per chiudere tutto in una partita. La follia del calcio contemporaneo insaccata in un comune one shot: banale, amaro, triste, complicato, incredibile, pazzesco. Eppure giusto. Non c'è alternativa credibile. Il calcio non l'ha trovata perché è la vita che glielo vieta. Madrid è spietata. Funziona perché è la casa di un pallone che rotola e decide che cosa succede.
Già, ecco la domanda che fa avanti e indietro lungo la banda larga delle emozioni che rimbalzano tra Milano, Monaco e Madrid: come sarà stasera? Sarà la divisione identica a se stessa a ogni giro completo di calendario: vedrai giocatori miliardari in lacrime stesi per terra e altri giocatori miliardari in mutande felici. Felicità contro tristezza, gloria contro anonimato, esultanza contro depressione. Vedrai quello che già sai, quello che sanno tutti, eppure che sembra ogni volta così nuovo. Perché non ci si può abituare a un risultato, che tu vinca o che tu perda. Madrid nasconde tutto in poco tempo e in poco spazio. E' la fine di un percorso fisico e mentale, è il posto dove capirai chi sei. Qui e solo qui, come se non esistesse altro, perché questo adesso è sempre stato il punto più vicino al centro. C'è a ogni svolta. Prova a contare quante volte compare nel corso di un anno pallonaro: è il centro di ogni trattativa, il centro di ogni sorteggio perché tutti vogliono evitarla, è il termine di paragone con il resto d'Europa, è il confronto, è la delusione di una eliminazione, è la gioia immensa di una vittoria. Cominci sempre col calciomercato: il Real compra il mondo e ti lascia il meglio. Allora Sneijder e Robben, per esempio. Cioè molto di quello che stasera sarà lo spettacolo con due maglie diverse da quella blanca del Madrid. Poi prosegui con l'aspettativa: al mondo non c'è nessun'altra città che abbia la vittoria come obbligo morale e fisico. Madrid non è come il resto d'Europa. E' un simbolo, un il luogo dell'anima del pallone, il posto dove s'incrocia la tradizione e il futuro. Per chi vive di calcio, questa non è una città, ma una parola che lo accompagna ovunque vada: allenatori, giocatori, tifosi. E' una sintesi: la meta di un percorso che comincia con quel benedetto sorteggio svizzero. Prima di sapere con chi avrebbero giocato, Inter e Bayern sapevano che l'obiettivo era questa città e questo stadio. Una certezza ovvia che nasconde la potenza magica di questa serata.
Stasera è la sera perché si finisce e contemporaneamente si ricomincia. Madrid è lo snodo della sceneggiatura. Un luogo che non è solo un luogo, ma un contenitore di suggestioni: l'Inter arriva a giocarsi dopo 38 anni una finale di Coppa dei campioni. Moratti dopo Moratti, Massimo dopo Angelo: tutte cose già viste e già lette, però è come se oggi siano una novità. Perché il giorno della partita cancella la memoria lunga per lasciarti il ricordo di quella breve: l'Inter partita per vincere questo trofeo, ma così interizzata da rischiare di uscire nel girone d'andata. L'Inter che finisce dove nessuno avrebbe voluto finire: Londra, contro il Chelsea, un'altra di quelle partite con la stessa ambizione. E poi Mourinho contro il se stesso londinese, mezza Milano contro Ancelotti che fino all'anno scorso era l'anima dell'altra metà della città. Lo sport, la tattica, la tecnica, la psicologia, le motivazioni, le emozioni. In un film quella sfida sarebbe stata la scena madre: Carlo sulla panchina del Chelsea e José su quella dell'Inter, San Siro prima e Stamford Bridge poi. La connessione, l'intreccio, il ribaltamento: un italiano all'estero e uno straniero in Italia. Quella avrebbe dovuto essere la partita. Panoramica e soggettiva: un mix di inquadrature immaginarie che scavano nell'anima dei protagonisti. Invece questa stagione ha regalato di più.
