Il dubbio

Ci si può salvare dall'annegamento trattenendo il fiato?

Carlo Stagnaro

Ci si può salvare dall'annegamento trattenendo il fiato? La manovra da 24 miliardi era necessaria. Nessun dubbio su questo. Ma è sufficiente? O, per meglio dire, contiene tutte e solo cose giuste? A leggere i giornali di ieri, pare di sì. Sembra una processione di organizzazioni internazionali per baciare l'anello di Giulio Tremonti: la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale, le agenzie di rating, l'Ocse.

    Ci si può salvare dall'annegamento trattenendo il fiato? La manovra da 24 miliardi era necessaria. Nessun dubbio su questo. Ma è sufficiente? O, per meglio dire, contiene tutte e solo cose giuste? A leggere i giornali di ieri, pare di sì. Sembra una processione di organizzazioni internazionali per baciare l'anello di Giulio Tremonti: la Commissione europea, il Fondo monetario internazionale, le agenzie di rating, l'Ocse. La maggior parte dei commenti erano favorevoli. Persino due osservatori solitamente non morbidi col governo, Alberto Alesina e Roberto Perotti, hanno riconosciuto, sul Sole 24 Ore, come “per la prima volta si sia cercato di dare un contenuto concreto alla famosa espressione ridurre gli sprechi”. Tutto bene, insomma?

    “Macché – dice al Foglio Ugo Arrigo, professore di Scienza delle finanze
    all'Università di Milano Bicocca – Manca solo una spruzzatina di incrementi delle accise e sarebbe una perfetta manovra da crisi petrolifera degli anni Settanta. Il paradosso è che la manovra serviva comunque, quindi tanto valeva farla bene”. La manovra è inadeguata per qualità e per quantità: “Se volessimo stabilizzare il rapporto tra debito e pil, dovrebbe essere almeno di 50 miliardi. Per scendere verso il 60 per cento, che ci viene imposto dal Patto di stabilità, dovremmo tirar la cinghia ancora di più. Quindi dobbiamo aspettarci almeno altre due manovre”. “Il punto – chiarisce Grover Norquist, capo degli Americans for Tax Reform – è che ci sono solo due modi per ridurre il deficit. Uno è spendere meno. L'altro sono politiche pro-crescita come la deregolamentazione o il taglio delle tasse su lavoro, risparmi e investimenti”.

    Tremonti coglie l'esigenza di mantenere in equilibrio i conti pubblici nell'immediato, ma dalla filosofia della manovra pare assente il pilastro della crescita. Ragiona Alberto Bisin, economista alla New York University: “Nella manovra non mancano gli aspetti positivi, anche se cose come il condono nascosto nella razionalizzazione catastale strappano un sorriso. Però, in generale, è piccola e ha il respiro corto. Ci vuole più coraggio”. In quali aree? “L'Italia ha un problema di spesa pubblica eccessiva, quindi bisogna mettere le mani su pensioni, sanità e istruzione. E bisogna sapere che alcune aree del paese richiedono più attenzione di altre. Come si è distinto tra lavoratori pubblici e privati, occorre intervenire al sud più che al nord. Solo così si potrà incidere strutturalmente sulla spesa, e dunque ridurre le tasse. Altrimenti, la crescita resterà una chimera, e l'Italia rimarrà schiacciata sui tassi prossimi allo zero degli ultimi quindici anni”. La stagnazione italiana (e la bassa performance europea in generale) stupisce Matthew Kibbe, presidente di Freedom Works e stratega dei Tea party: “Non capisco perché i governi europei continuino a ignorare le riforme fiscali. Lo stesso atteggiamento, qui negli Stati Uniti, ha prodotto una rivoluzione politica nell'opinione pubblica. Credo che le stesse condizioni siano presenti in altri paesi. Il debito pubblico, la disoccupazione crescente e l'irresponsabilità fiscale sono un bacino politico volatile”. L'aspetto forse più paradossale, secondo molti osservatori, è la miopia degli interventi europei.

    Deve averlo pensato anche Tim Geithner, segretario americano all'Economia, che ha incoraggiato l'Ue a “ripristinare la sostenibilità di un sistema insostenibile”. Dietro questa velata critica, si nasconde un approccio diverso, lo stesso forse che nel passato ha portato il saggista neoconservatore Bob Kagan a dire che “gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere”. Washington insegue la crescita (che poi lo faccia con politiche efficaci è un altro discorso); Bruxelles si accontenta della stabilità. Paolo Pamini, dell'università di Zurigo, la mette così: “Il sistema anglosassone incentiva a buttarsi in progetti di largo respiro, mentre la politica dell'Europa continentale spinge verso il classico tran tran e la navigazione a vista. Forse perché manca una vera e propria effettività del comando, i governi devono sempre concedere favori alle minoranze che fanno da ago della bilancia. Per non scontentare nessuno, si danneggiano tutti”. E i risultati si vedono: nel 2007 e 2008, quando la crisi era finanziaria e americana, l'eurozona ha fatto solo marginalmente meglio degli Usa. Nel 2009, il pil americano si è ridotto del 2,4 per cento, quello europeo del 4,1 per cento. Ora che la crisi ha investito le finanze pubbliche europee, nel prossimo triennio il Fmi prevede una crescita media di 1,4 punti percentuali all'anno nell'eurozona, 2,7 punti percentuali negli States. La risposta non è inadeguata solo in Italia, allora. Apparentemente, siamo vittima di una sindrome tutta europea, che deriva forse dalla mancanza di una leadership visionaria, forse dall'oggettiva rigidità imposta dalle dimensioni pachidermiche del “modello sociale europeo”.

    Per Nigel Lawson, cancelliere dello scacchiere con Margaret Thatcher dal 1983 al 1989, “quello che bisogna fare, in molti altri paesi europei, non è semplicemente attaccare la dimensione insostenibile del deficit delle finanze pubbliche, ma la causa che sta a monte di quel problema, cioè l'eccessiva crescita del settore pubblico, a spese del settore privato e della creazione di ricchezza. Questa è la ragione per cui è vitale che la riduzione, e in ultima analisi l'eliminazione, del deficit pubblico sia raggiunta soprattutto riducendo l'invadenza dello stato, come abbiamo fatto nel Regno Unito negli anni ottanta, garantendoci un'economia più vivace e un avanzo di bilancio”.