Alle prese con la zona grigia

Paolo Rodari

Due agende per la chiesa cattolica. Quella della chiesa progressista e quella della chiesa che resiste, l'establishment col suo magistero e le sue strutture. Dopo lo “schiaffo di Vienna” che ha riaperto nelle gerarchie il dibattito sulle riforme, la zona grigia dove avanzare continue richieste in nome del primato della libera coscienza resta un campo aperto: la scienza, la vita e la morte, sono i temi sui quali l'ala liberal della chiesa chiede nuove aperture.

    Due agende per la chiesa cattolica. Quella della chiesa progressista e quella della chiesa che resiste, l'establishment col suo magistero e le sue strutture. Dopo lo “schiaffo di Vienna” che ha riaperto nelle gerarchie il dibattito sulle riforme, la zona grigia dove avanzare continue richieste in nome del primato della libera coscienza resta un campo aperto: la scienza, la vita e la morte, sono i temi sui quali l'ala liberal della chiesa chiede nuove aperture, un generalizzato accomodamento ai dettami del mondo. L'establishment cerca di resistere aggrappandosi alla non piena disponibilità e programmabilità della vita, ai princìpi “non negoziabili” di ratzingeriana genesi, al concetto che non esistono due chiese, una progressista e una conservatrice, ma un'unica chiesa che non può tradire la sua dottrina nonostante vi sia chi la mette in dubbio.

    I riformatori, le frange liberal,
    ribadiscono che la vita può non essere indisponibile: c'è sempre un momento in cui fare un passo indietro e mediare. Si tratta di due correnti di pensiero contrapposte: chi ritiene che esistono dei princìpi che non si possono tradire e chi pensa che tutto in fondo abbia dei margini di modificabilità. Il cardinale Carlo Caffarra nel febbraio 2006 spiegò durante una conferenza all'Istituto “Veritatis splendor” perché, a suo parere, su certi princìpi la chiesa non può modificare nulla. Lo spiegò distinguendo tra princìpi e regole. Disse: “Quando oggi si parla di etica e quindi anche di bioetica si pensa subito a regole da osservare, per cui si ritiene che tutti i problemi di etica e quindi di bioetica siano problemi del genere: quali regole devono essere fissate? Chi ha l'autorità per farlo? E così via”. In realtà le regole sono una cosa, mentre “la considerazione etica è molto più profonda”. Che cosa è? Di che cosa si discute quando si discute di etica-bioetica? “La risposta oggi più comunemente accettata nella società occidentale e nelle dottrine che la plasmano culturalmente è la seguente: nessuna persona umana è dotata di un tale valore da escludere assolutamente e incondizionatamente la sua utilizzazione. La risposta che la chiesa dà è invece la seguente: ogni persona umana, dal momento del suo concepimento alla sua fine naturale, è dotata di un tale valore da escludere assolutamente e incondizionatamente che essa possa essere esclusivamente considerata e trattata come un mezzo: essere utilizzata. E pertanto esistono dei rapporti con la persona umana, dei comportamenti nei suoi confronti che sono sempre e ovunque ingiusti. Ieri, oggi e sempre; nella cultura occidentale ed orientale: ovunque”.

    Ma perché la chiesa pensa così e un certo mondo – con esso c'è anche qualche vescovo – pensa diversamente? O meglio, cosa intende la chiesa quando dice che la vita è indisponibile? A cosa si áncora il suo pensiero? Padre Giorgio Carbone, domenicano, docente di Bioetica e teologia morale presso la facoltà di Teologia di Bologna, dice: “Che la vita fisica sia un bene indisponibile è un principio laico e non confessionale. Può essere illustrato ricorrendo a due considerazioni. Primo: il mio esistere è indisponibile, perché è la condizione per poter compiere atti e gesti di libertà. Perciò se disponessi del mio esistere privandomi di esso, mi precluderei qualsiasi esercizio futuro della libertà. Secondo: io, pur godendo dell'esistenza, sperimento di non esser venuto all'esistenza di mia iniziativa, ma piuttosto sperimento che l'ho ricevuta senza un mio intervento e che mi potrebbe essere tolta in qualsiasi istante, sebbene la volontà mia o altrui si opponga. In altri termini io non sono la causa efficiente del mio esserci, perché se lo fossi dovrei essere prima ancora di esistere. Perciò devo ammettere di dipendere nell'essere e che il mio esistere è un bene che supera la mia capacità di realizzazione. Ora mentre posso disporre di quei beni che rientrano nelle mie capacità, cioè di quei beni alla cui esistenza io concorro come causa efficiente (come ad esempio la proprietà di oggetti o le prestazioni professionali), non posso eticamente disporre di quei beni che eccedono le mie capacità. Ed è proprio questo il caso del mio esserci. E' vero che di fatto posso suicidarmi, cioè disporre della mia esistenza. Ma che ciò sia fisicamente possibile non significa che sia eticamente sostenibile, che sia corrispondente alla dignità umana. Anzi, se disponessi del mio esserci mediante il suicidio, andrei al di là di quelle che sono le mie competenze e cadrei nella più tragica delle contraddizioni perché eserciterei la mia libertà a danno di me stesso”.

