Se i sei mesi di presidenza belga saranno il colpo di grazia per l'Unione Europea
Josè Manuel Barroso ha rassicurato l'Europa: il semestre di presidenza belga dell'Ue, a partire dal primo luglio, “sarà un successo”. Il presidente della Commissione europea ha parlato a Bruxelles dopo un incontro con Yves Leterme, premier belga costretto un mese fa alle dimissioni a causa dell'ennesima crisi istituzionale interna. Il tentativo di Barroso è chiaro: dissolvere lo scetticismo imperante. Già l'Europa non se la passa bene – dicono a Bruxelles – con l'arrivo dei belgi non ci sarà da stare allegri.
Josè Manuel Barroso ha rassicurato l'Europa: il semestre di presidenza belga dell'Ue, a partire dal primo luglio, “sarà un successo”. Il presidente della Commissione europea ha parlato a Bruxelles dopo un incontro con Yves Leterme, premier belga costretto un mese fa alle dimissioni a causa dell'ennesima crisi istituzionale interna. Il tentativo di Barroso è chiaro: dissolvere lo scetticismo imperante. Già l'Europa non se la passa bene – dicono a Bruxelles – con l'arrivo dei belgi non ci sarà da stare allegri.
Le elezioni anticipate in Belgio sono previste per il 13 giugno: non è affatto scontato che per il primo di luglio i belgi avranno un nuovo governo. In più c'è la recessione, un debito pubblico di circa il 100 per cento del pil, per non parlare di una crisi istituzionale che dura da decenni. Il 22 aprile scorso il Partito liberale fiammingo Open VLD ha abbandonato la coalizione di governo costringendo il premier Leterme a presentare le sue dimissioni per la seconda volta nel giro di due anni. La maggioranza si è impantanata su un problema minore, relativo alla circoscrizione di Bruxelles-Hal-Vilvorde (BHV), unica tra tutte a non rispecchiare la netta divisione tra Fiandre e comunità francofona che caratterizza la cultura e le istituzioni belghe. In realtà BHV, come dichiarato dal leader di un partito francofono, “non è che la punta dell'iceberg”: i motivi degli scontri politici e dell'instabilità permanente sono molto più seri. Impiantate in un contesto istituzionale tanto articolato da apparire caotico persino ai nostri occhi di italiani, le radici del problema sono storiche, linguistiche, economiche.
La questione fondamentale è che il Belgio, pur riconoscendo formalmente fin dalla sua nascita eguali diritti a tutte le comunità linguistiche e culturali di cui si compone anche oggi, è stato per più di un secolo dominato dai francofoni a scapito degli abitanti delle Fiandre. Ora, per quanto le frustrazioni fiamminghe nel tempo si fossero acutizzate, fino alla metà del Novecento i valloni poterono permettersi di ignorare il problema dell'astio crescente nei loro confronti: erano di più e, grazie a fiorenti giacimenti di carbone presenti nei soli territori francofoni, erano più ricchi.
La situazione si è ribaltata improvvisamente e negli anni Sessanta le Fiandre hanno iniziato a trainare l'intera economia belga. La vendetta, dopo tali insperati risvolti, era inevitabile. I fiamminghi da allora sanno di essere più forti, e anche chi tra di loro non arriva a chiedere la scissione pretende quantomeno di non finanziare il costoso sistema pensionistico dei detestati coinquilini. Con delle Fiandre intransigenti da un lato e una Vallonia per cui la separazione sarebbe un suicidio politico, il dialogo è impossibile.
Dagli anni Settanta a oggi sono state fatte numerose riforme istituzionali; innanzitutto quella che ha reso il Belgio uno stato federale. Ma a forza di inventare strumenti adeguati alla rappresentanza delle diverse comunità, l'ingranaggio si è complicato e poi si è rotto. Il sistema politico belga è condannato all'immobilismo. Pochi esempi: il governo centrale, le tre realtà linguistiche (francofona, fiamminga, germanofona) e le tre regioni territoriali (la Vallonia, la bilingue Bruxelles e le Fiandre) sono differentemente rappresentate da sei camere legislative elette con criteri diversi e le cui competenze spesso si intrecciano e si sovrappongono. I partiti si distinguono secondo l'appartenenza territoriale: condividere visioni del mondo simili è secondario. La conseguenza è che i leader moderati sono spesso obbligati a coalizzarsi con le ali estreme pur sapendo che di fronte a certe rivendicazioni la maggioranza, per l'ennesima volta, non reggerà.
E' evidente che serve una riforma istituzionale risolutiva, ma è difficile intravederla per due motivi.
Da un lato, la Costituzione belga richiede l'approvazione dei 2/3 dei membri di Camera e Senato, cosa al momento molto difficile. Dall'altro, il governo che avrà finalmente trovato un accordo sulla riforma dovrà subito dimettersi, essendo richiesto il voto popolare per la creazione di una nuova assemblea costituente. L'ultimo governo Leterme, nato da una coalizione pentapartito, senza i liberali dell'Open VLD si trovava ad avere alla Camera una maggioranza traballante di 76 parlamentari sui 150 totali. Le dimissioni forse erano necessarie, ma non risolveranno un granché.
Anzi, proprio ora che il Belgio voleva giocarsi al meglio il semestre di presidenza europea, una tale crisi interna azzoppa qualunque velleità internazionale. Ma la si può anche vedere così: ora il Belgio non può sperare di acquisire credibilità nell'Ue a partire dalla sua situazione interna, perché con o senza governo, è chiaro che un tale caos istituzionale per essere risolto necessiterà di anni. Al contrario, la presidenza europea non dura che sei mesi: lo scetticismo sui risultati resta, ma è certo che i belgi devono partire proprio dalla Bruxelles europea per cercare di rafforzare la loro stanca e divisa Bruxelles capitale.


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