Vittoria in casa, vittoria in trasferta, la maledizione dell'ottavo di finale che scompare. Arriva il Cska Mosca: facile, dicono tutti. Però c'è già lo sguardo altrove, alla semifinale, al Barcellona, al meglio che c'è, allo strapotere catalano, alla gioia, alla fantasia, all'invidia che il mondo prova vedendo il Barça in campo. Un tifoso non può non pensarci: questa stagione da romanzo è troppo piena di cose, così piena da farti dimenticare i dettagli. Allora vai al grosso: Barcellona sconfitto, finale, Madrid, futuro. La partita perfetta, dirà Mourinho. Perfetta quella di San Siro e quella del Camp Nou. Quale migliore? “Impossibile dirlo”. In mezzo il campionato e in mezzo al campionato le parole. Oggi si archivia tutto in un database delle emozioni. Oggi è la finale: non c'è ieri, non c'è domani. Il Santiago Bernabeu è il posto migliore per confinare il resto in uno scatolone. La sua grandezza ti ricorda perché sei lì. Vedi? Ruota tutto attorno a Madrid. Il luogo oltre al fatto, anzi il luogo che rende il fatto ancora più straordinario. Ci ritorni anche senza volerlo perché l'epica del Bernabeu risucchia ogni cosa. Allora la storia: in quello stadio l'Italia ha vinto poco. Ha vinto l'Inter di Herrera, la Juventus di Sivori, la Roma di Totti, il Milan di Pirlo, ha vinto l'Italia di Pablito Rossi. Non c'entra, ma c'entra. Perché l'importanza di una giornata è scandita anche dai precedenti. Non servono a dare prestigio, ma a riflettere su quello che sei. Non è vero che vincere è uguale dappertutto: chiedetelo a chi ha vinto a Wembley, per esempio. Il posto fa la differenza perché ti carica di un'aspettativa diversa. Vincere a Madrid significa prendersi l'Europa per davvero.
L'ha scritto Roberto Beccantini: “Quando, il 25 marzo 1957, i ministri degli Esteri di Belgio, Francia, Germania occidentale, Italia, Lussemburgo e Olanda firmavano a Roma il trattato istitutivo della Cee (Comunità economica europea), il Real Madrid si avviava a conquistare la seconda delle cinque Coppe dei campioni consecutive che l'avrebbero consegnato al mito. Lo sport stava unendo il continente in largo anticipo sulla politica e i suoi tempi lunghi, i suoi riflessi lenti”. Madrid è lo scenario di qualcosa che va sempre oltre i confini dello sport. Adesso è il traguardo di un percorso, la partenza di un altro, l'intersezione di fatti, storie, personaggi. Perché ci sono i ripudiati di Madrid come Robben, Cambiasso, Sneijder che tornano da fenomeni, perché c'è Mourinho che arriva per restare. La notte in cui si decide il destino è anche quella in cui si va a caccia del resto. Allora sarà come sono sempre stati questi due anni di José in Italia: un'altra sfida tra il mondo e lui, un altro pretesto per metterlo alla prova, un altro tentativo di capire se è più bravo o più furbo. Se la gioca contro il suo maestro che lui non chiama così: Van Gaal è stato un mentore dal quale s'è distaccato senza divorzio litigioso. Sono diversi, sono complicati, sono personaggi. La sensazione che lascia la vigilia della partita è che José avrebbe preferito giocarsela con qualcun altro. Non per paura, ma perché quante coincidenze possono esserci in una stagione? Lui aveva già avuto quella di Londra, contro il Chelsea, poi è arrivata quella di Barcellona, adesso la sfida con Luis. E' un'altra parte di questa sceneggiatura folle che prevede così tanti colpi di scena da farti sembrare che non ce ne sia alcuno.
Perché adesso tutti dicono che l'Inter era destinata alla finale. Cosa? All'inizio della stagione solo uno che conosca davvero le dinamiche del calcio può aver scommesso sull'Inter finalista. Uno normale, un sempliciotto, uno che non è tifoso ma solo appassionato, realisticamente avrebbe puntato al massimo su una semifinale. Perché il conto della serva è facile: Manchester United, Barcellona, Chelsea e Real Madrid sembravano più attrezzate come organico e come tradizione. Non è arrivata nessuna delle quattro perché il pallone si diverte sempre a lasciar giocare solo alcuni. Oggi che la finale è Inter-Bayern Monaco tutti continuano solo a chiedersi di chi sia il merito. Mourinho naviga in queste acque da motivatore di successo. Madrid lo aspetta stasera e per il futuro. Perché se uno vince con l'Inter poi gli resta soltanto da far vincere il Real dei Galacticos. Strana cosa questa: perché il Madrid non è squadra da allenatori fenomeni. C'è stato Capello, certo. Poi però il vuoto. Anche questo lo spiega Beccantini: “Il Real si cita per giocatore, e non per allenatore. I tecnici delle cinque Coppe dei campioni di fila furono addirittura quattro: Villalonga, Fleitas, Carniglia, Munoz. Un giornale madrileno organizzò a suo tempo un referendum: su 3.482 partecipanti, soltanto due li ricordavano tutti e quattro. Da Di Stefano a Raul, via Butragueño e tanti altri, sono stati i singoli a illustrarne l'ascesa. Non a caso Vicente Del Bosque, una vita da mediano, era un riservista a riposo. La filosofia di base è sempre quella: il massimo con il massimo. L'estetica come ossessione, unico club al mondo a esonerare un allenatore, Radomir Antic, nonostante fosse primo in classifica”.