    Cosa significhi, nella pratica, che la vita è indisponibile Benedetto XVI l'ha spiegato quando per la prima volta ha introdotto nel suo magistero il termine “princìpi non negoziabili”. Era il 30 marzo del 2006. Il Papa riceveva in udienza i parlamentari del Partito popolare europeo. In Italia mancavano soltanto nove giorni alle elezioni che avrebbero portato Romano Prodi alla presidenza del Consiglio. Se e quanto il discorso del Papa venne influenzato dall'arrivo della tornata elettorale che avrebbe poi portato al governo anche uomini politici ostili alla visione della chiesa sulla bioetica è difficile dirlo. Fatto sta che le parole del Papa, in Italia, vennero lette come un richiamo contro una parte politica. Ratzinger disse che l'interesse principale degli interventi nell'“arena pubblica” della chiesa cattolica “è la tutela e la promozione della dignità della persona” che “richiama consapevolmente una particolare attenzione su princìpi che non sono negoziabili”. Quali? Tutela della vita, riconoscimento della struttura naturale della famiglia, tutela del diritto dei genitori di educare i propri figli. Certo, non si tratta di verità di fede, ma sono princìpi “iscritti nella natura umana stessa e quindi sono comuni a tutta l'umanità”.

    La chiesa italiana ha sempre seguito il Papa su questa linea.
    Nell'era del cardinale Camillo Ruini alla guida della Cei i temi della vita erano all'ordine del giorno di ogni suo intervento davanti ai vescovi riuniti in assemblea. E la cosa, seppure con una modalità espositiva diversa, continua ancora nell'era del cardinale Angelo Bagnasco. “E' inevitabile” racconta il portavoce di Scienza & Vita Mimmo Delle Foglie. “E' la sfida più decisiva del nostro tempo. La lotta tra il bene e il male si gioca oggi su queste tematiche. Decenni fa era la lotta tra il capitalismo e il comunismo. Oggi non più. Oggi la battaglia è sulla concezione che si ha della vita: se è un bene disponibile o indisponibile. L'altro ieri aprendo l'assemblea del vescovi Bagnasco ha parlato del suicidio demografico. L'ideologia delle politiche anti natalità sono morte. Ma nessuno fa mea culpa. E' su questo campo che la chiesa deve stare”.

    Del calo demografico e in generale delle questioni
    inerenti la bioetica il quotidiano della Cei Avvenire e l'Osservatore Romano ne parlano con solerzia. Anche gli editoriali sull'Osservatore del banchiere Ettore Gotti Tedeschi sono spesso su questo argomento: la denatalità fa soffrire le economie. Eppure non tutti nella chiesa sentono il problema come impellente. C'è anche una chiesa ben radicata in associazioni e movimenti ecclesiali che ritiene che le questioni sociali debbano venire prima di tutto, ovviamente anche prima delle tematiche inerenti la vita. Probabilmente è soltanto un caso, ma alcuni tra i vescovi italiani riuniti in questi giorni in Vaticano per l'assemblea generale hanno notato come il documento preparatorio per la settimana sociale dei cattolici italiani che si svolge a Reggio Calabria il prossimo ottobre non abbia nessuno dei trentasette capitoli programmatici (sono in sostanza i temi, dunque le priorità, sui quali la chiesa italiana nel suo insieme è chiamata a lavorare) dedicato alla vita e alla sua difesa. Tanto che, nella conferenza stampa di presentazione delle stesse settimane avvenuta lo scorso 10 maggio, Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente del comitato scientifico e organizzatore delle settimane, ha dovuto specificare che l'assenza di queste tematiche “non è un accantonamento”. E' semplicemente, come recita il capitolo 33 dello stesso documento, che “nella lista di problemi che abbiamo proposto non vengono esplicitate alcune grandi questioni”.

    Occorre ricordare quanto segue: in termini generali è difficile, se non quasi impossibile, trovare un vescovo o un cardinale che non si dichiari pubblicamente convinto circa l'indisponibilità della vita. Ma è quando si va nel particolare e nel pratico che la musica cambia. Perché se è vero che esiste una chiesa che resiste alle spinte del mondo, è anche vero che, non soltanto nelle frange liberal o progressiste, ma anche nella chiesa che si professa fedele alla dottrina ci sono spinte contrarie e diverse. Un caso emblematico fu la morte di Eluana Englaro. Nei giorni che la precedettero si notò una differenza di approccio tra l'Osservatore e Avvenire. L'Osservatore, e la cosa venne riferita all'influenza della segreteria di stato vaticana, era stranamente silenzioso e prudente. Più combattivo il giornale della Cei. Il perché della prudenza dell'Osservatore venne in qualche modo svelato subito dopo la morte di Eluana in un editoriale del direttore Gian Maria Vian: le questioni poste dalla scienza “sono divenute politiche” ed è per questo che “la riflessione e la prudenza sono quanto mai necessarie” e che “la responsabilità di politici, legislatori e magistrati è sempre più grande”. Senza politica difficilmente si ottengono risultati. Ma la politica divide, porta tematiche alte a un livello di praticità nel quale non sempre gli uomini di chiesa intendono implicarsi.

