Il papa straniero

Il vuoto politico del centrosinistra che Repubblica in tutti i modi cerca di colmare

Alessandra Sardoni

C'è un aggettivo che ricorre negli ultimi due anni di cose scritte (sul suo giornale) e di cose dette (in tv) da Ezio Mauro: “Contendibile”. Contendibile dovrebbe essere il Pd, rammentava a Veltroni dimissionario, il 18 febbraio 2009; contendibile è il paese, spiegava al Pd dopo le regionali, rimproverando ai leader democratici di non averlo saputo contendere a un Berlusconi indebolito, a suo avviso, soprattutto dalle campagne di Repubblica.

Leggi il ritratto di Ezio Mauro

    C'è un aggettivo che ricorre negli ultimi due anni di cose scritte (sul suo giornale) e di cose dette (in tv) da Ezio Mauro: “Contendibile”. Contendibile dovrebbe essere il Pd, rammentava a Veltroni dimissionario, il 18 febbraio 2009; contendibile è il paese, spiegava al Pd dopo le regionali, rimproverando ai leader democratici di non averlo saputo contendere a un Berlusconi indebolito, a suo avviso, soprattutto dalle campagne di Repubblica.

    Eppure il paradosso è che proprio il Pd troppo conteso
    all'interno e non contendibile all'esterno, non scalabile dalla società civile tanto cara all'azionismo di massa by Repubblica, crea lo spazio per le ambizioni dirigiste che Ezio Mauro peraltro condivide con il suo editore Carlo De Benedetti e con il suo predecessore Eugenio Scalfari, sia pure in forme molto diverse. E' nella debolezza delle leadership del centrosinistra il vuoto che attrae, che nutre gli scenari dei papi stranieri e che spiega la conversione multimediale del direttore di Repubblica descritto da tutti coloro che lo hanno frequentato agli esordi e ne hanno accompagnato il cursus honorum, come schivo, mai mondano, mai tentato dall'idea di un'incarnazione extracartacea fino a quando improvvisamente apparve e firmò autografi nei gazebo di Repubblica alla manifestazione per la libertà di informazione a Roma in ottobre. O si materializzò – ci sono testimonianze – in un salotto romano: quello di Sandra Verusio, cosa mai accaduta prima.

    “Siamo infinitamente meno di un partito e però forse qualcosa di più”, ha detto Ezio Mauro ospite di Fabio Fazio il 10 gennaio scorso. Negava l'esistenza di  Repubblica partito e contemporaneamente ne celebrava proprio la capacità di rappresentanza a partire dalla “community che si è creata negli ultimi mesi” intorno alle grandi raccolte di firme: dal caso Noemi, alle leggi bavaglio, in seguito saranno gli osservatori dell'Onu alle elezioni regionali implorati da Saviano. Più che la smentita in quella dichiarazione c'è il credo nella superiorità politica del giornale rispetto al partito fin quasi a una sorta di misticismo che fa paragonare le dieci domande a Berlusconi su Noemi al Watergate (così nell'ospitata a “Che tempo che fa”). Non sorprende che in un lungo memorandum del '97 Rondolino e Velardi, allora spin doctor di D'Alema, consigliassero al loro leader di intervenire “direttamente o indirettamente sugli editori”, per cambiare i direttori del Corriere (De Bortoli) e di Repubblica (Ezio Mauro) perché servono non “direttori dell'Ulivo, ma che riconoscano il primato della politica”.

    Dove politica era quella dei partiti, del partito. Un grande vecchio del Pci come Gerardo Chiaromonte diceva che Repubblica è l'unico partito italiano retto dal centralismo democratico. Erano i primi anni Novanta, e la gestione Mauro ha rafforzato questa tendenza. O, come dice qualcuno, “militarizzato”. La stretta di mano al caporedattore, come il direttore d'orchestra al primo violino, tutte le mattine in riunione simboleggia l'omaggio al corpo del giornale. Come pure il fatto che la mano in questione sia quella del caporedattore e non del vicedirettore (la cosa storicamente ha provocato gelosie) o l'aver nominato vicedirettore l'art director colui che, tra le altre cose, disegna le pagine, Angelo Rinaldi, amico di sempre. Stessa struttura monarchica dell'orchestra affine anche nell'abbigliamento – e la riunione on line da questo punto di vista è istruttiva.  Nulla di più lontano dunque dalla leadership collettiva in voga del Pd bersaniano soprattutto dove le differenze non si limitano certo all'abbigliamento.

    “Bersani ha una leadership forte,
    ma sono sicuro che avrà la generosità anche di cercare fuori il leader, se necessario. Del resto, è successo con Prodi”, ha detto Mauro a Lucia Annunziata, meno di un mese fa aprendo le ostilità con l'attuale segreteria. Il leader deve avere “un'identità”, essere “laico, di sinistra, capace di fare opposizione”: non Montezemolo offerto ai sondaggi dall'Espresso e risultato vincitore tra sospetti e veleni, non Mario Draghi risorsa per l'emergenza da scongiurare. Nemmeno Bersani sembra di capire dalla forza delle bordate, compresa la citazione di Norberto Bobbio sul fatto che la sinistra deve prima chiarire la sua natura e poi pensare al futuro.

    Bersani ha risposto dal palco dell'assemblea nazionale difendendo D'Alema dagli attacchi di De Benedetti definiti “critiche pelose” ed evitando di rispondere ai precedenti rimproveri di Ezio Mauro: segnali di un'insofferenza storica. Di dispiaceri peraltro provati da molti dei leader perfino dagli “eletti” poi caduti: Veltroni favorito da Repubblica soffrì quando Ezio Mauro scrisse che “le sue dimissioni da segretario erano obbligatorie”.
    Il direttore di Europa Stefano Menichini ha messo in guardia Repubblica dal pericolo Santoro: anche lì la mistica del giornalismo può contendere lo spazio lasciato libero dalle debolezze del Pd, e “Raiperunanotte”, secondo Menichini, è stata la prova muscolare del conduttore televisivo e un punto di non ritorno.

    Essere il successore di Scalfari, il coabitante fiduciario di un editore appassionato di politica come CDB, spesso spiazzante, pronto a invadere i luoghi solitamente deputati dei direttori – dicono che Mauro non fosse informato del libro intervista con Paolo Guzzanti – insomma: essere Ezio Mauro, da 14 anni alla testa di Repubblica appare faticoso, talvolta. Ma sulla sua capacità di resistenza fisica, sull'ingualcibilità psicomorfa, mai la testa reclinata, mai una mano nei capelli, le testimonianze non mancano. Dice Pietro Calabrese: “E' riuscito a fare il direttore di Repubblica per tutti questi anni e credo, anche se non ci vediamo da qualche mese che non voglia andare oltre le prossime elezioni per non ripetersi, non lo vedo in politica, ma non lo vedo ritirarsi ”.

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