“Lost” dimostra che la buona tv è molto meglio di un buon film da festival

Mariarosa Mancuso

Il gran finale di “Lost” coincide con il finale in sordina del Festival di Cannes. Tra i premiati sulla Croisette, nessun film che ci sentiremmo di consigliare, mentre la serie tv di J. J. Abrams, dopo sei stupefacenti stagioni, già metteva pensieri tristissimi – come sarà la nostra vita senza i sopravvissuti del volo Oceanic 815? – e scatenava speculazioni. Alla fine tutti i misteri saranno chiariti oppure avremo un finale alla “Soprano”, schermo che diventa nero come se qualcuno avesse staccato la spina del televisore?

    Il gran finale di “Lost” coincide con il finale in sordina del Festival di Cannes. Tra i premiati sulla Croisette, nessun film che ci sentiremmo di consigliare, mentre la serie tv di J. J. Abrams, dopo sei stupefacenti stagioni, già metteva pensieri tristissimi – come sarà la nostra vita senza i sopravvissuti del volo Oceanic 815? – e scatenava speculazioni. Alla fine tutti i misteri saranno chiariti oppure avremo un finale alla “Soprano”, schermo che diventa nero come se qualcuno avesse staccato la spina del televisore? L'accumularsi di flash back, flash forward e flash sideways (i salti indietro della prima stagione, i salti in avanti che hanno fatto fuggire strada facendo un po' di spettatori, e gli squarci su vite parallele che secondo i maligni rivelano un certo smarrimento negli sceneggiatori), hanno complicato parecchio la robinsonata delle origini.

    Neanche il Robinson di Defoe era un campione di coerenza narrativa. In una pagina Crusoe si spoglia nudo, nuota fino alla nave, e si riempie le tasche di gallette. In un'altra si spaventa moltissimo trovando l'impronta di un piede sulla sabbia: una sola orma, orfana dell'altra. E' evidente che il romanziere puntava all'immagine choc, ben sapendo che se un narratore gioca bene le sue carte non stiamo a fargli le pulci. Succede lo stesso con “Lost”. Non importa se abbiamo saltato una puntata, o anche più d'una: ogni scena ha in sé abbastanza elementi per risucchiarci nella vicenda e tenerci incollati allo schermo, se a guidarci è il puro godimento da spettatori. Ne sa qualcosa chi accumula gli episodi per vederli in maratona: staccarsi è quasi impossibile, anche se la notte avanza e arriva l'alba.

    Mentre tutti aspettavano “Lost”, con l'ostinazione che sempre contraddistingue le cause perse a Cannes si discuteva se accogliere in concorso la mini-serie (cinque ore e mezza, tre puntate) di Olivier Assayas sul terrorista Carlos. Questa sì da consigliare caldamente, oltre che molto superiore alla maggior parte dei film in gara per la Palma. Niente da fare: pollice verso, trattasi di tv, per i cinefili il nuovo oppio dei popoli (infatti usano “televisivo” per bollare i film sciatti). Niente concorso principale e niente concorso secondario “Un certain regard”, per non creare un precedente attirando futuri postulanti.

    Il precedente già c'era: “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana, prodotto dalla Rai e dopo Cannes dirottato nelle sale. Ma allora nessuno urlò allo scandalo. Eppure era girato assai peggio di “Carlos”: beati i paesi come la Francia in cui la tv satellitare mette in cantiere un progetto con cento personaggi, un montaggio velocissimo, un quadro spietato delle follie terroristiche, dialoghi in quattro lingue, mentre nelle nostre fiction nessuno ha mai l'accento giusto. Ogni festival è padronissimo di suicidarsi, se ne ha voglia. Ma è orribile pensare che l'anno prossimo avremo altri thailandesi e altri Kiarostami e altri ucraini invece di Kathryn Bigelow, Martin Scorsese, Jonathan Demme. Tutti e tre al lavoro, in questi mesi, su serie televisive.