Evidentemente è successo qualcosa anche lì. Quanto può soffrire un madrileno a vedere il Santiago Bernabeu occupato da altri? Mourinho serve per la dignità. Serve per sperare di vincere. Portogallo, Inghilterra, Italia: gli manca la Spagna e ha già scelto Madrid. Anche questo l'abbiamo letto e l'abbiamo scritto a ripetizione in questi ultimi giorni, però oggi è come se fosse diverso. E' come se anche questo fosse stato cancellato per ricominciare da stasera. C'è che persino Madrid ha bisogno di crearsi un eroe come abbiamo fatto noi. Sì, forse ha ragione chi dice che abbiamo sempre la necessità di costruirci un totem da idolatrare, di un punto di riferimento a cui appigliarci. Forse ha persino ragione Ranieri che l'ha detto male, ma in realtà non ha sbagliato di molto: il fenomeno José non l'ha costruito Mourinho, ma quello che ruota attorno a lui, cioè stampa, tifosi, calciatori, critici, allenatori. E' qui che sbaglia Ranieri: non si rende conto che il caso Mou ha dato un vantaggio all'intera categoria. Cercare un'alternativa credibile a un vincente come il portoghese non ha fatto altro che movimentare un mercato fermo e stanco, come quello delle panchine. Mourinho ha riempito un vuoto. Ci voleva, perché il calcio è alla ricerca di condottieri. E' questa la strada per il prossimo futuro: allenatori personaggi con contenuto.
Non per forza somiglianti a José, ma carichi dello stesso carisma, dell'identica carica passionale ed emotiva, possibilmente. E' l'aspettativa, l'ambizione, la ricerca, l'ideale. Il calcio s'è messo alla caccia di uomini capaci di guidarlo perché ha capito che nel suo mondo c'è l'ultimo esempio di leadership globale. In un momento in cui ogni tipo di ruolo di comando viene messo in discussione, il calcio ne sente l'esigenza. E' un fenomeno simmetricamente opposto a quello che accade nel resto della società: la politica mette in discussione le sue leadership, la cultura fa altrettanto, la scienza pure, persino la chiesa cerca di minare le basi dell'identificazione del potere in un'unica figura. Possibile? Possibile. Poi c'è quello che non t'aspetti. C'è il sistema più volatile che ci sia che all'improvviso cambia registro. E' così che il pallone ribalta quello che succede altrove: un giro sul campo per cambiare la tendenza. In ciascuna società di calcio d'Europa adesso c'è la voglia di trovare chi incarni il passato, il presente, il futuro: testa, cuore, braccia, anima, gambe. E' la certezza di una guida: uno che sbaglia e si assume le responsabilità, uno che ci mette la faccia, uno che non ha paura del giudizio, uno che cerca lo scontro. Questo è José, che non avrà cambiato il modo di giocare, però ha modificato il costume del calcio. Italiano ora, inglese prima.
Dicono sia stato e sia solo un fenomeno mediatico. E allora? Sembra poco? Ha trasformato tre modi di dire, in tre tormentoni che esisteranno dopo di lui: “zeru tituli”, “prostituzione intellettuale” e “99,9 per cento”. Madrid è lo striscione d'arrivo anche per lui. Per il lavoro, forse per la vita. Perché è la città che identifica la voglia di vincere. José ha vinto, questa è la sua rivoluzione. Stasera conta perché è l'ultimo ostacolo verso la definitiva constatazione della sua capacità di creare squadre e mentalità vincenti. Non deve dimostrare nulla, ma può sconfiggere persino l'ultimo pregiudizio. Tre su tre, Coppa Italia, campionato, Champions, in Italia non c'è mai riuscito nessuno. Sentito e letto anche questo, ovviamente. Non ci sono novità oggi, ma cambia la luce, la prospettiva, la dimensione: una finale che si gioca a Madrid apre scenari che rendono originale anche il déjà-vu. La finale di stasera è l'incrocio di storie e di destini: chi resta, chi va, chi viene. La novità non è il contenuto, ma il contenitore. Undici contro undici, Bayern contro Inter: chi vuole minimizzare minimizzi, chi vuole gufare gufi, fa tutto parte di un pacchetto che prevede amici, nemici, invidia, gelosia, cattiveria, bontà. Niente di nuovo, tutto diverso. Non si cambia la storia, ha detto qualcuno correggendo chi stava per pronunciare quella frase. “La storia non si cambia, si fa”.
Una partita di pallone può valere tanto o poco, dipende sempre dalla prospettiva. Quella di alzare una coppa al Bernabeu ti convince che non ci sia nulla al mondo che valga altrettanto. E' esagerato, è comprensibile. E' il bello del pallone che non è niente di serio fino a quando non tocca te stesso. Allora cambia tutto. Trentotto anni di attesa per un giorno così per gli interisti sono abbastanza per farli sentire al centro del mondo. Tra loro e la storia c'è il tempo di una notte. Dura novanta minuti più recupero, come sempre.
Il Foglio sportivo - in corpore sano