    Può sembrare paradossale ma è la realtà delle cose. Se oggi le parole del Papa relative ai princìpi non negoziabili possono trovare una certa ostilità là dove il cattolicesimo si fa molle e debole, queste stesse raggiungono un pieno consenso in certi settori del mondo protestante e ortodosso. Non è un mistero che molti di quegli anglicani che stanno approfittando de Motu proprio “Anglicanorum coetibus” decidano di rientrare nella chiesa cattolica proprio per il suo ancoraggio a certi valori. Nel mondo anglicano hanno fatto molto parlare di sé anche i firmatari della cosiddetta “Westminster Declaration”, una coalizione religiosa e culturale che durante la scorsa campagna elettorale britannica ha voluto ricordare a tutti le loro posizioni “cultural conservative”. Tra i firmatari c'erano Lord Carey, ex arcivescovo di Canterbury e membro della Camera alta, il vescovo emerito di Rochester, Michael Nazir-Ali, e il cardinale Keith O'Brien, alla guida della chiesa cattolica in Scozia. L'agenda della “Westminster Declaration” era chiara: no all'aborto, no all'eutanasia in qualsiasi forma, sì al matrimonio inteso come unione impegnativa e a vita di un uomo e di una donna.

    Quanto agli ortodossi, è cosa nota che il feeling con Ratzinger, un feeling che si fonda su un'alleanza particolare, quella che vede la cristianità come l'ultimo baluardo in Europa capace di contrapporre certi valori alla secolarizzazione e al relativismo. In proposito molti nella chiesa si domandano: sarebbero capaci certi vescovi cattolici di dire le cose che il dicembre scorso scrisse il numero due del patriarcato di Mosca, Hilarion Alfeyev, in una prefazione a un libro che raccoglie i testi di Ratzinger dedicati all'Europa? Il testo di Hillarion ha fatto scuola. Fu uno segnale importante di una unità intellettuale di fatto oggi acclarata (e confermata giusto settimana scorsa da una “due giorni” di Hilarion a Roma nella quale egli ha stupito tutti dicendo: “Un incontro tra il Papa e il Patriarca russo ortodosso penso sia ora possibile. Il mio auspicio è che questo incontro non si svolga tra un qualsiasi Patriarca e un qualsiasi Pontefice ma tra Kirill I e Benedetto XVI”. Che Roma e Mosca viaggiano oramai quasi all'unisono è un dato evidente. Ma la cosa non è soltanto merito del fatto che a un Papa polacco ne è subentrato uno tedesco ( tra russi e polacchi, si sa, non corre buon sangue). E' anche una questione di sensibilità sui temi morali, sui valori, sui principi, su ciò che il cristianesimo e la sua tradizione rappresentano per la cultura europea.

    Scrive Hilarion nella prefazione al libro di Ratzinger: “Vi sono tante posizioni articolate nelle dottrina sociale della chiesa ortodossa russa che potrebbero non corrispondere agli standard del secolarismo. La chiesa considera l'aborto ‘un peccato grave', uguale all'omicidio, e dichiara che ‘dal momento del concepimento qualunque intervento contro la vita del futuro essere umano è criminale'. La chiesa respinge anche, come ‘contro natura e moralmente inammissibile, la cosiddetta maternità surrogata, insieme a ogni forma d'inseminazione extracorporea. La donazione umana è ritenuta una ‘sfida inequivocabile alla natura stessa dell'essere umano e all'immagine di Dio in essa impressa, di cui fanno parte integrante la libertà e l'unicità della persona'. La terapia fetale è considerata ‘assolutamente inammissibile'. L'eutanasia è condannata quale ‘forma di omicidio o di suicidio'. Cambiare sesso è considerato una ‘ribellione contro il Creatore' che la chiesa non ammette: se si presentasse per ricevere il battesimo qualcuno di sesso diverso da quello originario, egli sarebbe battezzato secondo il ‘sesso al quale appartiene al momento della nascita'”. Infine ecco la richiesta di alleanza con le altre confessioni: “Stiamo noi costruendo un'Europa completamente atea e secolarista, dove Dio è espulso dalla società e la religione spinta nel ghetto del privato, oppure la nuova Europa sarà la vera casa delle religioni diverse, diventando così autenticamente inclusiva e pluralista? Credo sia questa la domanda che le chiese in Europa e le comunità religiose devono fare, una domanda alla quale i politici hanno il dovere di rispondere”.